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domenica 30 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXIV: 10 COSE che NON immaginavi su Amman

1 - Come Roma, fu originariamente costruita su 7 colli, detti Jabal.
Ma oggi la città si è espansa così tanto da occuparne quasi 20.

2 - I nomi delle strade e delle vie sono stati introdotti da poco, motivo per cui nessuno li conosce.
Se vorrai orientarti in città o raggiungere la tua meta, dovrai dare al tuo autista dei punti di riferimento più conosciuti, come i "cerchi".

3 - Ebbene sì, la città è divisa in 8 cerchi, delle enormi rotonde che fanno da raccordo tra i vari colli. Non puoi sopravvivere ad Amman senza tenerli in considerazione ;-)

4 - Non esiste rete idraulica
Sì, dimenticatevi le condutture sotterranee: l'acqua ad Amman "sgorga dai tetti", ove sono posizionate delle grandi cisterne. Per questo motivo, l'acqua è assai limitata e potrebbe improvvisamente finire nel bel mezzo di una doccia.

5 - Non c'è acqua in città.
Le cisterne vengono rifornite settimanalmente casa per casa, con l'acqua pompata dalle Oasi del deserto Orientale - che si stanno prosciugando!

6 - La città è divisa in Amman Est - la parte più popolare e tradizionale - e Amman ovest - la zona più moderna e fancy, copia mediorientale dell'Occidente.

7 - E' detta città bianca.
Questo per via del colore delle pietre calcaree utilizzate per costruirla, che sono importate dal sud e dal nord-est del paese e vengono rigorosamente lavorate a mano. 

8 - All'epoca dei Greci, si chiamava Philadelphia.
Ma di tutti i nomi di Amman vi ho già ampiamente parlato qui.

9 - Sorge su un altopiano situato a circa 1.029 metri.
Cosa abbastanza curiosa se si pensa che con nemmeno un'ora di macchina si raggiunge la depressione del Mar Morto, a oltre 400 m sotto il livello del mare.

10 - Metà della popolazione Giordana vive qui.
Su una popolazione di circa 10 milioni di abitanti, 4 milioni e 955 mila vivono ad Amman, motivo per cui la densità di popolazione è molto alta - 2 973,21 ab./km².






sabato 29 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXIII: Hashem, la cucina universale

Dopo un mese in Giordania, ho definitivamente deciso che Hashem è il posto più tradizionale in cui si possa mangiare.
Non che serva un mese per accorgersene: appena si scende "in città", ovvero si raggiunge il "balad" -  بلد - ci si scontra fisicamente e acusticamente con la folla di avventori che dal cortile interno straripa sulla strada. 


L'atmosfera è quella di un centro commerciale nel periodo natalizio, con lucine e fronzoli che penzolano da ogni dove e che giacciono indisturbati almeno dal '52, anno di istituzione di questo locale.
Qualcuno lo classifica come un posto da street food, ma credo che nessun locale abbia mai resistito alla tentazione di sedersi, anche solo per un attimo - che poi, qual è la concezione di "un attimo" in Medio oriente? - in questa specie di piazzetta ricavata tra due palazzi. Probabilmente il proprietario non si aspettava tale successo e, negli anni, l'unica soluzione che ha trovato per accogliere le frotte di avventori, è stata quella di "addestrare" i suoi camerieri ad essere velocissimi nel servizio. Ci è riuscito, ma con la sola condizione che essi possano urlare a squarciagola da un lato all'altro della corte, comunicando tra loro ciò che manca in questo o in quel tavolo, cioè che è urgente preparare e soprattutto inframezzando l'atmosfera con cadenzati "shai, shai" - الشاي, perchè il tè non può mancare, mai.
Quando trovi la forza di affrontare il primo muro di persone e trovi posto, sarà tutto più semplice: innanzitutto, perchè non c'è un menù. I camerieri ti portano un po' quello che vogliono loro, in base a quante persone siete. Ovviamente, tutto esclusivamente vegetariano. Se non sei solo o se avranno abbastanza motivi per pensare che il tuo stomaco sia in grado di reggere e di non avanzare cibo, ti porteranno il menù completo ovvero falafel, hummus, mutabbal - la famosa crema di melanzane - e una crema di fave che prende il nome di ful medames - فول مدمس.
Ovviamente, il tutto accompagnato da una buona dose di pane e dall'immancabile "insalata" di contorno, che consta di cipolla cruda, menta e pomodori tagliati malamente. Se sei audace, puoi provare quella specie di salsina piccante che è sempre a disposizione sul tavolo, ma se sarete furbi, capirete che tutti quei semini bianchi saranno indice di una piccantezza inquantificabile.


Sfortunatamente, ero troppo impegnata a mangiare - e a digerire! - per cui le mie foto sono di scarsa qualità, ma vi consiglio di guardare qui se vorrete avere una conferma che da Hashem anche l'occhio ha la sua parte.
La cosa divertente, è che il link cui vi rimando dice esattamente le stesse cose che ho scritto io, motivo per cui ho dedotto che l'esperienza culinaria di Hashem ha dell'universale e, dopo essere stati qui, tutti proveranno le stesse identiche emozioni.
D'altronde, hummus e falafel mettono tutti d'accordo: giordani e palestinesi, locali e stranieri, vegani e onnivori. 
Forse, certe risoluzioni dell'Onu andrebbero discusse qui, in questa atmosfera caotica e drammaticamente soddisfacente. Ne avremmo tutto di guadagnato!



venerdì 28 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXII: pic-nic nella foresta

Let's go to the forest!
Il weekend inizia così, con l'estemporanea decisione di fare un'escursione nella foresta di Jerash. 
Il mio scetticismo è solido, perché ho parlato con tre o quattro Giordani e tutti hanno risposto "abbiamo foreste, qua in Giordania?".
Mhm, molto bene: se non lo sapete voi...
Tuttavia, la Lonely planet dice che le foreste "si sono ridotte all'1% del territorio Giordano": questo può bastare a nutrire la speranza che ci stiamo dirigendo proprio verso quell'1%.
4 straniere e un giordano: si sale in macchina e si parte, finestrini abbassati, capelli al vento, autoradio al massimo e playlist internazionale da cantare a squarciagola.
I miei compagni di avventura mi chiedono se posso cantare "Bella Ciao" e quel momento poteva bastare per legittimare una frase che piace tanto agli inglesi: "I have made my day" ❤️
Ma il viaggio continua, mentre veniamo viziate da alcuni pit stop: pane appena sfornato e shinina - شنينة, una specie di yogurt bianco molto liquido e freschissimo.
Arriviamo alla Riserva Forestale di Dibeen, ci facciamo ingolosire dall'ombra e ci inoltriamo tra gli alberi: ebbene sì, alberi, mentre io pensavo che avrei trovato solo arbusti e qualche pianta rinsecchita. In realtà la foresta è pure abbastanza fitta, con una serie di specie botaniche diverse - apparentemente qua dovrebbero essere tutelati anche querce e pini di Aleppo.



