Translate

venerdì 26 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLV: storie sudanesi, pt.2

Quando arriva all'aeroporto di Amman, Mohammed indossa solo una maglietta: è febbraio, nevica.
Tra le tante cose che non si aspettava da questo paese, ricorda la neve come quella più assurda di 5 anni in Giordania.
Scende dalla scaletta dell'aereo e respira a pieni polmoni quella libertà e quella sicurezza finalmente raggiunta.
Sale su un taxi e si fa portare in centro città. Il taxista vuole fare conversazione e capendo che è nuovo e disorientato, lo lascia nei pressi di un bar sudanese, in downtown.
"Noi, in quanto comunità sudanese, ci aiutiamo gli uni gli altri". 
É sicuro che lì troverà qualcuno cui affidarsi. "Ehi amico, come stai? Sei appena arrivato? Darfur? Tranquillo amico, vieni a casa mia".
Ali, il suo primo "fratello" sudanese in Giordania, lo porta a casa sua. "Wallahi*, cinque coperte mi ha portato", dice a mo' di battuta ricordando il freddo di quel giorno.
Così, dopo le procedure del caso (UNHCR, registrazione, commissione) comincia a lavorare.
In questi 5 anni a Mohammed ne sono successe veramente di tutte: mentre mi racconta la sua storia con fare concitato non faccio fatica a credere a quello che mi dice. É un ragazzo nerboruto di 25 anni, ha un fare animoso e agitato. É pieno di energie, di forza, di vita. Mentre parla, sembra sempre che le vene del collo siano sul punto di esplodere. Mentre facciamo l'intervista un suo inquilino attraversa la stanza e mi dice "ehi Serena, hai mai incontrato un pazzo del genere in Europa?".
Mh, in effetti no.
Ha una vita da Rambo: ha rischiato di essere deportato in Sudan 3 volte e 3 volte è scappato. Due volte per essere stato "beccato" a lavorare illegalmente, una volta durante la deportazione del 2015.
Mentre parla, si fa beffe dei poliziotti con cui l'ha fatta franca. In effetti, a sentire con quali assurdi stratagemmi è scappato, anche io ho pensato "che poliziotto scemo".
"Solo, usa la tua mente. Non c'è tempo per gli altri, se tua madre è con te e devi metterti in salvo, lascia tua madre e scappa". Mi chiedo cosa abbia passato in Darfur per acquisire questa filosofia di vita, ma del Darfur non vuole parlare, quindi proseguiamo.
Le sue disavventure sono così concatenate che a volte gli sono state d'aiuto le une con le altre.
Ha rischiato di perdere una mano mentre lavorava in una cava, utilizzando un macchinario per tagliare i sassi. I pantaloni si sono incastrati negli ingranaggi e stavano per stritolarlo. Quando il collo era così vicino alla sega, ha avuto l'istinto di spingersi indietro con le mani. É salvo, per questo, ma se l'è vista brutta. 
La mano destra è piena di cicatrici, ma in fondo la muove bene. Dice di essere stato portato subito all'ospedale: i medici parlavano solo inglese e a quel tempo lui non capiva che l'arabo. Una cosa era chiara, se qualcuno non pagava l'operazione, avrebbero amputato. La rete di solidarietà si mobilità, i suoi amici fanno pressione sul capo e lo implorano di pagare. Mohammed è disposto a rinunciare ai 2 mesi di paga arretrata e a denunciare l'accaduto. Chiede solo di essere curato. "Se ti facessi vedere le foto, Wallahi, ma sei una ragazza!". Ride, e scherza sull'accaduto.
Era insieme ai quasi 800 cittadini sudanesi che protestavano fuori da UNHCR in quel capodanno gelato del 2015. Quando la polizia viene a sgomberare - che brividi "politici", questa parola - lui indossa ancora un cumulo di bende. Ha la prontezza di nascondere il suo passaporto lì sotto: mentre i suoi compagni vengono caricati sui bus, con la promessa "you are going to Canada", lui viene fatto aspettare per essere identificato. Nella confusione, nessuno si cura di lui, sale su un'ambulanza, si fa piccolo piccolo e rimane lì, nascosto tra le attrezzature mediche, finché il mezzo non parte, incurante di quella presenza non autorizzata. Dall'ospedale in cui approda, ai margini di Amman, scappa e torna a casa. 
A farsi beffe dei poliziotti, mentre il TG trasmette le immagini di una deportazione tanto controversa quanto ancora irrisolta, che ha visto oltre 700 sudanesi rimpatriati nella terra inospitale da cui erano fuggiti. In barba alla convenzione di Ginevra - che la Giordania, scaltramente, non ha mai ratificato - ai protocolli d'intesa e al sacro santo diritto umani al non refoulement.
Alcuni di loro, mi dice, ora sono in Europa. Altri, sono morti in mezzo al mare. Questa è la meno triste delle ipotesi, perché almeno non sono stati uccisi dalle milizie connazionali che continuano la pulizia etnica del Darfur.
In questi anni Mohammed ha rotto anche una gamba, ha cambiato 32 lavori e avuto mooolto ragazze. Questo, a detta sua. 
Ora si bea di quegli 80 jd che riceve dalle Nazioni Unite per via dell'incidente e vive così, arrotondando con qualche giornata lavorativa al mese.
Nel frattempo, studia inglese e un corso di Social Worker online. Soprattutto, balla come non ci fosse un domani, balla in continuazione, balla intorno al mondo.
Per la sua spavalderia, per il suo cinismo, per la sua apparente freddezza e per il suo forzato distacco dalle cose, per il suo fare un po' cialtrone e per il fatto che non sta mai zitto, si potrebbe odiarlo. 
Ma tutti lo adorano, anche io, anche quando, ogni volta che mi invitano a un party, mi trascina verso il centro della sala e mi obbliga a ballare con lui: "vedi che sono guarito bene?".


