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martedì 23 ottobre 2018

SENSI di VIAGGI XLIII: Madaba e i mosaici bizantini

Vaghiamo per Madaba senza pretese, in un venerdì tranquillo e assolato di inizio autunno. La città è deserta, come solo può essere di venerdì in un paese del Medio Oriente. La gente ancora dorme oppure si aggira rilassata per la città. Non c'è traffico, solo frotte di turisti come noi che vogliono sfruttare il weekend.


Siamo qui per vedere i famosi mosaici bizantini e le chiese della città: un terzo della popolazione è cristiana e i due edifici più importanti sono la Chiesa di San Giorgio e il Santuario della Decapitazione di Giovanni Battista. Sono edifici abbastanza nuovi, il primo ortodosso, il secondo cattolico, costruiti tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo.
Ci stupiamo di vedere così tanti pellegrini, così tanti preti e suore. In un certo senso, ci sentiamo un po' a casa, in questa cittadina a mezz'ora dalla capitale che sembra la riduzione in scala di uno dei nostri centri storici.
Da qui sono passati in molti: una delle 12 tribù di Israele, gli Ammoniti, i Nabatei, i Romani e i Bizantini. Abbandonata per più di 1000 anni dopo un violento terremoto, si è ripopolata poco più di cento anni fa grazie a una comunità di duemila cristiani fuggiti da Karak dopo uno scontro coi musulmani locali.
Nella chiesa di San Giorgio c'è uno dei mosaici più importanti del mondo: la più antica cartina della Palestina - e della Terra Santa - scoperta un po' per caso mentre si scavava tra i resti di una chiesa bizantina per erigere l'attuale chiesa cristiana. Entriamo con religioso silenzio, la chiesa è modesta: cerchiamo il famoso mosaico fino a trovarlo sotto i nostri piedi. E' rimasto ben poco, ma si intuisce la magnificenza di quell'opera originariamente lunga circa 20 metri e composta da 2 milioni di tessere.
Tutta la geografia del Medio Oriente è sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi: le didascalie sono in greco, ma la riproduzione all'ingresso ci ha permesso di orientarci e riconosciamo le città principali: prima fra tutte, Gerusalemme.


 
Proseguiamo un po' a zonzo, tra i negozietti colorati della via principale: i venditori ci guardano, desiderosi di una nostra visita nelle loro botteghe. Scopriremo che sono gli unici personaggi attivi della giornata, considerando che vagheremo per più di un'ora prima di trovare un posto aperto dove mangiare. 
Arriviamo a uno dei due parchi archeologici della città: ci sono un uomo e un bambino ad aspettarci. 


Ci chiedono se abbiamo il Jordan Pass, senza intenzioni di controllarlo. Il bambino prende l'iniziativa e ci porta a fare il tour guidato dell'area, mentre quello che presumiamo essere il padre, giace inerte sulla sedia. E' un parco veramente piccolo, ma ci sono dei mosaici bellissimi su quello che doveva essere il pavimento di una chiesa. Il bambino ha 12 anni, (non) sa una parola di inglese: "come" - "venite". Va velocissimo, ma si ferma a ogni cartello esplicativo per farcelo leggere, certo del nostro interesse. 



Appena togliamo gli occhi dal pannello, inizia a indicare qualche animale tra i mosaici e dice il nome in arabo. Vuole fare una foto, orgoglioso delle sue competenze turistiche; soprattutto, ambisce a quei due dinari che ci ha fatto risparmiare per non averci stampato il biglietto.


Ma il vero gioiello della città è il Santuario di cui sopra - in cui troviamo il Gesù più biondo di tutti i tempi.



Saliamo sul campanile, 100 gradini tra le corde delle campane che oscillano al nostro passaggio. La vista è magnifica, da lì: si vedono i confini della città, l'estendersi infinito del deserto. Non smetterò mai di meravigliarmi di questa assenza di limiti, di spazi incalcolabili, di questa assenza di barriere naturali. Forse, dell'assenza delle Alpi, che anche qui viziano la mia percezione dello spazio.




