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mercoledì 4 novembre 2020

1 year after, and it is not bad at all!

💀 ENG: This content can't be translated into Italian because the large amount of  assumptions and common-sense would be lost in translation. Please notice that this content includes lots of implicit, which the direct links may help (hopefully) to disveil. Enjoy! 


👾 IT: Questo contenuto non puo' essere tradotto in Italiano a causa dell'incredibile quantita' di stereotipi e sensi-comuni che andrebbero persi in traduzione


Today it's the anniversary of me and England 💓💋💣



Well, I can't really say it is the most exciting, close-knit or enthusiastic love story of my life: it is surely miles away from the big crushes I had for Poland and Jordan.
Ops, sorry, being too honest already?
At this point, I should have learned "how to speak" - in the UK, to English people, talking about England itself! Damn me....
I will try again: "my relationship with England is surely alternative, and it is brilliantly exemplified by the constant tension between "it is not too bad" and "it is not bad at all". Polite notice: it is raining, again".
But well, it is stable, indeed. And it reminds me of the importance of appreciating small things - very small things: tea, porridge, and scrambled eggs. 
Especially, from today it is an established relationship - currently one of the most craved status in all United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland!
Not only I am with them (the Kingdom, the Great Britain, the Northern Ireland and even the Overseas territories) since more than a year, but I can tackle so many of the criteria listed in this stunning piece of sociological enquiry:


The ones I am more proud of are:
1. It is an exclusive relation, as Covid didn't allow anyone to fly - and thus to be volatile 😂
2. I say love to them at least once a month, when I accommodate my mind to "it is what it is".
3. I have met so many of its friends - mainly Britons which are not Britophiles at all - aka: they didn't vote for Brexit.

Well, I am making a bit too much irony in here. I can already see my English friends smiling a bit but actually going "very upset" inside.



Some of them will probably text me to say that they are sorry that I feel sorry for feeling sorry about their politeness...

The ones who know me, though, can easily realise my strategy: I am just pretending to dislike something(one) that I actually enjoy very much to see if it sticks with my perfidy long enough to be worthed the effort. 
I can't say I love England, and you know why? I just didn't see any of it. 
But Liverpool, well, is sticking with me. And I really love it - probably I always did, also when, after a week I was here, I got robbed of my phone!
And this love, unconditional and (honestly) a bit crazy, can only be explained by the unique soul of this city.

Liverpool, I met you in a cold rainy day of early November. I was full of enthusiasm and you were full of rain and damp. But anyway, I gazed at the sky, and started enjoying the cool feeling of drops tickling my face. Along this crazy year, you gifted me with a huge amount of rainy days, muddy leaves, soggy countryside. With a big enough amount of pints - with or without Covid, a large amount of partying, and a long list of "hair of the dog". You are so messy, so dirty, so disorganized. But you have the prom along the Mersey, and the sunset on the docks, and the dunes of Formby (and the erotic dream of Klopp) and the mud of Thurstastone. Your music is all a "lovely" in the streets, your people are crazily loud incomprehensible scousers, all very funny. 
You are just magic in your own, and I don't even know why I am trying to explain it by words.
At the end, you are more than a city, more than a place: you are a feeling.

A feeling a bit crazy, which feel good indeed, and which still has a long way to go!

 "So, if you're ever feeling down
Grab your purse and take a taxi
To the darkest side of town
That's where we'll be
And we will wait for you
                                                                            {...} celebrate the irony
                                                                           Everything is going wrong


mercoledì 5 febbraio 2020

LANGAS: Storie da uno slum di Eldoret, Kenya



Langas, lo slum a Nord di Eldoret, è uno scenario lontano dagli slum di Calcutta. Bastano pochi minuti per far vacillare l'idea che gli slum siano tutti uguali. Qui gli spazi sono più ampi, l'elettricità si catapulta al suo interno con tralicci immensi che delineano il profilo in ogni punto dell'orizzonte. Le strade sono cariche di vita e di attività, caotiche, rumorose, disordinate. Ci sono i matatu, i minibus locali, che ingombrano entrambe le carreggiate con le loro mosse imprevedibili, poi ci sono i picky-picky, le motociclette, con il loro fare ondeggiante e i loro autisti che aspettano ad ogni angolo il nuovo cliente. E poi, le bici, ferruginose e scricchiolanti, che spesso diventano mezzi di trasporto per carichi improbabili, sempre al limite dell'equilibrio. 




Qui le case non sono di cartone, e nemmeno di paglia. Sono di fango, imbrigliato in rudimentali strutture di legno, o di legno, o lamiera. Sporadicamente, nella povertà del luogo, emergono alcune ville. Sono recintate, protette, rassicurate dalla scritta sul portone: "attenti al cane". I miei accompagnatori ridono di quel deterrente, si prendono gioco dei loro padroni, confinati nel proprio idillo d'oro e obbligati ogni giorno a temere i propri vicini.
Mi chiedo se queste case siano state costruite prima o dopo che lo slum si diffondesse tutto intorno. 


Passeggiamo nelle strade fangose, sconnesse da giorni di pioggia violenta che non lasciano tregua, e nemmeno spazio per la stagione secca. Lo chiamano "cambiamento climatico" anche qui.
La privacy degli abitanti è protetta da dei rudimentali recinti di legno: da fuori puoi solo indovinare le dimensioni e lo status socio economico (che varia da povero a molto povero a tragicamente povero) dell' household (è strano che in italiano non ci sia una parola per indicare un insediamento abitativo per più persone, autonomo e separato dagli altri, che non sia la parola "casa". La parola casa trapela accoglienza, stabilità, comfort, mentre questi household sembrano così precari, i proprietari /affittuari si sono ritagliati un po' di aria nel caos dello slum giusto per sopravvivere, ma spesso sono costretti a condividere con (molti) altri. Nella stessa stanza cucinano, dormono, e i bambino studiano e giocano).