Qualche lucertola scappa al suono scricchiolante dei nostri piedi sul terreno: il suolo è molto secco e pieno di pigne...
Arriviamo allo scavalcare del colle, la vista su Jerash è infinita: siamo arrivati nel momento giusto, è l'ora della ṣalāt al-ẓuhr, la preghiera di Mezzogiorno.
Il minareto della città non è molto lontano, ci sembra di poterlo toccare da quell'altura sovrastante in cui ci troviamo. Il muezzin canta e noi ci fermiamo a riposare.


Nel frattempo, la riserva comincia a riempirsi di famiglie e gruppi di amici venuti qui per un tè, un po' d'ombra e una sana tregua della città. Qualcuno anche per il pic-nic, che comincia a palesarsi come la nostra prossima priorità.
Cerchiamo una radura all'ombra e proprio come nei film, raccogliamo i "legnetti" per accendere il fuoco. Mentre ancora raccogliamo e depositiamo la legna vicino al fuoco, il nostro amico giordano è già riuscito a far divampare le fiamme, il che rende il nostro focolare molto stupido. "Nessuna persona intelligente metterebbe la legna di riserva vicino al fuoco", dice.



Il nostro pollo con peperoni e una dose imprecisata di spezie ha del meraviglioso: mi chiedo come possa apparire e (confermerò) essere così delizioso, seppur preparato con pochi ingredienti e con nessun attrezzo.
La pentola in mezzo, nessuna posata, solo il pane a fare "scarpetta" - il che in medio Oriente è ordinario e indispensabile.
Nel frattempo, il sole batte sulle nostre teste, il tempo sembra immobile e tutti e cinque vorremmo che esso si fermasse proprio in questo momento.

mercoledì 26 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXI: un mese dopo, "tutto si trasforma"

Oggi è un mese che sono in Giordania e immagino che vi aspettiate da me una lunga serie di sproloqui melancolici su ciò che mi manca dell'Italia, su ciò che ho imparato stando qui, sulle cose belle che ho visto etc etc etc.
Il fatto è che sapete benissimo come ho speso questo lungooo e velocissimo mese mediorientale, quindi oggi vi metterò al corrente dell'unica cosa davvero importante che serve sapere quando si vive in Medio Oriente e di come essa stia intaccando profondamente la mia natura ;-)
Nulla è programmabile, tutto si trasforma - sì, questa l'ho presa in prestito dalla legge fisica di trasformazione della massa, che in realtà recitava "nulla si crea, nulla si distrugge, tutti si trasforma".
In Medio Oriente funziona proprio così: tutti i piani che avevi fatto per la giornata si distruggono perché l'imprevisto, il ritardo e l'imponderabile sono sempre dietro l'angolo. Ma tali piani si trasformano in qualcos'altro, in qualcosa di incalcolabile che non ti aspettavi di fare oggi o non così presto o non in questo momento - come se dovesse per forza esserci un momento giusto per tutto.
I tuoi piani si trasformano: tipo ti svegli la mattina e pensi "bene, oggi lavoro un po' sulle mie interviste e poi studio un po' di arabo". Invece salta fuori qualcosa di improvviso tipo che una persona che stavi cercando di contattare da tempo finalmente si palesa e ti fa notare che il suo tempo è contato quindi meglio prendere la palla al balzo.
Oppure pensi "oggi dormo": e invece no, perché il meeting che stavi programmando da settimane sarà proprio oggi e poi mai più.
Questo, come capirete, ti impedisce di pianificare qualsivoglia cosa, perché devi sempre essere pronto a rincorrere cose, persone e occasioni che sembra possano palesarsi nella tua vita solo per pochi secondi.
Tutto si trasforma, insomma, e sicuramente: nulla si crea.
Io ho deciso di lasciar perdere l'agenda, gli orari prestabiliti, il tempo dei pasti, il ritmo sonno-veglia e di adattarmi completamente alle richieste di questa città: c'è qualcuno che vuole andare a mangiare un mansaf, bene, "andiamo!", anche se sono le 10 di sera e questo è il piatto più pesante del Medio Oriente. Qualcun altro che vuole incontrarmi alle 2 di pomeriggio sotto il sole cocente? Perché no.
Qualcuno che vuole parlarmi della sua storia ma oggi, cioè fra 5 minuti perché il resto della settimana lavora? Ecco che prendo un taxi e volo dall'altra parte della città.
A volte, esco di casa e non so quando ci rientrerò. A volte, sopravvivo con 1 litro di latte e 2 uova in frigo, posticipando di giorno in giorno il giorno in cui farò finalmente la spesa. A volte, dico a qualcuno di voi "ci sentiamo presto" e poi scompaio per settimane.
La verità è che in questa città è meglio lasciarsi trascinare che andare contro corrente. È meglio partire e lasciarsi andare nel flusso di energie che la pervade piuttosto che fissarsi sui ritmi o sugli schemi precisi.
La verità è che ogni volta che esco di casa, faccio qualcosa di in-calcolato, di insperato, di in-cercato e vado avanti così, scoprendo cose che non mi immaginavo di trovare o che nemmeno sapevo esistessero.
La verità è che ogni volta che, sempre più tardi, torno a casa, sono piena di euforia - tanto che non riesco a dormire fino a tarda notte - ma mi ritrovo col sorriso sulle labbra e col cuore inebriato dall'atmosfera frizzante dei miei incontri.
E oltre a sapere che questa serendipità è un dono prezioso, divento sempre più vorace e ingorda di momenti, di occasioni, di "chi vivrà vedrà".
Chi mi conosce sa che questa è una vera svolta per me, che ho sempre cercato di intrappolare le mie giornate dentro la rigidità tipica di chi vuole massimizzare ogni istante, di chi vede ogni imprevisto come una perdita di tempo, di chi vuole che le cose vadano esattamente come ha previsto.
E invece ora mi sveglio in modalità zombie, vittima delle ore piccole, con la riserva di energie al minimo e la strategia interna di sopravvivenza che mi dice "lascia vivere". Tipo ora sono sul letto che scrivo a tutti voi e in realtà sarei dovuta essere in due cinema diversi con due gruppi di amici diversi. Invece non ci sono andata, perchè dovevo fare qualcosa di diverso, e ora sono qui, ad aspettare, sicura che qualcosa che ancora non so succederà.
Oggi avrei dovuto "fare i  compiti di arabo" e pianificare i prossimi appuntamenti per la mia tesi: ma la verità è che gli appuntamenti verranno da soli in un momento imprevisto di un imprecisato futuro. E quando succederà, avrò l'istinto di dire 'ma oggi non è il giorno giusto' e poi partirò e tornerò a casa realizzando che in realtà è andato tutto come volevo.
E le occasioni che dovrei crearmi, in realtà crescono e fioriscono da sole attraverso il gruppo di amici e conoscenti che ogni giorno si allarga e mi aiuta a incontrare qualcuno di fondamentale per la mia ricerca. Un gruppo di amici che, mi accorgo solo ora, è già più nutrito di quello stabilito in tanti anni di vita milanese.
Mi spiace se, alla fine di questo post, avrete il cuore in gola, come alla fine di un'accelerazione o al termine di una salita, ma la verità è che va letto proprio così, tutto d'un fiato. E non me ne vogliano i linguisti o gli amici letterati che inorridiranno di fronte a tale linguaggio da slang, ma questa sarebbe una questione da raccontare a parole, più che da scrivere. 
Ma tant'è, che dovrete accontentarvi, perchè l'imprevisto è bello, e anche la metamorfosi.


