Tutti amiamo le storie, soprattutto quelle che ci vengono
raccontate. Amiamo restare ad ascoltare la voce di qualcuno che ci parla di ciò
che noi non abbiamo visto o che non abbiamo nemmeno mai immaginato. Stiamo in
silenzio e, mentre le nostre orecchie ascoltano, i nostri occhi vagano nello
spazio di una fantasia creatrice, che cerca di immaginare forme e colori di
quel racconto.
Se poi abbiamo sottomano un libro, magari pure illustrato, la
strada è più semplice, perché chi ha scritto quel libro ha già mediato tra
realtà e fantasia e ha provato a rendere immutato e verosimile il contenuto
reale o fantastico della sua mente.
Tutti amiamo le storie, anche per una specie di transfert futuro: tutti speriamo che quando
saremo vecchi avremo anche noi molte storie da raccontare. Per questo scriviamo
i diari, conserviamo lettere e biglietti d’auguri, scattiamo foto per
immortalare il momento che ci servirà per riagganciare nella nostra mente eventi
minuscoli e migliaia di azioni che hanno reso quella storia abbastanza
importante da essere raccontata.
Le mie storie preferite sono quelle che mi parlano di un
mondo che c’era, ma che non ho conosciuto. Questo perché sono nata in un’epoca
relativamente recente. Ma ho avuto la fortuna di sentirmi raccontare di persona
storie che risalgono ai primi anni del Novecento.
Dai miei nonni, soprattutto,
che hanno vissuto esperienze e vicende che ad oggi hanno dell’impossibile. Storie
di fame, di prigionia, ma anche e soprattutto storie di coraggio ed entusiasmo.
Amavo ascoltare quelle storie perché mi parlavano di cose e persone che ho
conosciuto, perché mi svelavano ragioni e motivi della realtà che avevo sotto
mano. Delineavano nella mia mente la giovinezza degli avi, la loro vita di
campagna, le loro arti e i loro mestieri. Ed era una realtà così distante, ma allo
stesso tempo così mia, che stavo morbosa a indagare ogni dettaglio, ogni
minuzia, ogni aneddoto che potesse approfondire la mia conoscenza.
Quelle storie non le sento ormai più, con un velo di
tristezza e malinconia sono rimaste sepolte tra le buone abitudini di quando c’erano
i nonni…
Non pensavo di certo che il 2016 iniziasse ri-portandomi a
questa emozionante scoperta del mondo che c’è stato. No, non ho scoperto niente
di più sulla mia famiglia o sulle mie radici, ma ho avuto il piacere di
ascoltare una storia delicata e sensibile, come se fosse stata tracciata con setole
morbidissime e levigate dal tempo. La storia di Bruno Munari, vista dagli occhi
del suo amico e collega Giancarlo Iliprandi...
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Questo perché alle 00.01 del primo giorno dell’anno mi ha
raggiunto un pacco misterioso e anche piuttosto controverso – ma questa è un’altra
storia – contenente l’originalissima biografia per immagini Note, di Giancarlo
Iliprandi. Un desiderio espresso ed esaudito.
Quella stessa notte, tra le famose 00.01 e le due, mi sono
addentrata tra le sue pagine, nella mordace curiosità di scoprire qualcosa di
nuovo su quell'artista di cui avevo sentito tanto parlare e a cui ero approdata,
ancora una volta, attraverso le fila sottili e robuste che legano gli artisti italiani che hanno avuto la loro massima espressione tra gli anni Cinquanta
e Sessanta e tra i quali, per quanto mi riguarda, Bruno Munari è l’assoluto
paradigma.
Quello che ci ho trovato, tra i tanti spunti per cui vi consiglio
i leggerlo, è la storia di una bellissima e semplice amicizia tra artisti
geniali nella Milano degli anni Sessanta. Probabilmente solo uno dei tanti
percorsi tracciati dai ricordi di Giancarlo Iliprandi, ma egli non me ne voglia
se per oggi sposterò – ancora una volta, lo so – l’attenzione sul bellissimo
ritratto che mi ha regalato di Bruno Munari.
D’altronde, credo che mi comprenderà, dal momento che pure
sua figlia Viviana si innamorò di Bruno “a prima vista, come tutti i bambini”. Okay,
visto che non sono più una bambina, o meglio credo di non esserlo più per
molti aspetti, la storia che Iliprandi mi ha raccontato ha in un certo senso dispiegato,
ha reso palese a me stessa le ragioni di questa smisurata passione che mi lega
a Munari. Leggendo le sue parole era come se nella mia mente si chiarificasse
il garbuglio di sensazioni e impressioni che in questi anni ho raccolto su di
lui e che non riuscivo a riordinare per trasformarli in lucida motivazione di
tanto interesse.