* Wallahi: tipica esclamazione araba che significa più o meno "giuro su Allah"

mercoledì 24 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLIV: la Terra Promessa

Possiamo anche professarci atei, ma quando siamo in Medio Oriente è impossibile non subire il fascino del religioso che pervade ogni luogo. Sin dalle mie prime visite "turistiche" in questa nazione, ho realizzato quanta storia sia stata tracciata su questa terra: ma mi sono sentita veramente coinvolta quando ho iniziato a sentir parlare dei Romani e, soprattutto, di storie Cristiane. 
Così, tutte le ore di catechismo e di religione sono tornate alla mia mente e ho cominciato a ricostruire i tasselli di quelle storie bibliche. Mosè, Giovanni Battista e tutti gli altri personaggi che abbiamo sentito citare almeno una volta nella Bibbia mi sono sembrati subito più reali, più veri, più storici, realizzando che - secondo la tradizione! - avrebbero compiuto le loro gesta proprio qua.



Dopo la visita a Madaba abbiamo deciso di portarci fuori città, verso il Monte Nebo: avevamo bisogno di un po' di natura, di un po' di pace dalla città.



Soprattutto, eravamo tutte desiderose di vedere una vista mirabile ma, forse come punizione per una fede troppo labile, il sole era così forte e l'aria così carica di sabbia del deserto, che la Terra promessa abbiamo solo potuto immaginarla.
Mentre ci avviciniamo al monte, la pianura lascia spazio alle colline, la strada le avvolge e dalla carreggiata su cui ci troviamo cominciamo ad ammirare la vallata sottostante e quei cumuli di sabbia che scendono sempre più in basso, sempre più verso il fondo. L'altitudine comincia a calare finchè raggiungerà la depressione del Mar Morto. 
Paghiamo il biglietto ed entriamo al memoriale: anche qui, frotte di turisti. Una chiesa poggia sulla cima del colle, un vialetto alberato vi ci conduce. Ma nessuno vuole restare chiuso tra quelle file di alberi, pur tanto rigogliosi in una terra così arida: i turisti si abbarbicano sui lati del colle, a cercare la vista. 
Raggiungiamo il belvedere: da qui, l'allora 120enne Mosè, ammirò la Terra promessa dopo l'Esodo, senza poterla raggiungere:

"tu morirai sul monte sul quale stai per salire e sarai riunito ai tuoi antenati" [Deuteronomio]


Immaginiamo la Palestina, la Terra Santa, Israele al di là di quella cortina di polvere. Il monumento a Mosè che solleva il serpente dal deserto sembra fare da monito, controllando dall'alto quelle terre che oggi si contendono uno spazio troppo stretto e tanto carico di religioni. Mi piace pensare che voglia mandare un messaggio di speranza, tolleranza, condivisione a quella terra così dilaniata da un conflitto che dura da settant'anni.


Ma il sole comincia a calare e a cadere giù. E' ora di tornare ad Amman.









martedì 23 ottobre 2018

SENSI di VIAGGI XLIII: Madaba e i mosaici bizantini

Vaghiamo per Madaba senza pretese, in un venerdì tranquillo e assolato di inizio autunno. La città è deserta, come solo può essere di venerdì in un paese del Medio Oriente. La gente ancora dorme oppure si aggira rilassata per la città. Non c'è traffico, solo frotte di turisti come noi che vogliono sfruttare il weekend.


Siamo qui per vedere i famosi mosaici bizantini e le chiese della città: un terzo della popolazione è cristiana e i due edifici più importanti sono la Chiesa di San Giorgio e il Santuario della Decapitazione di Giovanni Battista. Sono edifici abbastanza nuovi, il primo ortodosso, il secondo cattolico, costruiti tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo.
Ci stupiamo di vedere così tanti pellegrini, così tanti preti e suore. In un certo senso, ci sentiamo un po' a casa, in questa cittadina a mezz'ora dalla capitale che sembra la riduzione in scala di uno dei nostri centri storici.
Da qui sono passati in molti: una delle 12 tribù di Israele, gli Ammoniti, i Nabatei, i Romani e i Bizantini. Abbandonata per più di 1000 anni dopo un violento terremoto, si è ripopolata poco più di cento anni fa grazie a una comunità di duemila cristiani fuggiti da Karak dopo uno scontro coi musulmani locali.
Nella chiesa di San Giorgio c'è uno dei mosaici più importanti del mondo: la più antica cartina della Palestina - e della Terra Santa - scoperta un po' per caso mentre si scavava tra i resti di una chiesa bizantina per erigere l'attuale chiesa cristiana. Entriamo con religioso silenzio, la chiesa è modesta: cerchiamo il famoso mosaico fino a trovarlo sotto i nostri piedi. E' rimasto ben poco, ma si intuisce la magnificenza di quell'opera originariamente lunga circa 20 metri e composta da 2 milioni di tessere.
Tutta la geografia del Medio Oriente è sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi: le didascalie sono in greco, ma la riproduzione all'ingresso ci ha permesso di orientarci e riconosciamo le città principali: prima fra tutte, Gerusalemme.