Entriamo in uno di questi 'nuclei abitativi', ci sono tre splendide donne ad accoglierci. Una sembra molto preoccupata, freme tenendo in mano il telefono.
Un'altra chiama i bambini per vedere la 'mzungu', la prima persona bianca che  entra nella loro casa. La più grande viene a stringermi la mano, come si usa qui. Un gesto un po' troppo formale per l'atmosfera africana, forse un remissivo retaggio colonialista. Il bambino più piccolo mi guarda un po', è eccitato: la mamma mi ha descritto come una sorpresa. Ma quando mi vede si spaventa, e si mette a piangere.


È strana, questa sensazione di "bianchitudine". Per i bambini dei villaggi o degli slum, i bianchi sono creature che hanno visto solo nei libri. Mi studiano con circospezione, credo che mi considerino un umano che non ha ancora raggiunto il suo ultimo stadio di maturazione. Ridono, sghignazzando tra di loro. Se non sapessi che qua si usa così, probabilmente  mi offenderei. Ma mi dimostrano la loro amicizia, sono accoglienti, mi vogliono stringere la mano, vogliono che scatti loro una foto.
Quando usciamo da questa casa, Jason, il mio accompagnatore, mi spiega che la donna era agitata perché la figlia è in ospedale. Ha appena partorito, e ha solo 14 anni. Si sente in colpa, le neo nonna, perché un giorno ha lasciato la casa incustodita ed è andata in campagna, in cerca di cibo. E questa negligenza obbligata, di cui non poteva fare a meno,  le è costata cara: qualcuno ha bussato alla porta e ha abusato della ragazza. 
Ieri sera, la stessa sera di questa storia, Rula Jebreal parla a Sanremo e racconta di sua madre, abusata a 13 anni e finita suicida. Forse possiamo solo parlarne così, da donne, con la freddezza che circonda la consapevolezza di un orrore globale.
Proseguiamo, e arriviamo a una scuola. I bambini mi guardano dai cancelli e un signore, seduto all'ombra su una sedia di plastica, ci invita ad entrare. È  il direttore. Questa scuola accoglie orfani, bambini rifiutati dalle famiglie, figli di tossici o alcolizzati. Provvede tre pasti caldi al giorno, educazione gratuita,  uniformi e materiali. Si finanziano dividendo i proventi delle tasse di iscrizione di chi può permettersi di pagarle.



Ci sono due bambini che giocano sotto il sole, sporadicamente colpiti dall'ombra della bandiera nazionale che sventola a mezz'asta: oggi è morto Moi, 96 anni, secondo presidente nella storia del Kenya.
Girato l'angolo c'è il parchetto della scuola. Ci sono almeno 200 bambini. Il preside mi trascina dentro, i bambini sono stupiti ma giudiziosi, cercano di rimanere composti: "oggi abbiamo un'ospite speciale, credo che mai, nella storia della nostra scuola, siamo stati visitati da un Mzungu!".



 Tutti ridono, i bambini urlano per l'emozione. Il preside mi chiede se posso salutarli (uno a uno, con una stretta di mano!), ma la cosa si fa complicata, e appena mi avvicino  a quelli in prima fila, tutti mi si gettano addosso, aggrappandosi ai miei polsi, nella speranza di raggiungere con un tocco almeno un centimetro della mia pelle. Ho un braccialetto con delle coccinelle, mi chiedo come sia ancora con me invece di essere stato smaterializzato dalla forza incontenibile dei bambini. 
Appena il preside dice 'pole pole', 'piano piano', torna l'ordine e mi fanno spazio. Si aspettano che io dica loro qualcosa, ma questa visita è casuale e non prevista. Non sanno dove è Liverpool, e nemmeno l'Italia. Mi raccomando loro di studiare tanto, e di farlo per il loro futuro. Sembrano convinti, finché uno dei più grandi fa crollare tutte le certezze: "u dont need books to run: look at Kipchoge!" (non ti servono i quaderni per correre: guarda Kipchoge!).
Il maratoneta più forte di sempre, quello che ha battuto il muro delle due ore, vive a Eldoret. È il loro idolo, ovviamente,  indistintamente  tra maschi e bambine.
Qualcuno, più razionale, dice che vuole diventare pilota, qualcun'altro avvocato.
Una ragazzina, intimidita, sembra cercare le parole più adatte, ma poi francamente mi chiede "why you are like this?", "perché sei così?".
Gli adulti ridono, provo a dirgli che in Inghilterra non c'è il sole,  e che in Italia non è così forte. Ma contrattaccano: "quindi se resti qui, diventi come noi?".
 Mhm, magari!
Sempre la stessa ragazza mi chiede se possono vedere i miei capelli. In effetti,  non ho realizzato quanto sono bardata: vestiti lunghi contro gli insetti, occhiali da sole da cicala perche tutto rifulge, e la bandana nei capelli per evitare un'insolazione. Nessuno osa tirare uno dei due lacci che la stringe, ma appena faccio il movimento per slacciarla, il foulard fugge via, tra le mani di un monello. Nessuno lo realizza, perché parte un "ohhh" collettivo quando i capelli, liberati, fuggono qua e là. Tutti li vogliono toccare. Si sa, le donne africane non hanno i capelli lunghi, e soprattutto non li hanno lisci, biondi e soffici. Una bambina è  riuscita a strapparmene uno, e lo scruta con le compagne con fare scientifico, come facesse una biopsia. 