martedì 25 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXX: la nazionale italiana

Tra le tante cose che non riesco a spiegarmi da quando sono in Giordania, la più assurda è che tutti amano la nazionale Italiana.
La maggior parte delle volte che mi sono presentata, che fosse a un taxista, a un cameriere, a un venditore, la parola "Italia" ha generato un'emozione incontenibile, a metà tra ammirazione e incredulità, tutta legata al calcio.
Quello che mi chiedo è: è assurdo per il fatto che dopo il 2006 la nostra nazionale è andata sempre peggio o perchè tutti noi ci aspetteremmo di essere ammirati per il cibo?
Insomma, "pizza, pasta e mandolino" è un refrain valido almeno almeno dalla fine dell'800.
E invece no: sono andata a mangiare da Hashem - un mitico ristorante di cui vi parlerò domani - appena dopo il pareggio Italia 1 - Polonia 1 e il cameriere, pensando che fossi depressa per l'accaduto, ha raddoppiato la porzione di mutabbal e mi ha regalato una specie di hummus di fagioli - che nemmeno la fagiolata alla Bud Spencer! 😉
Prendo il taxi e il taxista, dopo aver fatto tutto da solo dicendo che il cibo giordano non è buono come quello italiano e che le donne giordane non sono belle come quelle italiane, comincia a elencarmi tutta la formazione del 2006, Cannavaro, Grosso, Toni, Buffon... si ricordava pure che Camoranesi era argentino e quando sono arrivata a destinazione stava ancora polemizzando da solo sulla testata di Zidane.
Incontro un ragazzo Sudanese e mentre gli dico che mio fratello ama il calcio, dice che deve diventare forte come "Berlo": io ovviamente non capisco chi intende, nemmeno quando aggiunge "Andrea" e si mette a elencarmi le sue prodezze più celebri.  Rimango sbigottita quando risoluto mi dice che non ha intenzione di spiegarmi chi è o di cercarlo su google, perchè sono "the shame of Italy" - la vergogna dell'Italia.
Mi salvo in corner - mai espressione fu più azzeccata - quando, riesumando nozioni di linguistica,  capisco che il poveretto intende "Pirlo" - chi è stato nel mondo arabo sa che la P non è esattamente la lettera preferita dei locali e che "e" e "i" sono quasi indistinguibili per loro.
Ma la piu grande soddisfazione deriva dal fatto che lo stadio più celebre di tutti è e rimane San Siro e, mi spiace per gli amici Juventini, non c'è Berlo o Fiat che tenga per scavalcare la sua notorietà. 😂



lunedì 24 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXIX: di religioni e confessioni


Chi non ha sentito, almeno una volta, la tanto quotata frase "prova ad andare nel loro paese con un crocifisso e a professare la tua religione, prova!"?
Beh, per quanto poco mi senta coinvolta dalle religioni, in Giordania puoi credere in quello che vuoi, e sì: puoi anche portare con te i simboli che ritieni indispensabili per essere più vicino alla dimensione spirituale in cui credi.


Questa è una delle prospettive di Amman che preferisco: la maestosa Moschea Blu si staglia a fianco della Chiesa Copta Ortodossa.
Siamo in pieno centro città, nel quartiere di Abdali, a poche centinaia di metri da casa mia. 
Al contrario di quanto si potrebbe pensare, la Giordania è uno stato islamico tollerante, con oltre il 6% della popolazione di fede cristiana. La maggior parte vive ad Amman.
La monarchia si è sempre dichiarata aperta e accogliente verso ogni forma di religione e forse è questa una delle ragioni più pregnanti per cui il Paese è stato meta di migrazioni così disparate. Storicamente gli Armeni, di fede cristiana, ma anche i Circassi e gli Iraqeni cristiani. Quest'ultimi, recentemente perseguitati da Isis, hanno trovato fisicamente rifugio in molte delle chiese che sono state aperte per loro.


Forse questo è uno dei motivi per cui vivere ad Amman è tanto rassicurante: per quanto ci si debba ricordare che è una metropoli quasi moderna ed invasa dagli stranieri (a proposito di migrazioni...), è bello trovare conferma che gli stereotipi sono solo stereotipi. 
La domenica mattina mi sveglio col suono delle campane, eppure tutte le mie giornate sono scandite dal canto del Muezzin. Alle 5 del mattino, ancora mi sveglio per il richiamo alla preghiera e nonostante il mal di testa cronico per la stanchezza accumulata, ogni giorno ingaggio discussioni aperte e sincere con i miei amici musulmani.
Non voglio semplificare, è noto che le religioni hanno sempre creato attriti tra le confessioni rivali, ma la Giordania è un microcosmo costellato da luoghi di culto di tutte le religioni, in cui le storie bibliche sopravvivono a fianco di quelle musulmane.
Non troverai un musulmano che ti scoraggi dall'andare al Monte Nebo, ove pare che Mosè sia sepolto, impossibilitato dal raggiungere la terra promessa o a Betania, nel tratto di fiume ove Gesù è stato battezzato.
Forse, la Giordania ha semplicemente fatto pace con la sua storia, senza trasformare i luoghi sacri in campi di battaglia e accettando serenamente la ricchezza mistica che possiede, al di là di fanatismi e prese di posizione dogmatiche.