 
Proseguiamo un po' a zonzo, tra i negozietti colorati della via principale: i venditori ci guardano, desiderosi di una nostra visita nelle loro botteghe. Scopriremo che sono gli unici personaggi attivi della giornata, considerando che vagheremo per più di un'ora prima di trovare un posto aperto dove mangiare. 
Arriviamo a uno dei due parchi archeologici della città: ci sono un uomo e un bambino ad aspettarci. 


Ci chiedono se abbiamo il Jordan Pass, senza intenzioni di controllarlo. Il bambino prende l'iniziativa e ci porta a fare il tour guidato dell'area, mentre quello che presumiamo essere il padre, giace inerte sulla sedia. E' un parco veramente piccolo, ma ci sono dei mosaici bellissimi su quello che doveva essere il pavimento di una chiesa. Il bambino ha 12 anni, (non) sa una parola di inglese: "come" - "venite". Va velocissimo, ma si ferma a ogni cartello esplicativo per farcelo leggere, certo del nostro interesse. 



Appena togliamo gli occhi dal pannello, inizia a indicare qualche animale tra i mosaici e dice il nome in arabo. Vuole fare una foto, orgoglioso delle sue competenze turistiche; soprattutto, ambisce a quei due dinari che ci ha fatto risparmiare per non averci stampato il biglietto.


Ma il vero gioiello della città è il Santuario di cui sopra - in cui troviamo il Gesù più biondo di tutti i tempi.



Saliamo sul campanile, 100 gradini tra le corde delle campane che oscillano al nostro passaggio. La vista è magnifica, da lì: si vedono i confini della città, l'estendersi infinito del deserto. Non smetterò mai di meravigliarmi di questa assenza di limiti, di spazi incalcolabili, di questa assenza di barriere naturali. Forse, dell'assenza delle Alpi, che anche qui viziano la mia percezione dello spazio.




Respiro a pieni polmoni, l'aria del deserto e il calore di un ottobre ancora gentile. Il muezzin canta il richiamo alla preghiera dalla moschea principale della città. Questo mix di religioni ci stupisce e ci rilassa. Forse, siamo contagiate dalla spiritualità del luogo.
E' così che decidiamo di proseguire e di portarci fuori città, per vedere la Terra Promessa: prendiamo un Taxi per il Monte Nebo, nel nostro risoluto tributo a Mosè.
Ma questa, è la storia di domani ;-)

mercoledì 17 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLII: storie sudanesi


Anche per Aziz è arrivato il giorno del commiato, della partenza, del salvataggio. La sua famiglia ha deciso che non c'è più tempo per metterlo in salvo, raggiunta quell'età pericolosa in cui sei giovane e forte e diventi bersaglio prediletto per le milizie del governo.
I demoni a cavallo, così li chiamano in Darfur, uccidono chiunque possa unirsi ai "ribelli". Ovviamente, non c'è modo di convincerli che loro sono solo una famiglia come tante, dedits all'agricoltura e al commercio su piccola scala.
Aziz parte, con il cuore in gola e con l'unica speranza di rivederli ancora. Con l'unico desiderio che un giorno possa riabbracciare mamma, papà e le sue tre sorelle. Non importa quanto si debba aspettare, l'importante è saperli vivi.
Ad oggi, sono passati dodici anni. Aziz li conta, dal 2006 ad oggi, sulle dita delle mani. Sono troppi, eppure non ha perso la speranza. Per anni non ha avuto loro notizie. Solo quando ha lasciato il Sudan per venire in Giordania, con molti dubbi e con l'unico desiderio di tornare in Darfur anche solo per qualche ora, un lontano cugino lo ha sconsigliato. "La situazione peggiora", dice. Peggiora, peggiorare rispetto a cosa? 
Aziz ha vissuto per otto anni nella periferia di Khartoum. É arrivato nella capitale vagando come un pazzo, senza contatti o persone fidate.
Qualcosa lo ha spinto a rifugiarsi in campagna, ai lati della città.
 Un giorno si sveglia e c'è un uomo che lo chiama, incuriosito da quella presenza ai margini del suo podere. É un contadino, sembra "innocuo", ma Aziz non si fida. Sa bene che il governo ha messo spie in ogni dove per trovare i Darfuriani e continuare il massacro.
Resta sul vago, ma il suo accento è chiaro e teme il peggio. Ma la fortuna vuole che ha incontrato un uomo mite e di cuore: lo porta nella sua fattoria, gli dà da mangiare, gli permette di dormire in un posto coperto.
Aziz è un "omone": fatico a immaginarlo timoroso, spaurito, spaventato. Eppure non ha problemi ad ammettere che per giorni è morto dalla paura, aspettando qualche "ufficiale" del governo che lo uccidesse lì, in quella fattoria ai margini della capitale.
Ma i giorni passano e nessuno arriva. Il buon uomo comincia a sembrargli fidato. Aziz non ha piani, non ha un posto alternativo dove andare nè un lavoro da cui ricominciare.
Così accetta di rimanere e di aiutare quel sudanese "puro", senza geni darfuriani o cristiani, a portare avanti la sua fattoria.
In quegli otto anni imparerà un mestiere, si occuperà delle bestie, della mungitura, del raccolto. Ogni azione gli ricorda i bei tempi in cui, col padre, curava la campagna e poi tornava a casa e trovava la madre intenta a cucinare i prodotti del loro raccolto. Il Darfur era una terra rigogliosa, ricca di acqua e di risorse. La maggior parte della popolazione era ricca rispetto alla media sudanese, ognuno aveva una fattoria, del bestiame, ognuno era impiegato nel commercio su piccola scala. Una terra da depredare, almeno dal colpo di stato del 1989.
In quegli anni Aziz si impegna soprattutto in una missione: dimenticare le sue origini. Ogni giorno pratica il dialetto locale, nella speranza di perdere il suo accento. Ogni giorno impara usi e costumi del posto, cercando di nascondere le sue origini.
Nel frattempo, ha messo via un po' di soldi e decide di iscriversi all'università. Continuerà a lavorare nella fattoria, facendo da "pendolare" tra la campagna e la città.
Il primo giorno di università, un uomo gli si avvicina e gli chiede "ehi amico, da dove vieni?". Aziz ha un tremito. "Da Khartoum". "Da Khartoum? Non sembri di qui! Non assomigli alla gente di Khartoum". "Ma sì, sono di Khartoum, è che vengo dalla campagna". "Ah, dalla campagna, ecco il perché di questo insolito accento". Aziz è conscio che quella possa essere una spia. Sta per mostrargli il passaporto, con il suo nuovo "National number". Ma poi lascia correre, cerca di sembrare disinvolto.
Aziz si è laureato in Business and Administration. Poi è venuto in Giordania, perché la cosa più importante per lui è "connettere le persone, continuare ad avere speranza, dare un senso alla propria vita anche fuori dal Sudan". 
Oggi lavora in una NGO che si occupa di rifugiati. Qualche giorno fa è riuscito a recuperare il numero della sua famiglia, grazie all'incredibile solidarietà africana. La sua famiglia ora vive in un campo profughi in Sudan. Ha parlato con sua madre dopo dodici anni. Mi chiedo come faccia ad essere così forte, così positivo, così grato. Mi chiedo come faccia ad anteporre ancora la speranza alla malinconia, alle preoccupazioni e al dolore. 
Quando arriva a casa mia è voglioso di parlare, è eccitato dall'idea di raccontarmi la sua storia.
Quando finisce di parlare, mi abbraccia e mi dice "I am sorry, this is too much for a girl".
For a girl. 
Attonita, resto lì immobile a cercare di immaginare la sua vita. Nel frattempo, Aziz prepara un tè, in un certo qual modo, mi consola.
Poi sdrammatizza: "sono vivo".