Tante cose sono successe, ma ero troppo circondata, in un certo senso "sopraffatta" dai bambini in questa visita inaspettata da rendermene conto.
Li saluto, proseguiamo. Torniamo sulla via principale. Qui gli adulti si dedicano alle loro attività. Vendono prodotti, offrono servizi. Una donna mi allunga un pesce affumicato davanti alla faccia. Un ragazzo si avvicina così tanto e così repentinamente che in qualche modo mi spavento. Poi tira fuori da una tasca un mango, e ce lo regala.
Io e Nancy saliamo sul matatu, è tempo di tornare in città. Ci schiacciamo tra i sedili, che sono a prova di dieta dal tanto che sono stretti. Ma in qualche modo ci entriamo, e partiamo: 20 persone in 14 sedili, musica  a pallettoni,  finestrini abbassati, in un mix di sudore e di duro lavoro. Un mio caro amico dice sempre  "Serena, u like shitty places" (Serena, ti piacciono dei posti orribili!). Non so come sia possibile, ma è cosi. Nancy lo realizza, e vede quanto sono felice. Facciamo un selfie, per le buone memorie e per l'umanità incontrata, risvegliata, e mai sufficientemente immaginata, che si ritrova qui, a Langas.




venerdì 13 dicembre 2019

PENSIERI SPARSI SULLA BREXIT - da Italiana in Inghilterra


Per qualche strano caso della vita, ogni volta che ci sono delle elezioni politiche importanti, il giorno post-elezioni mi sveglio in qualche parte del mondo diversa da casa, o ricevo un nuovo biglietto aereo per qualche luogo lontano.
Il 10 Novembre 2016 ero a Malta: con la mia amica Silvia ci siamo svegliate, guardate in faccia, e girate dall’altra parte, immerse negli schermi dei nostri cellulari che dispensavano - con tanto sensazionalismo quanta sorpresa - la notizia della vittoria di Donald Trump.
Il 5 Marzo 2018 ho ricevuto la conferma che sarei partita per la Giordania, e ho prenotato il volo allontanando i pensieri nefasti (e premonitori?) su quali sarebbero stati gli effetti dei risultati delle elezioni politiche italiane del giorno prima.
il 13 dicembre 2019, che e’ pure venerdi’ – e quindi, in Inghilterra, porta il doppio della sfiga! – mi sono risvegliata a Liverpool con questo Nightmare before Christmas, la vittoria schiacciante di Boris Johnson. Nel pomeriggio mi e’ arrivata la conferma del mio prossimo viaggio, in Kenya.
Oggi e’ Santa Lucia, il giorno piu’ corto che ci sia (e per fortuna, mi viene da dire!), se non fosse che non e’ detto che le cose, da domani, possano solo migliorare.
Sono in Inghilterra da poco piu’ di un mese, e faccio conto di rimanerci per un bel po’. Non ho scelto di venire in Ighilterra, semplicemente, mi si e’ presentata l’occasione di venirci. Non posso dire di esserci affezionata, non ancora, quantomeno: ma Liverpool e’ una citta’ fantastica, gli inglesi sono dannatamente rassicuranti, gentili, incoraggianti. Il tempo fa pieta’, e il cibo e’ discutibile, ma si vive bene. Un italiano vive bene, qui, soprattutto se ha a che fare con l’universita’. La risparmiamo la nota sulla fuga dei cervelli e sulle centinaia di studenti?dottorandi?ricercatori?professori italiani che ho incontrato nell’ultimo mese?
Risparmiamola.
Credo che, stamattina, tutti noi, italiani e non, ci siamo svegliati (e ci siamo sentiti) un po’ piu’ stranieri.
Ovvio, il primo pensiero e’ stato: ma chi diavolo l’ha votato? Perche’ in effetti, se parli con un inglese non ti dira’ mai che ha votato per la Brexit, ne’ per Boris Johnson.  Il punto e’ che qualcuno l’avra’ pur votato - un po’ come quando da noi nessuno apparentemente votava Berlusconi, ma poi vinceva sempre.
Il secondo pensiero e’ stato: vabbuo’, tanto io sono cittadino italiano, no? passaporto europeo, lasciapassare per il mondo.
Eppure Boris Johnson fa vacillare anche queste certezze, che in fondo non sono altro che una specie di retaggio neocolonialista che ci crede immuni e potenti (solo) in virtu’ della nostra occidentalita’.