domenica 23 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXVIII: di pleniluni stupendi



Per una serie di strane dinamiche pseudo-lavorative, mi sto trasformando in un animale notturno, cosa assai inconsueta e insperata per la mia persona - ricordo ancora che in Erasmus mi addormentai sulla poltroncina di una discoteca alle 10 di sera.
Questa inesplorata attitudine mi ha permesso, in questo primo mese di permanenza in Giordania, di vedere la luna crescere e di assistere al costruirsi del plenilunio.
A casa, non ci faccio molto caso: forse, non ci faccio caso per nulla, se non in qualche solitaria sera d'estate in cui il cielo è terso e sembra trascinare i miei occhi verso l'alto con una forza calamitica.
Qua, invece, foss'anche solo per l'assenza delle montagne e per la sconfinata distesa di colline, non puoi non accorgerti di quell'ospite inconsueto che sta sempre lì, come ad osservarti. 
E mentre ti osserva, credo che la luna sia capace di infonderti una certa tranquillità, un misto di pace e di misticismo che ti obbliga a riflettere e a ripensare alle tappe della tua giornata: come un giudice calmo e paziente che rinnova la sua presenza ogni sera.
E' venerdì sera e la notte è giovane come solo può esserlo in un weekend che è al suo inizio. Usciamo fuori città, le strade sono finalmente libere dagli ingorghi della "movida" del centro. L'aria è fresca e frizzante, ti pizzica la faccia ricordandoti che sei in pieno deserto e che il caldo diurno non è certo garanzia di una notte mite.
Mentre la macchina macina chilometri, comincio a pensare che tra un po' saremo al confine della nazione: e invece no, siamo solo al limitare del governatorato di Amman, alla Nsair View.
Una distesa di terra rossa ci aspetta al limitare della strada, affacciandosi dall'alto sulla distesa di luci sottostanti. Una parte di esse sono ancora luci della Capitale, poi laggiù Il Salt e a nord Jerash.
Se il cielo fosse terso, si vedrebbero le luci di Nablus, la città natale dello Knafeh rimasta al di là del confine.
Ci sediamo sulle rocce, il mansaf sullo stomaco ci costringe ad avvolgerci in delle specie di pesantissime giacche beduine. 
Siamo inchiodati lì, su quella pietra sospesa sul nulla, a guardare un panorama infinito di luci e di oscurità. E la luna, unica certezza immobile, a ricordarci che lei è uguale per tutti e che ci sarà sempre. In qualsiasi posto andremo, da qualsiasi posto verremo, durante qualsiasi avventura decideremo di intraprendere. Più o meno forte in base alla luce che riceverà dal sole, alla forza che avrà di riflettere gli abbagli, ma sarà sempre lì, così vicina e così democraticamente lontana.
Forse Mahmoud Darwish aveva ragione: Maybe the moon is beautiful only because it is far.” 

sabato 22 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXVII: gelato arabo VS gelato italiano

Come al solito, quando manco un post, è perché sto mangiando qualcosa di buono. E anche ieri sera si è trattato di un dolce:, la "Booza" alias "il gelato arabo".
Siccome mi piace infierire sul cibo altrui e siccome il mio patriottismo sta cercando di resistere nonostante le pessime notizie che arrivano dall'Italia, sono stata punita.
Boriosa e supponente, alla proposta di andare a mangiare un gelato arabo, ho subito detto ai miei amici giordano-palestinesi che dovevano stare mooolto attenti perché, insomma, sfidare il gelato italiano non è saggio.
Ingaggiata la sfida, mi ritrovo da Bekdash e capisco subito di aver perso: c'è una fila immensa e solo famiglie locali - chiaro indice che sono stata portata in uno dei posti più buoni di Amman.
Il gelato è inizialmente una sfida: è elastico e resistente, direi "gommoso", niente a che vedere con la soffice consistenza che ci aspettiamo dal gelato italiano.
Rischio - ovviamente - di farlo cadere e di catapultare la vaschetta sul soffitto come nella peggiore Candid Camera.
Ma quando capisco come affrontarlo, sprofondo nella bontà e nella vergogna. Questo dolce è latte e zucchero, corredato da pistacchi - non esistono gusti alternativi. Ma il vero segreto è il mastic, una resina profumatissima importata dalla Siria che, a quanto pare, è abbastanza proibitiva.
Mi arrendo, soprattutto quando mi accorgo di essere stata la prima a finirlo.
Se è vero che gelato italiano e gelato arabo sono due cose diverse, non sono più tanto sicura che il nostro sia imbattibile.
Vi auguro di provarlo se verrete in Medio Oriente ;-) e fatemi sapere cosa ne pensate! 

giovedì 20 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXVI: rilassarsi a Paris Square