martedì 16 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLI: l'uomo nero, in Giordania.


In Sudan, nell'indifferenza della comunità internazionale, si sta compiendo uno dei più atroci genocidi della storia contemporanea.
Prima di iniziare la mia ricerca in Giordania, non sapevo quasi niente del Darfur. A mala pena sapevo collocarlo sulla mappa e ciò che balzava alla mia mente erano scene di guerra e distruzione che posso aver visto solo in un qualche film - tipo nell'inizio di Blood Diamonds.
Quando ho iniziato a parlare con questi ragazzi, rifugiati in Giordania dal Darfur, ho scoperto tante cose. Soprattutto, ho scoperto che lo scenario che immaginavo è molto peggiore nella realtà.
Ogni giorno spendo ore con questi ragazzi, nelle loro case, al parco, in downtown. Beviamo un goccio di Whisky, andiamo a mangiare uno knafeh e fumiamo qualche sigaretta, anche se è "haram". E parliamo, parliamo, parliamo di sogni infranti e di atroci verità. 
Sono tutti uomini, tutti tra i 20 e i 30 anni, tutti soli. Soprattutto, sono tutti orgogliosamente neri in un mondo che non li vuole.
Io faccio loro qualche domanda per la mia ricerca, ma ogni volta realizzo che è impossibile contenere le loro storie nella rigidità della mia "intervista strutturata".
Allora accendo il registratore, poso la penna e li lascio parlare. Ascolto le loro parole con angoscia e ammirazione per quello che hanno passato e per come sono riusciti a superare quelle difficoltà.
Nel mio cuore sono così grata e cosi stupita che si fidino di me e che mi raccontino vicende tanto personali. Non credo di aver fatto niente per meritarmelo, se non aver mostrato interesse per la loro situazione. Ci sono frasi che mi rimarranno sempre impresse nella mente e so che la narrazione in prima persona incisa sotto forma di note nel mio registratore, è irripetibile.
Sono tutti giovani della mia età, belli, forti, e pieni di vita. Sono tutti giovani della mia età, scappati dai miliziani che li avrebbero reclutati o uccisi.
Chiedo delle loro famiglie e so che quasi sempre scuoteranno la testa e passeranno oltre. C'è chi non sa più niente di loro, chi racconta che solo le donne sono superstiti, chi, con dignitosa rassegnazione, prende su di sé tutte le responsabilità dicendo "noi non ce l'abbiamo con nessuno, è il nostro stesso governo che ci ha uccisi".
Questi ragazzi vogliono solo vivere in pace, dopo che il loro governo ha iniziato a massacrarli in nome di qualche tribalismo. In Giordania affrontano decine di problemi ogni giorno, ma almeno sono al sicuro. E di questa sicurezza sono così grati da non darla mai per scontata.
Attendono ogni giorno una chiamata da UNHCR, sperando di essere stati scelti per il ricollocamento. C'è sempre qualcosa (o qualcuno) che si mette in mezzo, e loro rimangono qui, infangati in una situazione paradossale di sopravvivenza e di attesa.
Molti avrebbero voluto tentare la via della Libia, ma - insha'Allah! - sono stati consigliati verso la Giordania, più facile e sicura da raggiungere. Ognuno di loro ricorda qualche amico che si è perso in mezzo al mare. 
É così che arrivano a chiedermi dall'Italia, e allora divento io il bersaglio dell'intervista. In una delle loro case c'è una grande carta geografica dell'Africa, appesa al muro. Ognuno si avvicina, traccia il suo percorso. Poi tocca a me - perché i ragazzi proprio non si spiegano perché io sia voluta venire in Giordania, se i rifugiati ce li avevo in casa. Allora provo a semplificare: parlo di Lampedusa, dei salvataggi, dei ragazzi come loro che ho incontrato nei CAS e nelle comunità.
