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mercoledì 28 novembre 2018

SENSI DI VIAGGIO L: che sarà? Tre mesi dopo (la partenza), una settimana prima (del ritorno)

Il "Pasha" Hotel ostenta a ripetizione le sue scritte pubblicitarie: room, food, zoo, view, cultural, cafe, live, shisha.
Se ne sta lì, con tutta la sua atmosfera kitsch e le lucine al neon, ad osservare la città. Manda messaggi lontani e vicini, a chi sta dall'altra parte della città e a chi, come me, giace senza pretese nella piazza del Teatro. 
La città è passata in un attimo dalla calma pomeridiana alla frenesia della sera. Dall'atmosfera mistica del richiamo alla preghiera alla confusione delle macchine di chi guida verso casa.
Ma qui, nella piazza del teatro, è tutta un'altra storia.
Sposto lo sguardo e ritrovo quella casa che ride, la stessa che avevo fotografato mesi fa, qualcuno ha tirato una corda tra le due finestre e messo un cerchio di metallo tra di essi: rivisitazione ready-made dello smile.
C'è una luce calda che la illumina, una fila di lampioni impavidi che fanno concorrenza 24/7 alla luce del sole.
Le mura della cittadella appena sopra, quasi a segnare un confine col cielo. Gli aerei passano sopra le nostre teste, pronti a scaricare umanità in questa terra magica. Le luci delle loro ali a interrompere la penombra del tramonto.
Un signore si siede vicino a me. Me ne sto imbambolata a guardare i bambini che giocano a calcio, gli stessi di tre mesi fa. Un nanerottolo di 4 anni mi porta un bicchiere di tè che non ho chiesto, tiro fuori il portafoglio e vede che ho un pupazzetto di peluche nella borsa: gli si illuminano gli occhi, si dimentica di quel dinaro di troppo che voleva spillarmi e se ne torna dagli amici facendo sfoggio del regalo.
Nel frattempo, il signore comincia a parlare in arabo. "Merica? Isbania? Alemagna?". "La, min Italia!".
Mi offre una sigaretta: "bahib il Urdun?" (ti piace la Giordania?). "Ktiiir" (molto).
Quel molto non è abbastanza, oggi.
Passo addirittura sopra il fatto che tutti mi prendono per tedesca e fingo di capire lo sproloquio che mi riversa addosso nei minuti successivi.
Un ragazzotto si aggira per la piazza col carbone per la shisha nel contenitore di metallo: lo fa ruotare su se stesso, quasi a sfidare la gravità. Incrocia i miei occhi e non perde l'occasione per chiedere "Arghilè, Ma'am?".
La mia malinconia preventiva è qualcosa di sfrontato, eccessivo e decisamente melodrammatico. Eppure, non riesco a fare a meno di chiedermi: "cosa ne sarà?".
Cosa ne sarà dei miei sensi di viaggio?
Cosa ne sarà delle mie orecchie, quando cercherò il richiamo alla preghiera? Soprattutto della preghiera della sera, quando tutti lasciano quello che stavano facendo per correre alla moschea e fermare la frenesia delle loro azioni.
Cosa ne sarà dei "very nice" nelle strade, dei "tfaddali" (you are welcome), delle persone che ti fermano a caso in mezzo alla strada, curiosi della tua occidentalità?
Cosa ne sarà dei miei occhi, a cercare il chiarore abbagliante di questa città bianca e il riverbero del sole sulle pietre delle case? Cos'è ne sarà delle luci della sera in questa città sconfinata e multietnica, palestinese, beduina, expat, rifugiata allo stesso tempo?
Cosa ne sarà del dolciume dello knafeh di Habiba, del gelato di Bekdash, della consistenza rassicurante della Sahlab nel mezzo della notte? Del caffè turco e del fondo al cardamomo, del tè alla menta (o allo zucchero)? Del profumo della Maqluba, delle mandorle tostate?
Cosa ne sarà del tatto - che qua, in fondo, è il senso più importante di tutti?
Cosa ne sarà del calore che trapela nelle strade, dell'ospitalità di questa gente, delle loro voci alte, dei loro baci cadenzati e infiniti sulle guance a mimare la "Dabka", la danza tradizionale?
Cosa ne sarà dei "welcome to Jordan" che mi fanno sorridere anche dopo tre mesi: perché in fondo, anche se qui mi sento a casa, io sarò sempre una turista. Amo lusingarmi con questo refrain così inflazionato e commerciale, anche se ho cominciato a chiedermi se non lo insegnino nelle scuole per ammaliare i turisti.
Cosa ne sarà del traffico eterno, della calma della notte, cosa ne sarà delle macchine che ti sfiorano quando attraversi, dei taxisti molesti, dei clacson senza sosta?
Tutto continuerà come prima, ovviamente. Con e senza di me.
Ma come continuerò, io, senza questa nazione? 
Cosa cercherò al mattino appena sveglia, cosa sarà l'ultima cosa che vedrò la sera? 
Non ci sono risposte, prima di una partenza: solo, l'angusto senso di ansia che nasce quando devi lasciare un posto tanto confortevole e amato.
"Che sarà, che sarà, che sarà-à-à", che sarà della mia vita, chi lo sa.
So solo che per un bel po' di notti, quando tornerò a casa, farò lo stesso sogno. E per uno strano caso nazionalistico, sarà un sogno verde, bianco, rosso (e nero): la bandiera della Giordania.




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