Ad Amman gli spazi pubblici per l'aggregazione sociale sono praticamente inesistenti. Non ci sono parchi nè spazi verdi nè aree pedonali - ad eccezione dell'avveniristico "Boulevard"
Eppure la sera, quando la mente è piena di pensieri e di fatiche accumulate durante la giornata, Paris Square è in grado di regalarti quel relax soffuso che andavi cercando.
Con l'unica pretesa di trovare un posto dove sederti mentre lasci fluttuare i pensieri nell'aria, la mente diventa subito più fresca e leggera.
Non che questo posto abbia molto da offrire: è una grande rotonda al limitare di Webdeh attorno alla quale le macchine circolano senza sosta - motivo per cui raggiungere la Piazza è la prima grande sfida da affrontare, tra taxisti molesti e conducenti impavidi. 
Ma quando raggiungi la salvezza di uno dei vialetti d'accesso, sei finalmente in un'altra dimensione.
Amo andare lì - in realtà, "andare" non è il verbo giusto. Dovrei dire "fermarmi", dato che è sulla mia via di casa...
Le 8 agognate panchine interrompono delle misere aiuole che potremmo definire semplicemente "distesa compatta di terra rossa".
Ed è proprio in quei 40mq di spazio racchiuso tra le panche che tutto può succedere. Ci sono bambini che corrono, giocano, inseguono il pallone. A volte qualche cane borioso che si vanta di essere la star del quartiere. Qualche impiegato che finisce le chiamate quotidiane, una buona dose di expat - i famosi expat di ElWeibdeh - che viene qui a connettersi con l'Occidente.
Ci sono mamme che chiacchierano e gettano un occhio ai figli che stanno per sorpassare il cordolo della rotonda, alcune ragazze che si pavoneggiano coi selfie. 
Teenager che fumano e ragazzotti che si trovano dopo lavoro.
E poi c'è un ragazzo di colore che improvvisamente, come un rito, arriva sempre a tagliare la strada, l'atmosfera, la piazza e la nostra attenzione con il suo skateboard, e se ne va.
Ci sono le coppiette che vengono qui a mangiarsi uno shawarma perché pur essendo molto diffuso, lo Street food non ha un posto alternativo dove possa essere mangiato (a meno che prendiamo in considerazione le lunghe file di scale).
Qualche gatto può sbucare da un cespuglio, ma ciò cui devi veramente fare attenzione sono i palloni. Sì, perché anche qui, in questo angusto spazio cementato, si svolgono dei veri match improvvisati che coinvolgono vari giocatori, tra i 2 e i 15 anni.
La competizione è forte e non ammette sconti. Quella palla va dribblata, va deviata, va allontanata dalla porta (uno dei vialetti d'accesso). E per farlo, bisogna agire convinti e aggressivi. Così, le deviazioni finiscono sempre col colpire qualche povero expat o uno degli altri astanti.
Poi ci sono le zuffe tra bambini che, ammettiamolo, hanno il loro fascino indiscusso: mentre li guardiamo scontrarsi, sappiamo ammettere che tutti siamo cresciuti così.
Insomma, mentre tutto questo succede, la mia mente si libera, il mio umore si riequilibra, il cervello ristabilisce le priorità.
Grazie Paris Square, Grazie Duar Baris, grazie soprattutto per essere la barzelletta di tutti gli expat che sorridono di fronte alla difficoltosa pronuncia locale di quella "p", una specie di sfida locale all'Occidente.



** come potrete capire, questi melanconici pensieri di fine giornata possono essere stati scritti solo lì, in quella caotica atmosfera che spiega le numerose sgrammaticature. Eppure, a me piace così ;-)

mercoledì 19 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXV: il dolce incontro con lo Knafeh

Amiche, amici: ebbene sì.
Mi spiace di avervi delusi o di avervi fatto aspettare invano per il mio post quotidiano, ma ieri sono stata colta da un annichilente blocco scrittorio, che mi ha più volte allontanata dalla volontà di scrivere. Così, mentre cercavo di organizzare i pensieri e non ci riuscivo, nell'opprimenza di una di quelle giornate in cui l'unica vera compagnia è la noia ho trovato un amico sincero: il knafeh.
Insomma, al 25esimo giorno di permanenza in Giordania, è doveroso che io cominci a parlarvi del cibo: non vorrei mai che, tra tutti questi discorsi impegnati, possiate pensare che per me non sia una priorità.
E così, a tributo dei miei lettori donne, comincerò dai dolci che, come il mondo ben sa, sono l'unica vera arma contro l'isteria femminile e gli unici in grado di distoglierci dai peggiori istinti omicidi.
Il knafeh è "mozzarella cheese with sugar up" cit.: una ragazza tedesca che, comprensibilmente, non si intendeva di cibo 😁

erecipe.com
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Ma il formaggio filamentoso c'è e ha proprio quell'aspetto gustoso da cui la maggioranza degli italiani è addicted [dipendente].
Sopra non c'è zucchero, ma pasta Kadaif, che sono degli specie di spaghetti - blasfemia!! - inventati dagli Ottomani, sottili sottili e intrecciati tra loro che vengono utilizzati dopo essere stati ammorbiditi con olio o burro - giusto per stare leggeri.
Qualcuno li chiama "noodles" e sono sicura che nessuno di noi italiani ne avrà a male per questo 1-0 per la Cina. 
Infine, lo Knafeh è guarnito con pistacchi e altra frutta secca locale.
Può avere una colorazione più o meno scura in base alla quantità di sciroppo in cui è imbevuto.
E' così dolce e così dichiaratamente calorico che se penserai di poterne mangiare una porzione più grande di quella che ti servono, verrai punito con un malessere nauseabondo. Infatti, appena ne avrai assaggiato un boccone, non saprai se accettare che questa delizia di zucchero e trigliceridi scivoli giù o se pentirti per essere stato goloso. In effetti, pur nella sua bontà, è talmente pesante che realizzerai subito di averne abbastanza.












A lato del caotico 2° circolo - la città di Amman è divisa in "rotonde", "circoli" o "piazze", in base a come li vogliamo chiamare - c'è Nafeesah, la pasticceria gremita di persone che mi ha regalato questo incontro zuccherino.
Un signore apparentemente vestito in "abiti tradizionali" distribuisce il tipico caffè arabo, pieno di cardamomo.
Quando entri, le vetrine sono pronte a tentarti nell'acquisto, ma non tanto quanto i vassoi pieni di assaggi omaggio che sembrano aspettare solo te.
Ovviamente, non ho saputo resistere e mi sono mangiata 5 o 6 pezzi di una specie di rivisitazione a base pistacchio della pasta di mandorle.
Ai lati dell'esposizione, i pasticceri lavorano senza interruzione, curando con fare meticoloso questi grandi vassoi dove preparano i dolci: l'impasto sembra bollire gioioso nel burro, mentre qualcuno si dedica a "sporzionare" i vassoi già pronti e qualcun altro a girarli a mo' di frittata, per cuocerli su entrambi i lati.


Perdonerete la scarsa qualità, ma spero vi possiate calare un attimo nell'atmosfera per comprendere che, se non ho scritto un post, ieri è stata comunque una giornata ricca di senso 😏


lunedì 17 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXIV: Othman e il sogno infranto dell'Europa. Un incontro giordano.

Ci sono viaggi che hanno più senso di altri. 
Tipo quello di  Othman, che di viaggi ne ha fatti tanti, ma nessuno di essi è andato come sperava.
Ieri era il suo compleanno e timido, nella sua camicia bianca, cercava di minimizzarne l'importanza spostando l'attenzione sul fermento dello skatepark.
Scherzando, mi dice che non è un "good mathematician" ma sì, se da ieri ha 26 anni, ha incontrato la guerra quando ne aveva 11.