Parlo dei miei amici neri che sono in Italia e aspettano, aspettano, aspettano anche loro, ogni giorno, per qualcosa che non si sa se arriverà. E la loro empatia è così forte che sento di essere il loro tramite, sento che vorrebbero connettersi con loro, conoscere le loro storie, confrontarsi su questi percorsi così diversi ma così simili nei motivi della fuga.
Io sto lì, a metà tra lo sfinito e il disilluso, a cercare di dipingere un'Italia che oggi potrebbe essere migliore, ma che, invece, va cercando qualcos'altro. Che si è rassegnata all'odio, alle accuse, alla via facile di un capro espiatorio.
Non me la sento di mentire, di dire che le cose vanno bene, che l'Italia è un posto ospitale. Non me la sento di dire che lì saranno al sicuro, perché ogni giorno c'è un nuovo caso di violenza razziale e un nuovo attacco politico agli "immigrati". Perché ogni giorno noi italiani preferiamo mistificare la realtà e creare un nemico ad hoc per tutti i nostri problemi, piuttosto che uscire dalle nostre case, dai nostri preconcetti, dalle nostre paure e incontrare qualcuno di loro. 
"Portami via, che mi sento di morir". 
Tiro un sospiro di sollievo quando qualcuno mi dice "Io voglio andare in Canada".
Io so di parlare da una posizione privilegiata, so che le mie riflessioni possono sembrare semplicistiche, sentimentalistiche e pure un po' spocchiose. So di avere un passaporto forte e mi muovo disinvolta nei privilegi di questo neocolonialismo, ben conoscendo il trattamento preferenziale riservato agli stranieri d'Occidente.
Eppure, ogni volta che raccolgo una delle loro storie sono grata a me stessa per non essere razzista. Sono grata a me stessa per essermi sempre data la possibilità di incontrarli, di parlare con loro, di accettare il loro cibo, le loro storie, la loro musica. Ogni volta che vado in casa loro e le persone si moltiplicano intorno a me perché vogliono aggiungere un pezzo della loro storia alla mia ricerca, ogni volta che perdo la cognizione del tempo e resto a casa loro fino a tarda sera, ogni volta che mi alzo in piedi e spiego loro l'Europa, i confini, Ventimiglia, Calais e il sistema di Dublino, ogni volta che io, unica donna in mezzo a tanti uomini neri, torno a casa e me ne sto sola, finalmente, nella mia stanzetta, sono grata a me stessa per non aver avuto paura.
É la paura, che ci fotte ed è sulla paura che stanno giocando.
Io non ho paura, e ogni giorno realizzo che non c'è posto più sicuro in Giordania in cui io possa stare delle umili case dei miei amici Sudanesi.
A volte pure io mi meraviglio. Mi meraviglio della loro intelligenza, della loro voglia di studiare, della loro lungimiranza, della loro consapevolezza del mondo.  Mi meraviglio e mi vergogno per come siano consci degli stereotipi che si perpetuano su di loro - primo tra tutti l'idea del maschio nero ipersessualizzato, su cui cercano sempre di sdrammatizzare. In fondo pure io sono preda dei preconcetti e più di una volta ho pensato che fossero ignoranti, semplici, sprovveduti. Ma l'altro giorno un ragazzo mi ha detto "tutti pensano che siamo neri e quindi siamo scemi e, soprattutto, siamo poveri. Come se fossimo nati poveri, come se questa fosse la nostra natura. Nessuno pensa che avevamo una vita normale, prima. Nessuno pensa che avevamo una vita come la loro". Ecco, una vita come la loro, cioè come la nostra. 
La paura di un nero uguale a noi, la paura di un nero che vive come noi, la paura di un nero che ha una vita come la nostra.

Proverò a raccontare qualcuna delle loro storie, nei miei prossimi racconti. Foss'anche solo per dimostrare che quelle di oggi non sono solo delle riflessioni sentimentali ed estemporanee a conseguenza di qualche intervista troppo toccante. Ognuno di loro merita di essere incontrato e ascoltato. C'è sempre qualcosa da imparare, almeno secondo me.

lunedì 15 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XL: un bagno nel mar Morto, al tramonto