In fondo, gliene sono grato: e’ sempre buona cosa mettersi in discussione e cercare di riposizionarsi nel mondo. Lo so, appartengo a una classe di giovani privilegiati che “ha scelto di andarsene all’estero”, cit.. Che fa le valigie e prova a partire, tanto non ha nulla da perdere (se non le speranze). Che in fondo, se va male, puo’ sempre tornare da Mamma Italia e “ti adatti, che qualcosa se hai voglia di lavorare lo trovi”. Tutto-dannatamente-vero.
Grazie Boris per questo pugno in faccia, per questa doccia di acqua gelata.
Non ho mai creduto nella Brexit, ma mi pare evidente che ora sia un evento ineluttabile. Basta romanticismo.
Nessuno sa cosa succedera’, e oggettivamente non c’e’ nulla di peggio dell’incertezza, del non sapere cosa ti aspetta.
Il punto non e’ lo sbatti del passaporto, non e’ nemmeno la complicazione del presunto visto elettronico. Ci sono questioni piu’ complicate e profonde del disagio passeggero dei turisti dal weekend a Londra che, in fondo, uno sforzo per entrare in UK possono pure farlo.
Ma per (noi?) stranieri, che viviamo qua, e che stiamo cercando di costruirci un pezzo di vita in Inghilterra, di investire energie, presente e futuro per qualcosa di migliore (e forse nemmeno per qualcosa di migliore, ma semplicemente per qualcosa di diverso?) cosa ne sara’?
Il mio aspetto pratico e’ al limite dell’incredibile. Boris promette Brexit entro fine gennaio. E’ ovvio che non sara’ cosi’, da un giorno all’altro, ma e’ davvero cosi’ ovvio? Lascero’ la nazione per quindici giorni, a ridosso della data: potrei uscire dal paese e rientrarci (forse) sotto una condizione completamente diversa. Le segreterie mi soffocano di email per farmi notare che forse dobbiamo cambiare le date, che tornare a meta’ febbraio puo’ portare a complicazioni: ammettere complicazioni nella mia testa si traduce nel darla vinta alla schizzofrenia di Boris, quindi rilassiamoci.
Eppure, stamattina ho chiamato in comune, mi sono iscritta ai registri. Poi ho chiamato la previdenza sociale, e ho preso un appuntamento per avere il numero fiscale. Ho controllato di aver caricato tutti i documenti per il pre-settled status. Gliel'ho data vinta.
Ho sentito una necessita’ urgente di veder scritto da qualche parte che non sono una turista, di avere una prova burocratica della mia presenza sul suolo inglese. Mi sono sentita in necessita’ di farmi ingabbiare da un sistema che, nel darti uno status, ti prende tra le sue maglie e ti stritola: perche’ se vuoi stare qui, adattati e dicci cosa sei qua a fare. Mi sono sentita inadeguata nel mio stato marginale, indefinito, che fino a ieri era semplicemente quello di un qualsiasi Cittadino europeo in libera circolazione sul suolo europeo, per entrare in quello di Cittadino europeo in un' Inghilterra in transizione per la Brexit. E’ stato bruttissimo, mi sono sentita totalmente impotente, come se il mio destino dipendesse  veramente da “quelli che stanno in alto”. Mi sono sentita in qualche modo, clandestina, pur senza esserlo.
Eppure, e’ stato un momento catartico: non mi sono mai sentita cosi’ vicina a tutti i miei amici non europei che combattono da anni per resistere all'impregnante potere di questa parola: “clandestino”. Una parola che alla fine diventa un’identita’, e non sei tu, ma sei "il clandestino". Ho pensato ai miei amici ingabbiati in Giordania, con un passaporto che e’ carta straccia. E anche ai miei amici africani, che stanno in Italia e sono macinati pure loro dalle maglie di una burocrazia estenuante che li mantiene in uno status indefinito per anni. Che blocca il loro futuro. F-U-T-U-R-O!
Non sono degna di paragonarmi a loro, il mio privilegio da occidentale mi posiziona ancora una volta troppo avanti. Penso tutti i giorni a quanto presente e quanto futuro loro stanno perdendo.
Eppure, in questo flusso di pensieri e nella volonta’ di cercare sempre  un insegnamento utile in cio’ che accade, sono grata a Boris Johnson di avermi insegnato ancora una volta che c'e' solo una cosa da fare. Puo' essere dannatamente difficile, ma: RESISTERE, SEMPRE! 