Lo aiuto nel calcolo e penso a quanto siano vicine le nostre età.
Ha vissuto in un campo profughi da quando ha memoria e in mente ha solo una data: 2003, l'inizio del conflitto in Darfur. Era lo stesso anno in cui le città italiane si riempivano di bandiere della Pace e le nostre menti di apprensioni per la Guerra in Iraq.
Mi riassume in poche parole quel conflitto che qualcuno ha avuto il coraggio di definire "genocidio" e basta farsi un giro sulla pagina wikipedia dedicata e confrontare le perdite nei due schieramenti per trovare conferma di un'avvenuta e perdurante epurazione etnica.
In sostanza, il governo centrale sostiene più o meno apertamente i miliziani che si sono guadagnati il nome di "demoni a cavallo", affinchè la popolazione agricola dell'Ovest del paese smetta di vantare pretese sulle sue legittime risorse, da decenni trasportate a Nord per arricchire i potenti del Paese.
Il campo profughi è l'ultimo baluardo a difesa di questo popolo oppresso che, "Inshallah" - "se dio vuole", un giorno sarà uno stato indipendente.
Sono dieci anni che Othman viaggia e si è fermato solo un anno fa, quando è arrivato in Giordania con un visto per cure mediche. Eppure, nonostante lavori e faccia il volontario in varie associazioni, i suoi piedi fremono, perchè sa di non essere arrivato dove avrebbe voluto.
"I gave up", mi dice ridendo di se stesso. Mi sono arreso.
Mentre racconta le tappe del suo viaggio, provo a quantificare il peso di tutti quei dinieghi, di tutti quei fallimenti, di tutti quei sogni infranti, ma non trovo un'unità di misura.
E' partito per l'Egitto dopo aver messo via un po' di soldi lavorando qualche anno a Khartoum e lasciando i 3 fratelli e le 5 sorelle carichi di speranze e preoccupazioni nel campo, ad accudire i genitori.
Se sono dieci anni che viaggia, sono dieci anni che Othman è solo.
Arrivato in Egitto, prova a imbarcarsi su un traghetto per l'Italia, ma la polizia li intercetta e non c'è possibilità di scappare. Mi racconta, ancora incredulo, che quella è stata l'unica volta in cui non è riuscito a scappare dalla polizia: in mezzo al mare, nell'oscurità, le sirene che lanciano l'allarme ad annunciare l'inizio della fine del suo primo tentativo.
Insieme ad altre 40 persone, trascorre i 45 giorni successivi nella cella di un carcere, senza mai uscirne, senza mai davvero dormire, senza mai davvero mangiare. "Ci portavano un solo pasto al giorno e non gli egiziani, ma le Nazioni Unite".
Quando esce di lì, se non teme di essere pazzo, è sicuro di essere cieco: l'unica cosa che vede è un aereo pronto a riportarlo in Sudan e un timbro di espulsione sul suo passaporto per i successivi 5 anni.
Ci riprova, questa volta attraverso la Libia: cinque volte si imbarca per arrivare in Italia, cinque volte lo riportano indietro. Cinque volte prepara la partenza nel buio del suo rifugio, dove sta barricato coi suoi compagni per evitare che qualcuno li trovi, li denunci, li ricatti, li torturi, li uccida.
E se scampa ai libici delle coste, non gli saranno d'aiuto le gambe veloci e il fisico dinoccolato per fuggire alle milizie del deserto. Proprio mentre pensava che il suo piano di rientro e il suo arrendersi definitivo gli avrebbero garantito il ritorno dalla sua famiglia, proprio mentre cedeva al sogno di una vita migliore sventolando in aria tutte le sue speranze a mo' di bandiera bianca, veniva bloccato nel deserto, al confine, a due passi dall'unico paese che gli sarà mai concesso di chiamare "casa".
I libici lo torturano e gli rompono le gambe, per l'unica colpa di non avere niente con sè da saccheggiare per ripagare il transito illecito in quella terra fuori controllo.
Miracolosamente, riesce a rientrare in Sudan e nella mostruosità di quell'atto subito, mentre guarisce e riprende le forze, riesce a scorgere una luce sotto cumuli di fallimenti e sconfitte.
E' così, con un visto per cure mediche, che arriva in Giordania, l'orgogliosa meta del turismo medico del Medio Oriente e del Maghreb.
Questa volta, arriva via aereo e sulle sue gambe piagate in eterno, raggiunge l'UNHCR, dove chiede l'asilo. I libici, nella bestialità della loro "punizione", gli avevano reso un servizio inconfutabile...
 E' un anno che Othman è in Giordania: in questo tempo ha studiato e lavorato. E' passato dal vivere solo in un'umida stanza di Jabal Amman, a condividere la casa dove, coi suoi amici somali, eritrei ed etiopi, abbiamo festeggiato il suo compleanno.
Soprattutto, non ha mai smesso di sperare, nemmeno per un giorno, di raggiungere i suoi compagni di viaggio, i tanti che sono riusciti ad andare avanti e che ora gli scrivono da qualche parte d'Europa. 
Ogni giorno, Othman si sveglia e spera che qualcuno lo venga a trovare e gli dica che un piano di ricollocamento è pronto per lui. Per lui, l'importante è muoversi, è andare.
Nel mio stordimento, credo di aver chiara solo una cosa: Othman non si è mai arreso, e mai si arrenderà.
Sapere che la forza con cui mi racconta la sua storia è la stessa che gli ha permesso di avere tante volte salva la vita, mi fa sentire grata e fortunata per questo incontro. Qualcosa mi dice che se fosse riuscito ad approdare sulle nostre coste, ci saremmo incontrati anche in Italia.

Il nome di Othman è stato modificato a scopo di tutela per la sua storia.

domenica 16 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXIII: Skateboarding in Amman


E' sabato sera e il sole splende e via via si dirada dietro le colline di Amman, come a chiudere definitivamente la settimana. Ma c'è ancora tempo... 

C'è tempo per giocare e per competere...


C'è tempo per chiacchierare, un occhio verso i figli che giocano lontano...


C'è un tempo per i discorsi importanti...


e un tempo per prendersi la mano...


C'è un tempo per volare, sfrecciando lontano...




e un tempo per realizzare che non ti puoi più fermare...


c'è un tempo per le sfide...



e uno per consumare le ultime energie.


C'è un tempo per ogni cosa, e per ognuno.


ma soprattutto, c'è un tempo per ammirare, e per costruire i piccoli sogni che ti porteranno lontano...


un progetto di Sawiyan --> https://sawiyan.org/

sabato 15 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXII: Wadi Mujib, il Gran Canyon e la mia immensa paura.