Immaginate di lasciarvi trasportare dall'acqua, mentre fate 'il morto' in una qualche location marittima amena, a poche bracciate dalla spiaggia. Il sole che batte gentile e i gabbiani che stridono.
Immaginate di chiudere gli occhi e di non dovervi preoccupare di nulla, perché siete come in un sogno e non c'è nulla da temere: non ci sono onde, nè vento, nè pesci nè meduse gelatinose.
E tu galleggi, e galleggi, e galleggi.
Ecco, fatta eccezione per i gabbiani e con le dovute proporzioni su quell'"ameno", il mio primo bagno nel Mar Morto è stato così..
Mi avevano detto che l'acqua mi avrebbe sollevata immediatamente, ma in cuor mio non ci credevo e volevo verificare di persona. Non riuscivo proprio a immaginare questa cosa, questa assenza di gravità capace di rendermi immediatamente leggera.
Dopo l'escursione nel Wadi, ci avviciniamo al Mar Morto. Dato che siamo mooolto "easy", niente resort o alberghi di lusso: fermiamo la macchina e cominciamo a scendere una scarpata. La polvere si alza sotto i nostri piedi, si scivola, dovremmo stare attenti. Eppure siamo tutti incantati  da quella pace, da quell'assoluta tranquillità, anche i miei compagni di avventura che sono già stati qui altre volte.
Le gambe fanno "Giacomo Giacomo" per la fatica, ma decidiamo di lasciarle andare e di scendere, scendere verso la costa mentre il sole si riflette in quell'acqua anomala. Sembra così compatta, così densa, così impenetrabile...




Non c'è un rivolo di vento, l'acqua sembra immobile, il sole ci inchioda lì su quella sponda, la Palestina di fronte e quel confine immaginario che passa in mezzo al mare tracciato tanti anni fa. 
Faris è originariamente di Haifa: si ferma e ci dice "non è assurdo? In tutta la mia vita non sono mai uscito dalla Giordania, eppure la mia casa è là, potremmo arrivarci a nuoto".
Recuperato l'attimo di malinconia, raggiungiamo la costa e cominciamo a cercare un posto con del "buon fango". Non ho idea di come abbiano intenzione di riconoscerlo, ma li seguo e rimango in coda perché muoio dalla voglia di "assaggiare" quest'acqua tanto famosa. 
Immergo le dita e la assaggio, in effetti è salatissima. Ma è solo quando ci immergiamo che capisco che la metafora dell'olio era azzeccata. L'acqua è pesantissima, collosa, sembra incapace di scivolare sulla nostra pelle. Il fondale è sassi e sale cristallizzato che si spacca sotto i nostri piedi.
Subito si abbassa, è profondo e ho un attimo di ansia, ma l'acqua solleva le mie gambe e mi trovo così, a pancia in su, a guardare il cielo. 
La pelle pizzica e tutti noi scopriamo qualche ferita o minuscolo taglio di cui non sapevamo. Una goccia d'acqua mi entra in un occhio e non vedo nulla per minuti. 
Provo a sfidare la natura e a "nuotare" girandomi sulla pancia: ve la ricordate quella stupida storia del gatto con una fetta biscottata e del burro sulla schiena che non si sa come atterrerà? Il gatto dovrebbe atterrare sulle zampe, ma la fetta biscottata cade sempre dalla parte del burro... Mhm....
In effetti giro su me stessa per un po', cerco di toccare il fondo. I miei amici ridono e Faris mi dice che sono "silly" perché è inutile sfidare la natura.
Torno sulla schiena e con i piedi mi spingo verso la riva, facendo il morto nel Mar Morto 🙃🙃🙃
È il momento dei fanghi: noi ragazze ci ricopriamo di quella sostanza tanto nota e tanto costosa. Ci chiniamo sul fondale a cercala con le mani e ci urliamo l'una con l'altra "qui c'è del fango buonissimo!". Io non ho idea se sia buono o no, ma è bello essere così nere, così sporche, così vischiose.
Soprattutto, è divertente pensare che l'acqua con cui ci laveremo è la seconda più salata del pianeta e non ci toglierà quell'untume di dosso. 
Nel frattempo, il sole si abbassa, è quasi il tramonto. Il sole che prima era alto nel cielo e cercava di farsi spazio tra le nuvole, ora gode della sua posizione imperante in mezzo al cielo. Ci guarda, mentre sicuro del suo colore e del suo calore, si abbassa per cedere alla fine della sua giornata. Il cielo è arancione, l'atmosfera di pietra. 
Rimaniamo sulla spiaggia per alcuni minuti a guardare quel paesaggio che cambia, pensando ognuno ai fatti suoi, alle sue malinconie, alle sue gioie. Intanto il fango si secca e poco dopo ritorniamo nell'acqua per lavarci. 
E' ora di andare, è ora di tornare ad Amman, cariche di bellezza e di sale. 
  

sabato 13 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXIX: escursioni - tranquille - in un Wadi...