Mi sembra di vederlo, seppure le immagini che ho di lui sono
solo fotografie, nella sua casa-studio. La stessa in cui ha accolto Giancarlo Iliprandi
quando era andato a chiedergli di poter esporre alcune delle sue opere in una
delle letture sull'arte contemporanea in Italia che avrebbe dovuto tenere a Salisburgo. Bruno Munari non aveva
monografie, non aveva agende né schedari: “segna brevi appunti su dei foglietti
10x10 che infila in tasca ripiegati” e “mi riempì di foto”, proprio per questo suo
alternativo modo di documentare.
Lo immagino avvolto nella sua “cordialità
contagiosa”, quella con cui affrontava ogni situazione. “Discuteva ogni obiezione
tra il divertito e l’infastidito. […] I contrasti finivano con rallentare il
lavoro, mentre lui tendeva a risolvere tutto seguendo un ritmo interiore”. D’altronde
era stato in Giappone e da quel suo viaggio sembrava aver ereditato non solo i
principi Wabi Sabi, ma pure quell’atteggiamento zen che sembra brillantemente
permeare le teorie esposte nei suoi libri più “teorici” – Da cosa nasce cosa, Artista e designer.
“Bruno parla con i bonsai”, “colleziona oggetti
piccolissimi, perché occupano poco spazio” e “viaggia con le sculture da
viaggio”, elementi indispensabili, come se dovesse sempre, pur in punta di
piedi, portarsi dietro qualcosa della sua stessa essenza.
Le sue doti principali? Iliprandi cerca di descriverle, e lo
fa in uno stream of consciousness di arzigogolata spontaneità: salta da una
parte all’altra, cercando di racchiudere dentro una grande rete, tutti gli
sprizzi di una personalità così vasta. “La sua dote principale”: la
flessibilità, il rigore, la spontaneità. “Trova su una bancarella un disco in
dialetto comico milanese. Ripete le battute con quel suo accento un po’ veneto,
ride tanto che gli vengono le lacrime agli occhi”, e poi “tutte le sere del ‘65
lo troviamo al Derby che canticchia ‘L’ombrello di mio fratello’” o una canzone
di Tony Dallara con una strofa che termina “in fondo ad un bicchiere di gin”. “Bruno
la canta spesso anche se non beve gin”. Tutto questo come se si facesse guidare
dall’ondata di una sensazione crescente di vitalità ed energia, che gli sa
sempre indicare, con un’estemporaneità determinata, ciò che è giusto fare.
Addirittura
si narra una cosa molto insolita, che se conoscessi Munari appena d’accenno, mi
confonderebbe: “è salito sul Duomo a manifestare con altri europeisti. L’hanno
arrestato”.
Fonte: munart.org |
In effetti io me lo immagino così: composto e ordinato
quanto basta da creare un metodo, quello del Codice Ovvio, ma
sufficientemente audace per mettere tutto in discussione, per farsi sorprendere
da ogni cosa. “Le mani, le forbici, i ritagli colorati che gli restavano appesi
alla giacca, le poche righe su fogli di carta destinati a chissà quale proto”. “Non
possiamo lasciarlo solo con una forchetta” – e chi è esperto comprenderà - perché
tutto è materia buona per creare, per dare nuove forme, funzioni, valori, per
vedere oltre il consueto.
L’ironia, insieme all’equilibrio zen, lo accompagnavano
quando c’era qualcosa da discutere: “non gli piace di venire etichettato”, “anche
Munari era intransigente: sotto il suo aspetto mite, non sopportava i mercanti
d’arte, la pubblicità” e soprattutto “niente lo metteva in soggezione”.
Ma se proviamo a definirlo, a trovare un’espressione che sia
degna della sua vitalità?
Iliprandi lo circoscrive con un’espressione che a me piace
molto: “Bruno Munari è stato un indiscusso, impareggiabile modello di
pensatore. Potremmo dire anche di progettista, pure di educatore, infine di
tante altre cose. E forse non solo modello. Forse sarebbe più appropriato
esempio. Di linearità, di chiarezza, di nonsochealtro. Perché riassumere la sua
vitalità con espressioni consuete pare quasi riduttivo. Un modello e basta. Fuori
dal tempo”.
Fuori dal tempo perché, a conoscerlo, si capiva subito che
aveva una marcia in più. Come se fosse “tarato su un metronomo più stimolante,
messo in movimento durante gli anni futuristi, chissà".
E se proviamo a dire quali sono state le sue opere più
importanti?