La Giordania è piena di Wadi - وادي: Wadi al Hasa, Wadi Al Karak... ma tutti mi dicevano che il Wadi Mujib è senza paragoni e che non potevo perdermelo.
Tecnicamente, la traduzione per Wadi potrebbe essere "Valle", ma dimenticate i libri di geografia e le valli a U o a V: i Wadi in Giordania non sono niente di tutto questo.
Piuttosto, sono dei Canyon scavati nei millenni dai fiumi che vi ci scorrono e che hanno progressivamente eroso le rocce. Avete in mente il Gran Canyon? Ecco, pare che il Wadi Mujib sia considerato il Gran Canyon del Medio Oriente e, nella mia scarsa cultura sul tema, credo che come scenario ci si avvicini abbastanza. La valle sfocia nel Mar Morto e l'acqua che vi ci scorre è una dei maggiori affluenti al curioso mare di cui vi ho parlato ieri...

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 Il Wadi Mujib doveva essere il più divertente "perchè "cammini" nell'acqua"- vi avviso: i verbi, in questo racconto, diventeranno molto relativi.
Mettiamo il giubbotto di salvataggio e non senza spavalderia ci caliamo nel rossore del canyon, immergendoci subito nell'acqua che, pur essendo calda, ci dà quel po' di refrigerio che cercavamo almeno dal primo tornante della Strada del Mar Morto. 
Ci inoltriamo risalendo quello che al momento sembra essere un gentile fiumiciattolo e ci godiamo la sensazione di isolamento dal mondo, chiuse tra quei due muri di rocce sconnesse ma arrotondate dall'acqua che si stagliano sopra le nostre teste per metri e metri di altezza.
Qualcuno fa strani versi per spaventare gli animali che vivono qui: il luogo è una delle riserve naturali più importanti del paese, dichiarata Patrimonio Unesco nel 2011 e mentre camminiamo sentiamo versi disparati di uccelli e troviamo moltissime piume sulle rocce irte della gola.

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"Cammina cammina" - come nei momenti più thrilling delle fiabe, in cui sai che stai per incontrare il cattivo - l'acqua si fa via via più alta e la sottoscritta comincia a scontrarsi con quella che avrebbe scoperto essere la difficoltà minore: risalire l'acqua contro corrente. Sbatto mani, piedi, testa, eppure il mio corpo non avanza di un centimetro...
Per fortuna, la mia amica Arianna viene a salvarmi con la sua prodezza da nuotatrice esperta e mi fa giustamente notare che basta che io prenda la spinta appoggiandomi ai bordi del canyon.
Se pensate che il problema possa essere che in alcuni punti non si tocca, beh, no, il problema - o almeno, il mio problema - non è stato questo.
Al di là del fatto che hai il giubbotto, è pure divertente lasciar penzolare i piedi, soprattutto se sai che sono diventati la preda preferita degli strani pesci trasparenti che vivono in questo fiume e che ti punzecchiano in ogni momento.
Premessa: ci avevano detto che due ragazze come noi avrebbero fatto il percorso, che è di una lunghezza compresa tra 1 e 2 chilometri, in mezz'ora. Sì, perchè noi siamo giovani e forti, dicevano, e ci sarebbero sicuramente state persone di una certa età molto meno agili di noi...
Il primo ostacolo lo incontro - e sì, la prima persona singolare è d'obbligo, dato che ero l'unica in difficoltà - quando devo strisciare contro la parete del canyon opposta alla corrente, per schivarla. Poi ci sono delle rocce emerse da passare - rocce bagnate, s'intende - per cui la riserva ha disposto delle corde.
Eccola, la fobia dello scalatore inesperto che si "prende male" quando vede una corda, perchè "corda" vuol dire "pericolo". Avrei scoperto dopo che questa era solo un'avvisaglia. 
Va beh, mi tiro su con le braccia e per poco scivolo, ma Arianna è pronta a prendermi e raggiungo la sicurezza di un sasso emerso. Poi ancora giù nell'acqua per proseguire e quindi, ancora corrente e corde cui aggrapparsi.
Raggiungiamo uno spiazzo - si può dire "lanchetta"? - e finalmente penso che posso rilassarmi dopo aver rischiato di scivolare più volte ed essere stata presa al volo da qualcuno dei visitatori mossi a pietà.
E invece no, perchè ad aspettarmi c'è qualcosa che assomiglia a questo, ma con molta più acqua - l'altezza dell'acqua dipende ovviamente dalle stagioni.


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Guardo Arianna e le dico: "No Ari, io non me la sento, ho già fatto troppo, ho già superato i miei limiti" e via con una buona dose di autocommiserazione...
Nel frattempo, una ragazza è scivolata giù da quel muro di roccia e d'acqua almeno 4 volte, evidentemente nel panico: io penso che se non ce l'ha fatta lei, che sembra pure essere la classica ragazza "fisicata" del Nord Europa, non ce la posso fare certo io.
Mi passano davanti tutte le scene di morte possibili, tipo io che annego anche col giubbotto, io che respiro sott'acqua e soffoco, io che cado di schiena, sbatto la testa contro un sasso e muoio.
No, io mi fermo qui.
Mentre sto lì, intontita, un gruppo di 5 baldi giovani evidentemente giordani mi sorpassa e con sicurezza si mette in coda per prepararsi alla scalata. Io nel frattempo continuo a convincermi che no, le mie braccia hanno già fatto abbastanza e che no, non posso avere altre energie per scalare quel punto.
L'ultimo di questi 5, il più mingherlino, tra l'altro, mi tende la mano e mentre sto cercando di riattivare le connessioni neuronali per dirgli che non me la sento, approfitta del fatto che la mia mano destra non è momentaneamente sotto il mio controllo e mi trascina verso di sè. Credo che non avesse capito che ero in pieno panico, ma che mi considerasse semplicemente la pecora nera di un gruppo che era rimasta indietro e andava aiutata. Beh, che andavo aiutata era evidente, che volessi proseguire, un po' meno.
Razionalizzata la mia paura, il ragazzo mi fa avanzare e mi trovo in posizione centrale: 2 di loro sono davanti a me, 3 dietro e dicono che possono aiutarmi "pushing from down" - spingendomi dal basso.
Non so cosa mi succede, ma vedendo la forza muscolare di 2 di loro, mi sento più tranquilla e quando è il mio turno, prendo la corda e miracolosamente salgo: credo di non essermi mai sentita così leggera in tutta la mia vita, e non so se è stato perchè ormai ero in ballo e dovevo ballare - o meglio, tirarmi su senza possibilità d'uscita - o se è stato grazie a quel "pushing from down" di cui, sinceramente, non ho memoria.
Dalla cima di quel muro di rocce, superata la scaletta, Arianna mi sorride e dice che ce l'ho fatta e che sono "una figa". Bene, troppe emozioni a favore della mia autostima in un solo momento...
Ci sono ancora un paio di passaggi complicati prima di arrivare in cima, fatti di scalette collocate sotto il getto dell'acqua, forti correnti da cui puoi salvarti solo se ti tieni "con due mani" alla corda e passaggi obbligati tra le pietre in cui non ti è concesso di sbagliare l'appoggio.
Credo di ricordare almeno altri 4-5 punti in cui una mano mi ha salvato dalla gravità e almeno altri 3 "ohhhhhhoohh" della gente che mi era vicina e che anticipava la mia caduta - per fortuna, come una sorta di esorcismo, questa non è mai avvenuta.
Arriviamo alla cascata che tante volte avevamo visto sulle guide e sui banner pubblicitari: ce l'abbiamo fatta e penso che, come il buon montanaro conferma, il grosso è fatto perchè al ritorno "tuti li vachi li travaca" ossia "anche le mucche riescono a scendere in discesa".