mercoledì 20 novembre 2019

SCOUSE SCENE: Due settimane dopo... - Two weeks later

IT
(ENG Below)

Sembrerebbe che, in confronto alla Giordania, non abbia proprio nulla da dire...
Che da quando sono a Liverpool non sia successo nulla di significativo, eccitante, memorabile.
Non è così, ovviamente ;-)
Ma mi sento un po' confusa, forse disorientata. E la cosa (sorprendente) è che mi sento più disorientata qui, in una nazione - per il momento, ancora - "europea", di quanto mi sentissi in Medio Oriente....ma questa, è un'altra storia - che tutti già conoscono ;-)
Beh, la prima cosa sorprendente che mi è successa è sicuramente il furto del cellulare, dato che sono riuscita a farmelo rubare nella "civilissima" Inghilterra appena una settimana dopo il mio arrivo! Ma questa è colpa mia, essenzialmente, e sarebbe successo in qualsiasi parte del mondo a qualsiasi tonno - o sardina? - che abbia lasciato il telefono incustodito sul tavolo di un pub di fronte alla stazione...
Sopravvissuta al disagio di tre giorni senza telefono e all'imbarazzo di una email della polizia inglese che mi invita a rassegnarmi al furto - "le videocamere del locale non hanno permesso di identificare il ladro": peccato che abbiano controllato le telecamere del locale sbagliato! - mi ripiglio, trovo una casa, compro una bicicletta, comincio a orientarmi nel campus universitario.
Ci sono alcune cose che mi hanno sorpresa in queste due settimane:
1. Al momento, Liverpool è molto meno piovosa del previsto - saranno queste le ultime parole famose?
Capita spesso che ci siano abbaglianti mezz'ore di sole, in cui tutta la città sembra riacquisire la sua forza e rinvigorire nel (vano) tentativo di scappare dall'umidità. La città resta pur sempre bagnata, perchè quando il sole dà spazio alle nuvole, c'è quella pioggia sottile come spilli che ti lascia nello shakespeariano dilemma "Apro l'ombrello o non apro l'ombrello?". L'ombrello sembra sempre inutile, se non fosse che alla fine ti trovi completamente bagnata. L'ombrello sembra sempre utile, se non fosse che il vento fa il suo giro e lo rende inutilizzabile.
2. Gli inglesi del Nord sono estremamente socievoli - quasi Mediterranei?
Beh, la buona educazione e l'eleganza inglesi sono note a tutti: sono sempre così gentili, composti, misurati... esattamente come noi italiani! Ah, no..
A volte ti chiedi come sia possibile, che questi siano sempre così perfetti e così garbati. Io credo che non sia possibile che lo siano sempre: semplicemente, se sono contrariati o infastiditi, il loro sangue blu li tiene a freno, attiva una procedura di meditazione interna, e alla fine il massimo della loro reazione consiste in una elegante e cerimoniale perifrasi per dirti che hai fatto qualcosa di sbagliato. Insomma, gli inglesi non sono persone molto pratiche ;-)
Tornando all'affabilità, sono molto sorpresa di quanto gli Scousers - termine per indicare gli abitanti di Liverpool - siano aperti e amichevoli. Non è raro essere fermati in mezzo alla strada da qualcuno che, notando che sei nuovo o che stai cercando qualcosa, non solo si ferma ad aiutarti, ma comincia anche a fare conversazione e amicizia.
A quanto pare, c'è una certa rivalità tra Nord e Sud: pare che gli inglesi del Nord siano molto più alla mano di quelli del Sud, più socievoli, meno altolocati, più onesti. Sono capitata nel posto giusto?
3. Il cibo inglese è veramente s... squisitito? No. Saporito? No. Sofisticato? No. Sorprendente? Sì!
Beh, sorprende innanzitutto perchè non esiste. Qual è, esattamente, il cibo inglese? Un inglese ti risponderà che qua le culture sono tutte mischiate e che non c'è un vero e proprio piatto nazionale o qualcosa di tradizionalmente inglese antecedente al flusso migratorio - ti dirà anche che noi Italiani siamo così arroganti, che pensiamo che la pizza e la pasta siano buone solo come le facciamo noi! Beh, si cerca sempre di toglierli dal'imbarazzo e di non svelare loro cosa vuol dire quel "come le facciamo noi"!
4. La città è favolosa, tradizionale, elegante e incredibilmente inglese. Forse questa è la riflessione più profonda di questo stream of consciousness. Quando sono arrivata qui, sono rimasta sorpresa e forse anche un po' angustiata dall'architettura e dal profilo urbano. Tutte queste casette a schiera, colorate, in legno, con 2 mq di giardino intorno. Dico angustiata perchè mi sembrava di stare dentro una storia delle fiabe, in un mondo parallelo, non globalizzato, non modernizzato, non conformato! Sono stata molto ingenua, ma la mia mente cercava palazzi e grattacieli di default. Sono serviti alcuni giorni per accettare che la forma della città è questa, sia nel centro che nei sobborghi, e per apprezzare che in un mondo che si omologa, Liverpool resiste elegantemente!

Così, mi trovo a "biciclettare" tra questi viali alberati, scivolosi per lo strato di foglie spappolate dall'acqua. Ad apprezzare la bellezza di una città - Liverpool è pur sempre la terza città più grande dell'Inghilterra - che non ho ancora ben capito e che non sono sicura di saper descrivere a parole, ma che mi avvolge in un'atmosfera incredibilmente confortante.


ENG

It seems that I have nothing to say, if compared with my first steps in Jordan. That since I am in Liverpool nothing exciting happened. Of course it is not like this ;-)
But I feel a little bit confused, and the surprising thing may be that I feel more disoriented here, in a - lasting - European country, than how I felt in the Middle East. But this is another story, which everyone already knows!
The first surprising thing in which I bumped into was the robbery of my phone, just a week later then my arrival. But this would happen everywhere, if you leave your things unattended in a pub close to the station.
As a surviver, after three days without phone, I got an email from the police which says "the CCTV camera could not help in the identification of the thief": I just gave up, not considering that the police checked the cameras of another pub! 
I found a house, I bought a bike, I am starting orienting myself in the university campus.
There are some things which really surprised me in these two weeks:
1. At the moment, Liverpool does not seem so rainy - the famous last words?
Often there are sunny half-hours, when the city seems to regain power and to dry a bit. The city is still wet, indeed: when clouds come back, a fine slight rain starts and the Shakespear-dilemma is "Should I open the umbrella or no?". The umbrella seems always useless, 'cause it appears to rain slowly: at the end you are completely wet.  The umbrella seems always usefull, but the wind turns it useless again.
2. English from the North are extremely sociable - kind of Mediterreans?
English politeness and elegance are well-known: they are always so kind, composed, formal... as the Italians! ;-)
Sometimes you wonder how this is possible: I think this is not possible: just, if they are upset or disappointed, they engage into a self-meditation. The outcomes is just a long, polite way to tell you that you mistook something. Very practical people ;-)
Then, Scousers - typical name to refer to Liverpool people - are really open and friendly. It is not rare that someone stops you in the middle of the street if they see you are searching for something. They help and they engage in a sociable, funny conversation. Maybe, they ask for your contact ;-)
Seems there is quite a competition between English from the North and English from the South, the first pretending to be more sociable, less posh, more honest. Am I in the right place?
3. English food is...Delicious? Tasty? Surprising?
Yes, Surprising, since it does not exist. Which is the typical English food? An English person would reply that here cultures are so melted and there is no national food - an English would also say that Italians are so arrogant since we pretend to call "pizza" or "pasta" only the ones we made!
4. The city is faboulous, traditional, elegant, extremely English. Maybe this is the most serious thing I am writing out of this stream of consciousness. When I arrived, I was surprised and also a bit anguished by this architecture. All these tiny tight woody houses! Anguished because I was automatically searching for blocks and skyscrapers, I felt to be into a fairy tale, in a not-modern, not -globalized world. 
I have been very naive: after some days I started appreciated the shape of the city and its way to resist - traditionally, proudly, English! - in a world which is conforming.