Iliprandi dice era un “grande comunicatore”. E credo che
questa espressione abbia molto valore se detta da un professionista della
comunicazione come lui, da uno che ha fatto del dovere di comunicare il suo
lavoro, il suo impegno, la sua passione. Ma “forse le sue cose più importanti
sono quelle per i bambini, per i ragazzi. Era un formatore”, perché per essere
dei buoni formatori bisogna innanzitutto saper comunicare, saper trovare una
corsia preferenziale e brillante per arrivare prima al cuore e poi alle menti di
chi si mette nelle tue mani per imparare.
E forse la caratteristica vitale che lo rendeva un formatore
d’eccellenza era il fatto che mettesse “sullo stesso piano positivo e negativo.
Il suo difetto principale: essere sempre positivo. Veramente positivo”.
Fonte: brunomunari.it |
“Veramente positivo” da accettare qualsiasi espressione come
forma d’arte, mi verrebbe da dire. “Veramente positivo” da intravedere in ogni
scarabocchio tracciato, in ogni foglietto ripiegato, in ogni macchia di colore
sgocciolata dai bambini che a partire dal 1977 – anno del primo laboratorio per
bambini all'Accademia di Belle Arti di
Brera – un’energia vitale origine di idee creatrici.
La cosa più importante che credo di aver imparato da Bruno
Munari è a dare un preciso profilo al termine ‘creatività’: la capacità di
saper accostare o leggere in modo diverso cose esistenti. Per lui ‘creatività’
non era mai ‘invenzione’ o ‘fantasia’. “Essere creativi non è esplorare un bizzarro
ignoto territorio di caccia. Bensì, e con un maggiore raziocinio, ridurre il
campo d’azione entro l’angolo del nostro sapere contingente”.
Insomma: saper guardare ciò che abbiamo sotto gli occhi con
uno sguardo diverso e, soprattutto, da una nuova prospettiva, per saperlo
trasformare, manipolare, ricreare, risignificare.
Ed è per questo che è stato bello trovare tra queste pagine
bianche profumate di nuovo la ‘soluzione’ ai loro lavori, a quelli di Bruno
Munari e dei suoi colleghi (Giancarlo Iliprandi, Max Huber, Achille Castiglioni,
Albe Steiner e tutti gli altri): “una certa operosità è diventata creatività. Perché
anche noi, lontani cugini del signor Da Vinci, necessitavamo di un passaporto. O
di una patente o di un lasciapassare o di una bolla qualsiasi. Purché fosse
chiaro che eravamo dei creativi, finalmente. E non, come per decenni si era
supposto, dei pittori, degli scrittori, degli artisti qualsiasi ma, finalmente,
dei creativi”.
E così è questo quello che resta, di questa incommensurabile
produzione innovativa e originale, audace come solo audace può essere la
passione rinascente di artisti, designer, architetti che hanno avuto la
responsabilità di dare una chance a un’epoca nuova. Sperimentazioni libere e
autonome, che trovano nella loro stessa encomiabile innovazione la linfa vitale
per esistere anche fuori dagli ordini, dai generi, dai mercati, come il design
di Enzo Mari che “ha sempre fatto quel che voleva, pur con quel carattere
terribile che si ritrova”, come la tipografia e la grafica di Iliprandi, come
la pedagogia bizzarra e libertaria di Munari.
Probabilmente per questo li ricorderemo, anche se magari
loro l’avranno fatto perché “l’unica cosa che resta della vita di un uomo è quello che
egli ha fatto per gli altri.” Bruno Munari diceva questo con molta semplicità,
con leggerezza. Con quella voce da ragazzo che lascia perplessi molti
accademici.
Una semplicità che mi sembra di ritrovare, soffusa e quasi
timida in quella foto insolita e sgranata dal tempo,di Bruno Munari a Filicudi, nel suo museo
delle ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari. La mia foto preferita, il
mio paradigma descrittivo di quest’uomo.
Ma come molti dicono, ognuno conosce un Munari diverso, e
sono grata a Iliprandi di avermi lasciato immergere nella sua calorosa e
familiare atmosfera, soprattutto in quella del 1949, quando, all’isola d’Elba con
Alberto (Munari) cercavate piriti all’interno di una cava abbandonata. “Bruno
visto di spalle, vestito di bianco, all’imbocco della miniera dove eravamo
andati a cercare piriti pareva indispensabile. Doveva entrare nel libro. Doveva
entrare assolutamente”.
Invece siamo ancora là, nella cava rossa, carezzati dall’odore
della macchia.
E forse, grazie a questa storia raccontata, pur senza quella foto indispensabile, in quella cava
rossa mi sembra di esserci stata anche io, fosse solo per un minuto.
Foto tratte da Note, Giancarlo Iliprandi, Hoepli, 2015.