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Credendo quasi religiosamente che sono miracolata ad essere arrivata fino a lì, decido di non sfidare la sorte e mi rifiuto di fare il tuffo da una roccia che ti scaraventa nella pozza sottostante - apparentemente, il rito di iniziazione di questo naturale AcquaPark.
E questa volta, nemmeno le incoraggianti rassicurazioni dei nostri 5 amici giordani a saltare con me - "because I think you only need a hand" riescono a convincermi: io i tuffi MAI.
Sarebbero bastati 5 minuti a farmi scontrare con la dura realtà che i tuffi erano l'unico modo per tornare da dove ero venuta, a meno che non volessi rimanere lì per sempre, con qualche strano uccello che mi portava del cibo dall'alto.
Ci avevano detto - si, lo so che ormai questa è diventata la sigla d'apertura di un'enorme presa in giro - che al ritorno bastava lasciarsi trascinare dall'acqua, ma io sapevo, pur non avendo il coraggio di portarlo a coscienza, che quei passaggi mostruosi che avevamo fatto in salita, dovevamo farli anche in discesa.
Uno dei 5 ragazzi si mette a fare la guida esperta e va avanti con sicurezza a tastare il terreno e poi grida messaggi informativi a tutti noi su come affrontare quel passaggio.
Tralasciando il fatto che il fondo in alcuni punti è basso e quindi le rocce emergono urtando alternativamente schiena e fondoschiena, arriviamo al punto più "divertente".
Se prima siamo saliti da una rassicurante scaletta, ora il senso di marcia impone che al ritorno si passi per uno scivolo d'acqua "alias" una roccia levigata che si protende verso il nulla. Non faccio in tempo a sedermi e a dire alla guida del parco che spartisce il traffico "ho paura", che questo mi spinge giù per lo scivolo: non faccio in tempo nemmeno a razionalizzare che sto per cadere nel vuoto e poi in una pozza. Risultato: non tappo il naso.
Sento solo che sono caduta nell'acqua, penso che il giubbotto mi tirerà su, e respiro. Respiro sott'acqua. Quando il baldanzoso giovine che faceva da apripista mi tira su, mi dice "breath, breath", respira. E' stato il respiro più doloroso della mia vita, ma tutto passa e mi sento cento volte scema quando dico ad Arianna "sto bene, ma ho respirato, sott'acqua". 
Proseguiamo, non faccio a tempo a riprendermi che siamo a un secondo ingorgo. Anche qui, a quanto pare, l'unico modo per scendere è tuffarsi di sotto, e questa volta non c'è nessuno scivolo che possa avvicinarti all'acqua. Il tuffo sarà di circa 4 metri, i ragazzi e Arianna partono con un training motivazionale e mi dicono che posso farcela, discutono se sia meglio che io vada per prima o per ultima - credo che abbiano pensato che se rimanevo per ultima mi sarei immobilizzata prima di saltare - quindi decidono che tre salteranno prima, due dopo. Così ci saranno tre di loro a ripescarmi là sotto e due a spingermi se avrò una crisi di nervi. Ultima raccomandazione, "Non respirare, tappa il naso con le dita, e tieni chiusa la bocca!": ma dai!, direte. Vi assicuro che nel panico nulla era scontato, nemmeno che l'acqua potesse entrare dalla bocca.
Salto e saltando penso che prima salto prima smetterò di avere paura e se sopravviverò sarò viva.
Questa volta va meglio, non respiro nell'acqua, riemergo e "wow", sono viva.
Insomma, il peggio è davvero passato. Ci sono ancora alcuni punti in cui l'acqua è forte e devi stare attenta alle rocce, ma tutto prosegue per il meglio.
Cerco di rilassarmi, di lasciarmi trasportare dalla corrente e nel frattempo guardo in su: le pareti del Canyon proseguono a vista d'occhio fino quasi a toccarsi, qualche impavido raggio di sole riesce a filtrare, c'è una luce rossastra e mi chiedo se sono sulla Terra o all'Inferno - siamo comunque a 400 metri sotto il livello del mare, nel punto più basso del Pianeta.
Nella mia mente ho fatto un sacco di promesse, tra le quali quella di convertirmi all'Islam in onore a questo impavido venerdì.
Il mio racconto vi sembrerà esagerato e sapete: è la verità!
La mia paura e il mio terrore in quelle quasi 3 ore (!!!) che abbiamo trascorso là dentro erano esagerati, considerando il numero di turisti che vengono qui ogni giorno e il divertimento che ne derivano. Eppure, mi sono messa addirittura a interpretare la turista lamentosa che pensa "dovrebbero attrezzarlo meglio", "dovrebbero darci un caschetto", "servirebbe il paradenti" e tutta una serie di altri accorgimenti che a quanto pare sarebbe utili solo a me.
E' bello sentirsi così incapaci, comunque, non foss'altro che per la ragione che tutte le attenzioni erano su di me 😊 e scusate se tutto il mio femminismo Occidentale è annegato nell'acqua dolce del Canyon mentre ero così felice di essere sotto la protezione di quei 5 ragazzi Giordani che, sinceramente, credo ancora mi abbiano salvato da un gioco pericoloso.
A parte gli scherzi, credo che in alcuni punti, l'avventura sia anche stata divertente.
L'unica cosa certa è che me la ricorderò per tutta la vita.