"E' come il Wadi Mujib, ma senza corde".
Con questa frase incoraggiante, il mio amico Faris mi recluta per l'escursione del weekend. Quando capisce di avermi persa, le prova tutte per farmi cambiare idea e tornare sui miei passi, promettendo assistenza tecnica costante, andatura lenta, attrezzatura efficace. Soprattutto, assicura che ci sarà lui, con la solita galanteria superba dei ragazzi mediorientali 😉.
Di stare ad Amman proprio non ne ho voglia, quindi accetto la sfida: in fondo, Faris ha detto che il Wadi - Valle - è asciutto e nella mia mente l'assenza di acqua compensa l'assenza di corde. 
Partiamo con tempi biblici: alle 11 siamo ancora ad Amman a rifocillarci di manakish - rifocillarsi prima di partire è una trovata geniale. 
Come al solito, finestrini abbassati, musica a palla e una delle playlist più assurde di sempre per accontentare 4 ragazze nell'alternanza Italia, Germania, Francia.
Siamo così sovraeccitati e carichi di zuccheri che al posto di blocco sulla strada del Mar Morto la polizia ci perquisisce la macchina: evidentemente, le nostre facce non erano molto convincenti. Io sono l'unica europea che ha il passaporto con sè e c'è un attimo di panico, ma poi arriva un poliziotto imberbe che ci lascia proseguire con un sorriso - ovviamente senza motivo. 
Il Mar Morto si apre sulla destra, poco dopo parcheggiamo e iniziamo a inoltrarci nel Wadi, senza ben sapere cosa ci aspetta. Una delle ragazze dice di aver letto che ci vogliono 7 ore per raggiungere le cascate finali, ma preferisco pensare che si sia sbagliata. Soprattutto, è l'una, il sole è infernale e siamo dannatamente in ritardo per un trekking del genere. Lascio perdere e decido di godermi quello che sarà. 
Non mi sono ancora abituata a questo concetto di valle, con le rocce rosse e una verticalità geometrica che si estende verso l'interno della regione senza una fine apparente. E' un caldo assurdo, ci sono almeno 35 gradi, l'atmosfera inizialmente è desertica.













Man mano che ci inoltriamo, però, il panorama cambia: cominciamo a trovare dell'acqua e le pareti delle "montagne" si stringono a creare un po' d'ombra. 
Il bello di questi Wadi è che non ti puoi perdere: devi semplicemente risalire il fiumiciattolo - che c'è! altro che "asciutto" - fino a quando non puoi più proseguire. 
Al sentiero tra i sassi, si alternano delle rocce più grandi che dobbiamo "scalare": io rimango in coda al gruppo, intenta a scattare la mia incommensurabile mole di fotografie. Le altre ragazze esplorano il percorso, cercando la via tra i massi che sembra più facile da arrampicare: hanno un passo sicuro e spedito, Faris invece continua a girarsi e a chiedermi "do you need help?" - "hai bisogno d'aiuto?".
Tutta la mia boria da presunta montanara [femminista] è affogata - ancora una volta - in quel Wadi, ogni volta che ho detto "yes, thanks" e ho ceduto all'irresistibile confort di una mano tesa che pende dall'alto.









































L'escursione è bellissima, non so dove guardare: il paesaggio desertico lascia spazio al rigoglio delle piante che circondano il letto del fiumiciattolo: c'è del muschio, ci sono un sacco di arbusti e delle piante grasse. Non cediamo alla tentazione di mantenere le scarpe illese e dopo mezz'oretta decidiamo che possiamo anche camminare dentro al fiume, godendo di quella frescura che sale dai piedi.

Incontriamo dei pastori, evidentemente stupiti dalla nostra presenza: il luogo è ameno, ma pare che sia poco gettonato. Faris dice sarcastico che i giordani non vengono qui perchè non possono venire in macchina. La conseguenza è che questo è il posto più pulito che io abbia visto in Giordania.


Camminiamo, camminiamo, nella continua alternanza pianura - scalata tra le rocce - pianura - scalata tra le rocce. Man mano che ci addentriamo, il fiume si ingrossa e la pressione dell'acqua tra i sassi cresce. A volte dobbiamo strisciare e arrampicare in dei passaggi stretti e bisogna davvero stare attenti a trovare una buona presa per piedi e mani, ma nulla è paragonabile al Wadi Mujib. Sento di aver fatto bene a fidarmi di Faris.
Sono intenta a guardare delle strane rocce - definitivamente: le rocce più strane che io abbia mai visto - e penso a tutti gli strati di sabbia e di sassi e di acqua e di sole che si sono depositati in questa valle e al loro immenso lavoro per creare questa varietà. Ci sono rocce lisce, altre frastagliate. Su alcune si possono vedere degli strani disegni che ti suggeriscono una marmellata di sassi compattati e schiacciati dalla forza della natura. 

















In questo momento poetico, Faris mi fa un urlo: c'è un animale stranissimo attaccato a un sasso nel fiume. Siamo lontani, non vediamo bene, ma sembra una stella marina. Ovviamente, quando mi dice "starfish" penso a quanto sia scemo credere che ci siano stelle marine qui. Infatti: è un granchio - il che non è meno strano, almeno ai miei occhi. Da quel momento, continuiamo a vedere granchietti che cercano di trovare riparo al nostro trambusto.
Nel percorso, troveremo anche delle rane anomale, grandi quanto un gatto, e delle libellule rosso fuoco. 






Penso a quanto sia assurdo che questa non sia un'area protetta, ma immediatamente realizzo che è meglio così: se lo fosse, sarebbe dannatamente contaminata e sporca.
I sassi a volte si incastrano tra loro: troviamo le prime cascate - dovrebbero essere tre in totale - e poco dopo le seconde. Ci fermiamo a fare i selfie di rito e a rimpizzarci dei manakish avanzati. Forse per mascherare che cominciamo ad essere stanchi, iniziamo a cantare "Ana la lilu" - uno dei must motivazionali giordani. 


















