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venerdì 26 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLV: storie sudanesi, pt.2

Quando arriva all'aeroporto di Amman, Mohammed indossa solo una maglietta: è febbraio, nevica.
Tra le tante cose che non si aspettava da questo paese, ricorda la neve come quella più assurda di 5 anni in Giordania.
Scende dalla scaletta dell'aereo e respira a pieni polmoni quella libertà e quella sicurezza finalmente raggiunta.
Sale su un taxi e si fa portare in centro città. Il taxista vuole fare conversazione e capendo che è nuovo e disorientato, lo lascia nei pressi di un bar sudanese, in downtown.
"Noi, in quanto comunità sudanese, ci aiutiamo gli uni gli altri". 
É sicuro che lì troverà qualcuno cui affidarsi. "Ehi amico, come stai? Sei appena arrivato? Darfur? Tranquillo amico, vieni a casa mia".
Ali, il suo primo "fratello" sudanese in Giordania, lo porta a casa sua. "Wallahi*, cinque coperte mi ha portato", dice a mo' di battuta ricordando il freddo di quel giorno.
Così, dopo le procedure del caso (UNHCR, registrazione, commissione) comincia a lavorare.
In questi 5 anni a Mohammed ne sono successe veramente di tutte: mentre mi racconta la sua storia con fare concitato non faccio fatica a credere a quello che mi dice. É un ragazzo nerboruto di 25 anni, ha un fare animoso e agitato. É pieno di energie, di forza, di vita. Mentre parla, sembra sempre che le vene del collo siano sul punto di esplodere. Mentre facciamo l'intervista un suo inquilino attraversa la stanza e mi dice "ehi Serena, hai mai incontrato un pazzo del genere in Europa?".
Mh, in effetti no.
Ha una vita da Rambo: ha rischiato di essere deportato in Sudan 3 volte e 3 volte è scappato. Due volte per essere stato "beccato" a lavorare illegalmente, una volta durante la deportazione del 2015.
Mentre parla, si fa beffe dei poliziotti con cui l'ha fatta franca. In effetti, a sentire con quali assurdi stratagemmi è scappato, anche io ho pensato "che poliziotto scemo".
"Solo, usa la tua mente. Non c'è tempo per gli altri, se tua madre è con te e devi metterti in salvo, lascia tua madre e scappa". Mi chiedo cosa abbia passato in Darfur per acquisire questa filosofia di vita, ma del Darfur non vuole parlare, quindi proseguiamo.
Le sue disavventure sono così concatenate che a volte gli sono state d'aiuto le une con le altre.
Ha rischiato di perdere una mano mentre lavorava in una cava, utilizzando un macchinario per tagliare i sassi. I pantaloni si sono incastrati negli ingranaggi e stavano per stritolarlo. Quando il collo era così vicino alla sega, ha avuto l'istinto di spingersi indietro con le mani. É salvo, per questo, ma se l'è vista brutta. 
La mano destra è piena di cicatrici, ma in fondo la muove bene. Dice di essere stato portato subito all'ospedale: i medici parlavano solo inglese e a quel tempo lui non capiva che l'arabo. Una cosa era chiara, se qualcuno non pagava l'operazione, avrebbero amputato. La rete di solidarietà si mobilità, i suoi amici fanno pressione sul capo e lo implorano di pagare. Mohammed è disposto a rinunciare ai 2 mesi di paga arretrata e a denunciare l'accaduto. Chiede solo di essere curato. "Se ti facessi vedere le foto, Wallahi, ma sei una ragazza!". Ride, e scherza sull'accaduto.
Era insieme ai quasi 800 cittadini sudanesi che protestavano fuori da UNHCR in quel capodanno gelato del 2015. Quando la polizia viene a sgomberare - che brividi "politici", questa parola - lui indossa ancora un cumulo di bende. Ha la prontezza di nascondere il suo passaporto lì sotto: mentre i suoi compagni vengono caricati sui bus, con la promessa "you are going to Canada", lui viene fatto aspettare per essere identificato. Nella confusione, nessuno si cura di lui, sale su un'ambulanza, si fa piccolo piccolo e rimane lì, nascosto tra le attrezzature mediche, finché il mezzo non parte, incurante di quella presenza non autorizzata. Dall'ospedale in cui approda, ai margini di Amman, scappa e torna a casa. 
A farsi beffe dei poliziotti, mentre il TG trasmette le immagini di una deportazione tanto controversa quanto ancora irrisolta, che ha visto oltre 700 sudanesi rimpatriati nella terra inospitale da cui erano fuggiti. In barba alla convenzione di Ginevra - che la Giordania, scaltramente, non ha mai ratificato - ai protocolli d'intesa e al sacro santo diritto umani al non refoulement.
Alcuni di loro, mi dice, ora sono in Europa. Altri, sono morti in mezzo al mare. Questa è la meno triste delle ipotesi, perché almeno non sono stati uccisi dalle milizie connazionali che continuano la pulizia etnica del Darfur.
In questi anni Mohammed ha rotto anche una gamba, ha cambiato 32 lavori e avuto mooolto ragazze. Questo, a detta sua. 
Ora si bea di quegli 80 jd che riceve dalle Nazioni Unite per via dell'incidente e vive così, arrotondando con qualche giornata lavorativa al mese.
Nel frattempo, studia inglese e un corso di Social Worker online. Soprattutto, balla come non ci fosse un domani, balla in continuazione, balla intorno al mondo.
Per la sua spavalderia, per il suo cinismo, per la sua apparente freddezza e per il suo forzato distacco dalle cose, per il suo fare un po' cialtrone e per il fatto che non sta mai zitto, si potrebbe odiarlo. 
Ma tutti lo adorano, anche io, anche quando, ogni volta che mi invitano a un party, mi trascina verso il centro della sala e mi obbliga a ballare con lui: "vedi che sono guarito bene?".


* Wallahi: tipica esclamazione araba che significa più o meno "giuro su Allah"

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