Thus, I ride the bike in the tree-lined avenues, with a slick layer of melted leafs on the ground trying to kill me. Meanwhile, I appreciate the beauty of a city like Liverpool, which is the third largest of England, but has a conforting atmosphere able to let me feel home.



domenica 3 novembre 2019

Yalla, I am moving again!

ENG
(IT segue)

When I got this news, I was in Jordan, cooking Kofta with my Jordanian sisters. I was so happy that I was even astonished, and they were so happy for me to make the ear-breaking typical women sound of the Arab cultures, like a yowl of joy.
It was my second-last day in Jordan, and sadness was all around... But in the evening we (lowly) celebrated with a booza, wondering how to manage this new future with my periodical visits to Jordan...
Back to Italy, I shared my enthusiasm with friends and family, ready to start after a week...
But it was not the time....
A crazy period of (daily) fighting with the English burocracy was killing me, all together with a surrounding boredom which was murdering my enthusiasm.
It has been kind of pain, to be honest, and sometimes I was going to give up: something new was always in the corner to hinder my departure....
Often I thought I would have never move on toward this new experience...
To fight the discouragement, I found myself painting, going to the mountain, and working randomly: I also did a grape harvest, such an hard physical work for me!
Now it is time to move: everyone around me it's saying "finally!".
The reality is that I am not really conscious of the departure, I feel a little bit shaked and somehow sad...
Two months at home, enjoying family, friends, good food and nice autumn weather. Enjoying the sweet, slow life-style of the valley, while summer was expiring carrying on all the memories of a (practically and emotionally) bulky 2019.
My friends and my family have been tremendous, wonderful, special and now it is kind of your guilt if I feel so nostalgic about moving on. You all known very well how much I worked toward this project of moving abroad, finding a Phd and keep studying. You all followed the steps and you all have been so supportive and encouraging. Thanks for surprising me so much and once again about the power of friendship. I really feel that I would always be able to rely upon you. 
I don't hide that I am incredibly terrified by the idea of moving for so long, and in such a humid place as Liverpool is. I am scared to move out from the warm confort zone which has been created for me here, in these weeks, in these months, in these years. Maybe it is the normal downside of a wish that you are really coped for....
It has been a crazy year: less then one year ago I was in Jordan, shaked by thousands of different emotions, all of them incredible and somehow crazy. I have been back, during the winter: the most difficult readaptation of my life. I wrote my thesis, worked at school, visited Germany, France, Armenia. I went back to Poland, after three years of distance. 
I graduated! 
I went back again to Jordan...
So many things changed in my life which sometimes I am astonished by myself to have passed through all this in so short time. 
So many things changed that sometimes I am thinking there is no more space for this in my 2019!
But seems it is time to go on....Yallah then, let's see if I can survive also in England! 

IT

Quando ho ricevuto questa notizia ero in Giordania e stavo cucinando kofta con le mie giordane preferite, che quasi considero sorelle. Ero così felice da essere scioccata, e loro erano così felici per me da dilettarsi nel tipico ululato di gioia delle donne giordane - tradizionalmente sfrangi-timpani.
Era il mio penultimo giorno in Giordania ed ero avvolta nella tristezza... Ma la sera abbiamo celebrato con una booza, fantasticando su come incastrare questo nuovo futuro con le mie visite periodiche in Giordania...
Di rientro in Italia, ho condiviso il mio entusiasmo con famiglia e amici, pronta a partire dopo una settimana...
Ma non era ancora tempo...
Un assurdo periodo di quotidiani litigi con la burocrazia inglese mi stava uccidendo, insieme a una noia mortale che mi avvolgeva annullando il mio entusiasmo.
È stato difficile, onestamente, e a volte avevo voglia di "arrendermi": c'era sempre qualcosa pronta a saltare fuori da un angolo per impedire la mia partenza...
Spesso ho pensato che non avrei davvero mai intrapreso questa nuova esperienza...
Per combattere lo scoraggiamento, mi sono ritrovata a dipingere, andare in montagna, fare lavoretti random: ho pure fatto la vendemmia, un lavoro tanto difficile per me che non sono abituata ai lavori fisici!
Ora è tempo di partire: ognuno, intorno a me, dice "finalmente!".
La verità è che non mi sto rendendo conto molto bene della partenza imminente, mi sento un po' scossa e in qualche modo triste...
Due mesi a casa, a godermi famiglia e amici, buon cibo, la bellezza dell'autunno.
Spassandomela nel dolce e lento stile di vita della valle, mentre l'estate si esauriva, portandosi dietro tutte le memorie di un 2019 un po' ingombrante.
I miei amici e la mia famiglia sono stati incredibili e speciali. Ora è un po' colpa vostra se mi sento nostalgica nella partenza. Tutti voi sapete bene quanto ho lavorato per questo progetto di andare all'estero, trovare un dottorato e continuare a studiare. Avete seguito tutti i passi, siete stati così supportivi e incoraggianti.
Grazie per avermi sorpresa così tanto, e ancora una volta, del potere dell'amicizia.
Sento davvero che potrò sempre contare su di voi.
Non nascondo che sono incredibilmente terrificata dall'idea di trasferirmi per così tanto tempo, e in un posto tanto umido quale Liverpool.
Ho paura di uscire dalla dolce "confort zone" che mi ha accolta qui in queste settimane, mesi, anni.
Forse, è il normale rovescio della medaglia di un desiderio tanto agognato....
È stato un anno incredibile: meno di un anno fa, ero in Giordania, scossa da migliaia di emozioni diverse e tendenzialmente assurde. Sono tornata, mi sono riadattata al freddo inverno: uno dei periodi più difficoltosi di sempre.
Ho scritto la mia tesi, lavorato a scuola, visitato Germania, Francia, Armenia. Sono tornata in Polonia dopo tre anni di assenza.
Mi sono laureata, e poi sono tornata in Giordania....
Così tante cose sono cambiate nella mia vita che a volte sono sorpresa da me stessa per essere passata attraverso tutto questo in così poco tempo.
Così tante cose sono cambiate che a volte penso non ci sia più spazio per novità nel mio 2019!
Ma sembra che sia tempo di partire...Yallah, vediamo se riuscirò a sopravvivere anche in Inghilterra! 