Ma quando realizziamo che sono già le cinque e che il Mar Morto potrebbe offrirci un bel bagno "rinfrescante", desistiamo e decidiamo di tornare indietro, rinunciando alle terze cascate. Faris, che diceva di esserci già stato in precedenza, assicura che potrebbero volerci altre 3 ore per raggiungerle.
E così, sotto il sole cocente, coi piedi bagnati e i pantaloni - di tutti! - rotti dalle rocce, torniamo verso la foce. Le bottiglie di acqua ghiacciata ancora lasciano andare goccioline pungenti sulle nostre schiene, gli uccelli svolazzano liberi sulle nostre teste. Faris si ferma a pregare e noi 4 rimaniamo lì, su 4 pietre diverse, ad aspettarlo, ammirandolo per la sua dedizione e per quella fede penetrante e pervasiva che non lo abbandona mai, nemmeno in un Wadi. Stende a terra la sua kefiah rossa e bianca e subito trova la concentrazione che gli serve. 
Camminiamo lenti, verso la macchina. Il sole comincia a calare, il mare comincia ad avvicinarsi.
Ma il mio primo bagno nel mar Morto è definitivamente un'altra storia.

giovedì 11 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXVIII: il mercato di Amman

Credo che tutti noi occidentali siamo un po' affascinati dai mercati: intendo dai mercati confusi e chiassosi dei paesi 'in via di sviluppo".
Per qualcuno sono addirittura il posto più affascinante di una città, come se solo lì si potesse trovare l'essenza del luogo, lo spirito vero e locale. Nella massa delle persone che si muovono, nella confusione e negli schiamazzi, il turista sente di aver raggiunto la vera immersione nel luogo.
La prima volta che sono andata a "down town" alias ho sceso 300 scalini per raggiungere la base del colle ove giace la parte vecchia della città, sono rimasta shockata.
In Giordania tutto succede sui marciapiedi - un po' come in India, tra l'altro: le persone che vivono di 'espedienti' mettono a frutto la loro creatività e svolgono le attività più improbabili. Tutti venditori abusivi di merci impensate che credono facciano gola agli stranieri.
Ma è quando varchi l'ingresso del mercato che devi essere davvero pronto: i palazzi si avvicinano, la via diventa più stretta e più buia, sopra le teste pendono dei teli che "proteggono" dal sole, rendendo l'atmosfera più cupa e in qualche modo asfissiante. Le merci "strabordano" sull'asfalto, i banchi ove sono esposte frutta e verdura sembrano in difficoltà nel contenere il tutto.





Non si tratta di un vero e proprio mercato: non è ambulante, i venditori sono sempre gli stessi e occupano gli anfratti al piano terra di vecchi palazzi. Non si intuiscono più le case, si vedono solo tramezzi che dividono gli spazi espositivi.




La gente urla 'nus dinar, dinar, dinarin" e così via come una litania: "mezzo dinaro, un dinaro, due dinari".
Si vende di tutto, ma con "ordine": forse per non farsi troppa concorrenza oppure per non confondere l'acquirente, le cose sono disposte per genere. La frutta e la verdura da una parte, insieme a spezie, semi e frutta secca a me sconosciuta. Formaggi, dolci, pane.


 

Se devii a sinistra, ti imbatti nelle "cose di casa", mischiate a vestiti, tendaggi, negozi interi dedicati a saponi e cianfrusaglie tanto colorate quanto inutili.
Insomma, non troveresti mai un banchetto di frutta o verdura, qui. 

Oltre ai venditori ufficiali, ci sono poi quelli estemporanei che, seduti sul cassone del loro mezzi, ti offrono i miglior frutti della nazione - a detta loro, ovviamente.
Tutti cercano di attaccare bottone e mentre i locali affannano per guadagnare l'attenzione del venditore, questi è tutto concentrato su di te, impavida occidentale che sfidi il muro del suono e ti addentri nel caos del mercato.



"Welcome to Jordan", "تفظلي", "very nice" - questo è il più buffo degli approcci perché tutti gli uomini Giordani pronunciano queste 2 parole con la stessa inflessione - riproducibile allungando disperatamente la 'i' di nice.
Non puoi esitare, ovviamente. Devi andare decisa dal venditore che ritieni più affidabile e fargli capire a gesti, in inglese e in misto arabo, cosa vuoi.
Come capire se è affidabile? Non c'è un modo per saperlo prima: se ti sorride e ti offre cose gratis, è affidabile. Se ti sorride e cerca di rifilarti cose che non hai chiesto, ti sta fregando.
Il trucco sta nel dire quanto vuoi spendere per quella merce: tipo '2 dinari di pomodori", "1 dinaro di melograni". Io ho lasciato perdere la contrattazione, sia perché le cose sono davvero economiche qui, sia perché, se il venditore è onesto, ti prenderà in simpatia e ti farà un buon prezzo a prescindere.
Un altro trucco sta nel procedere sempre con passo spedito, gettando l'occhio ad ampio raggio in modo che quando passerai la seconda volta, avrai già deciso dove fermarti. Mai esitare, se non vuoi essere rapita dall'accalappia stranieri di turno.
Insomma, ci vuole tecnica per fare la spesa al mercato, soprattutto ci vuole molta molta pazienza per farsi largo tra le donne Giordane che si fermano ogni due passi e stanno in mezzo, incuranti del prossimo loro.



Soprattutto, non bisogna avere il mal di testa, perché le urla dei venditori sono davvero moleste e possono peggiorare da un momento all'altro. Se iniziano a cantare canzoncine tra di loro, si rimpallano le strofe dando vita a un canto polifonico senza precedenti.
E così, in quel rumore, in quella confusione, in quella claustrofobica quotidianità giordana, ogni volta sento di aver affrontato e vinto una sfida.
Insomma, meno Carrefour, più mercato!