grazie Ale per questo splendido regalo...

giovedì 6 dicembre 2018

LEAVING JORDAN: saying bye to all my dear friends

Dear Jordan,
When I came here three months ago I was a serious and determined student with lots of plans in my mind. Thanks for destroying them all.
Dear Jordan,
When I came here, three months ago, I was a very punctual North Italian girl, with a fixed schedule for every day of my life. Thanks for messing everything up.
Dear Jordan, 
When I came here, three months ago, I was searching for the most "efficient" way to lead my research. Thanks for giving me the opportunity to start again from the beginning and to let me throw all the ideas in the garbage.
Dear Jordan, 
When I came here, three months ago, I was a very early person. Going to sleep at 11 pm maximum and waking up at 8.
Thanks for transforming me into a night animal.
Dear Jordan, 
When I came here, three months ago, I expected to have lot of time to read, study, put forward with my Master thesis. Thanks for stealing all my time, to put me in the vortex of Middle East vibes and to let me looking at my books on the bedside table in such a suspicious way.
Dear Jordan,
Today I took my diary and I realized that only it knows what these three months has been.
I wrote everything in a very messy way, with pens from different colours. I pasted tickets, pictures, tears and smiles on it.
And today, when I went through its pages, I even realized how many things I did that I already forgot.
Especially, I realized how Jordan changed me.
It is true that every day was an adventure, something not planned, something on the way, something happen by chance.
Everything happen by chance, here. Especially the best things. 
Things happen when you are searching for something else.
I meet lots of people in this country and I am writing to you all more then to myself.
I would like to thank you all for the richness of feelings and for the amazing adventures we lived together.
Because the most important thing I will bring home is this: the richness of our meetings.
(Btw, this is even what will make me crying a lot before my departure).
Mubarak, Moawia, Gassm, Faisal, Ricky, Mindi, Solo, Shihab, Mario, Bushara, Mustafa, Tiger, Mandela, Dudu, Mohammad, Mubarak, Munir and all the others guys from the Sudanese community that I may unintentionally forget: thanks thanks thanks for opening the doors of your houses, for sharing with me your thoughts, for accepting to speak a little bit about your lives. Especially, thanks for trusting me, for accepting my irruption in your daily life, for welcoming me in such a easy and quick way. Everything contributed to make my research easier and deeper. Thanks for being my friends.
Tariq, for me you have been a friend, a brother and sometimes even a father. Thanks for helping me in everything I needed, thanks for making my stay in Jordan as much comfortable as you could. Thanks for spoiling me with all the "booza need" in the middle of the night, thanks for all the trips, for all the tea in the late night, for all the "Lasciatemi cantare" songs.
Madiha, Anud, Aiman, Ahlam, Faris, Hassan and all the relatives I met: thanks for being my family. I would never thanks you enough for how warm, crazy and alive you let me felt. Thanks for all the Maqluba, for all the Palestinians dances, for all the Dabke, the shisha, the nuts we shared. Thanks for offering me your house, for being the safe, warm, natural, informal place where I could always go when I was homesick and in need of "family vibes".
Thanks to my expats friends, especially Italians ones, who accepted to listen my crazy stories for hours without letting me feeling mad - even if you might thought that I am ;-).
Thanks Matteo for laughing with me, "sti cazzi", thanks Cecilia because this experience will never start without your concrete approach to the work and to the life in general: you have made my life so easy here, my experience so comfortable. I will never be grateful enough.
Hana, more then a teacher: thanks to be so closed to me. You have been the best friend I need to find in Jordan. Thanks for all the improbable conversations in my improbable Arabic.
And more, Herzella among all the Mohammad, Anas with Susi, Ramman, Zoe, Sarah, Yazan, Firas, Sukaina, Silvia, Arianna.
And thanks Hassan, left at the end according to your bad timing, for let me understand that the most important thing is to be happy, despite everything.
I am trying to remember the first meeting with all of you: I am not a religious or mystical person and I due believe in chance, occasions, accidents, occurrences more then destiny.
But somehow, surrounded by this Jordan atmosphere, I realized that all my "wasta" - my connection - happens for a purpose.
I don't know if God, Allah or someone else planned all this for me, but I feel just to say thanks to him, whoever it is.
And thanks to this country, to its magic, to the crazy people, to the conservative and to the open minded, to the women that I never met, to the noisy taxi drivers. Thanks to the shining sun, to the heavy mansaf, to the prayer call and its atmosphere.
Thanks to Amman, which host me so warmly as if in my blood vessel is flowing Arab blood, as if I am your daughter.
Shukran Amman, shukran Jordan. 
I am gonna miss you ❤️


mercoledì 28 novembre 2018

SENSI DI VIAGGIO L: che sarà? Tre mesi dopo (la partenza), una settimana prima (del ritorno)

Il "Pasha" Hotel ostenta a ripetizione le sue scritte pubblicitarie: room, food, zoo, view, cultural, cafe, live, shisha.
Se ne sta lì, con tutta la sua atmosfera kitsch e le lucine al neon, ad osservare la città. Manda messaggi lontani e vicini, a chi sta dall'altra parte della città e a chi, come me, giace senza pretese nella piazza del Teatro. 
La città è passata in un attimo dalla calma pomeridiana alla frenesia della sera. Dall'atmosfera mistica del richiamo alla preghiera alla confusione delle macchine di chi guida verso casa.
Ma qui, nella piazza del teatro, è tutta un'altra storia.
Sposto lo sguardo e ritrovo quella casa che ride, la stessa che avevo fotografato mesi fa, qualcuno ha tirato una corda tra le due finestre e messo un cerchio di metallo tra di essi: rivisitazione ready-made dello smile.
C'è una luce calda che la illumina, una fila di lampioni impavidi che fanno concorrenza 24/7 alla luce del sole.
Le mura della cittadella appena sopra, quasi a segnare un confine col cielo. Gli aerei passano sopra le nostre teste, pronti a scaricare umanità in questa terra magica. Le luci delle loro ali a interrompere la penombra del tramonto.
Un signore si siede vicino a me. Me ne sto imbambolata a guardare i bambini che giocano a calcio, gli stessi di tre mesi fa. Un nanerottolo di 4 anni mi porta un bicchiere di tè che non ho chiesto, tiro fuori il portafoglio e vede che ho un pupazzetto di peluche nella borsa: gli si illuminano gli occhi, si dimentica di quel dinaro di troppo che voleva spillarmi e se ne torna dagli amici facendo sfoggio del regalo.
Nel frattempo, il signore comincia a parlare in arabo. "Merica? Isbania? Alemagna?". "La, min Italia!".
Mi offre una sigaretta: "bahib il Urdun?" (ti piace la Giordania?). "Ktiiir" (molto).
Quel molto non è abbastanza, oggi.
Passo addirittura sopra il fatto che tutti mi prendono per tedesca e fingo di capire lo sproloquio che mi riversa addosso nei minuti successivi.
Un ragazzotto si aggira per la piazza col carbone per la shisha nel contenitore di metallo: lo fa ruotare su se stesso, quasi a sfidare la gravità. Incrocia i miei occhi e non perde l'occasione per chiedere "Arghilè, Ma'am?".
La mia malinconia preventiva è qualcosa di sfrontato, eccessivo e decisamente melodrammatico. Eppure, non riesco a fare a meno di chiedermi: "cosa ne sarà?".
Cosa ne sarà dei miei sensi di viaggio?
Cosa ne sarà delle mie orecchie, quando cercherò il richiamo alla preghiera? Soprattutto della preghiera della sera, quando tutti lasciano quello che stavano facendo per correre alla moschea e fermare la frenesia delle loro azioni.
Cosa ne sarà dei "very nice" nelle strade, dei "tfaddali" (you are welcome), delle persone che ti fermano a caso in mezzo alla strada, curiosi della tua occidentalità?
Cosa ne sarà dei miei occhi, a cercare il chiarore abbagliante di questa città bianca e il riverbero del sole sulle pietre delle case? Cos'è ne sarà delle luci della sera in questa città sconfinata e multietnica, palestinese, beduina, expat, rifugiata allo stesso tempo?
Cosa ne sarà del dolciume dello knafeh di Habiba, del gelato di Bekdash, della consistenza rassicurante della Sahlab nel mezzo della notte? Del caffè turco e del fondo al cardamomo, del tè alla menta (o allo zucchero)? Del profumo della Maqluba, delle mandorle tostate?
Cosa ne sarà del tatto - che qua, in fondo, è il senso più importante di tutti?
Cosa ne sarà del calore che trapela nelle strade, dell'ospitalità di questa gente, delle loro voci alte, dei loro baci cadenzati e infiniti sulle guance a mimare la "Dabka", la danza tradizionale?
Cosa ne sarà dei "welcome to Jordan" che mi fanno sorridere anche dopo tre mesi: perché in fondo, anche se qui mi sento a casa, io sarò sempre una turista. Amo lusingarmi con questo refrain così inflazionato e commerciale, anche se ho cominciato a chiedermi se non lo insegnino nelle scuole per ammaliare i turisti.
Cosa ne sarà del traffico eterno, della calma della notte, cosa ne sarà delle macchine che ti sfiorano quando attraversi, dei taxisti molesti, dei clacson senza sosta?
Tutto continuerà come prima, ovviamente. Con e senza di me.
Ma come continuerò, io, senza questa nazione? 
Cosa cercherò al mattino appena sveglia, cosa sarà l'ultima cosa che vedrò la sera? 
Non ci sono risposte, prima di una partenza: solo, l'angusto senso di ansia che nasce quando devi lasciare un posto tanto confortevole e amato.
"Che sarà, che sarà, che sarà-à-à", che sarà della mia vita, chi lo sa.
So solo che per un bel po' di notti, quando tornerò a casa, farò lo stesso sogno. E per uno strano caso nazionalistico, sarà un sogno verde, bianco, rosso (e nero): la bandiera della Giordania.