Respiro a pieni polmoni, l'aria del deserto e il calore di un ottobre ancora gentile. Il muezzin canta il richiamo alla preghiera dalla moschea principale della città. Questo mix di religioni ci stupisce e ci rilassa. Forse, siamo contagiate dalla spiritualità del luogo.
E' così che decidiamo di proseguire e di portarci fuori città, per vedere la Terra Promessa: prendiamo un Taxi per il Monte Nebo, nel nostro risoluto tributo a Mosè.
Ma questa, è la storia di domani ;-)

giovedì 13 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XX: i murales di Amman

Credo di avervi promesso di parlarvi dei Murales di Amman: ci tengo molto a darvi un'idea della quantità e della qualità di questi lavori perchè credo che molti di noi non si aspettino tanta effervescenza artistica in Medio Oriente. E invece la città continua a sorprendermi e a rivelare un volto giovane e intraprendente che vuole rendere gli spazi più vivibili e trasformare anfratti grigi e "scontati" in attimi di sorpresa per il turista e, spero, per gli abitanti storici.


I principali Murales che ho fotografato si trovano tra IlWebdeh e Jabal Amman, due colli limitrofi tra i più "storici" della città. 
Ho già detto mille volte che IlWebdeh è il cuore artistico di Amman, sede di mostre, gallerie, musei e centri culturali che hanno creato un ambiente davvero florido per artisti locali e non solo: la cosa curiosa è che questo colle è anche uno dei più antichi insediamenti della città, motivo per cui l'effetto "street art" [arte di strada] può sorprendere...



Ma la verità è che questi murales forniscono anche un fondamentale servizio agli abitanti: l'incoraggiamento". Molte delle scale storiche della città, quelle che collegano "per direttissima" i punti nevralgici - leggi: ti scaraventano vertiginosamente verso i piedi del colle OPPURE ti obbligano a intraprendere una via Crucis per arrivare in cima - sono state ridipinte, nascondendo la loro vera natura omicida dietro centimetri di acrilico...




In questo modo, la salita vi sembrerà forse meno faticosa e creerà anche una brillante cornice per ammirare il paesaggio da uno dei rari pianerottoli che si affacciano sulla città.


In molti casi, i murales hanno coperto "moderne" colate di cemento o pareti di calcestruzzo abbandonate da troppo tempo. In altri, hanno dato un senso ai muri di alcune case costruite senza troppa regolamentazione edilizia...

In altri, invece, servono "solo" a rendere più "in" e più attrattivo un quartiere che già di suo ti avvolge con la sua magia e in cui è piacevole perdesi...





Purtroppo per voi e per me, la mia ricerca non ha dato molti frutti: ho trovato alcune informazioni riguardo il progetto dei murales in questi link qui sotto che vi suggerisco di aprire anche solo per vederne degli altri.
Prometto che ci sarà una "Parte 2" non appena riuscirò a documentarmi un po' meglio sul progetto, su chi l'ha proposto, su chi sono gli artisti e quali le fonti di ispirazioni per i disegni.


LINK UTILI:



mercoledì 12 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XIX: gatti, taxi e murales ad Amman, in quantità.

Tra il milione di cose che possono incuriosirti quando passi più di qualche ora ad Amman, ce n'è una che mi assilla da giorni: in questa città, ci sono più gatti, più taxi o più murales?


Il quesito è davvero rilevante, soprattutto se cerchi strenuamente di sopravvivere in qualità di pedone e devi tener conto di queste tre distrazioni che possono facilmente distoglierti dalla tua meta.
Partiamo dai gatti: io credo che questi animali abbiano un nonsochè di universale. Tutte le culture amano i gatti - okay, magari qualcuno può esserne allergico, può averne paura, può odiarne il pelo - ma, in generale, non so di una società che li ripudi apertamente. Spero di non essere contraddetta perchè il mio grande maestro Bruno Munari - sì, lo so, è un po' che non vi parlo di lui 😟 - diceva
che "conoscere i bambini è come conoscere i gatti. Chi non ama i gatti non ama i bambini e non li capisce". Ecco, questo sillogismo è a sostegno della mia tesi, datosi che ogni società che voglia perpetuarsi nel tempo DEVE amare i bambini, e quindi i gatti.

                                         
                                                                                       Il gatto che "fa la pasta" c'è anche ad Amman
Ad Amman, la gente ha paura dei cani - che sono praticamente assenti fatta eccezione per qualche expat-dog di razza che ha varcato il confine e ottenuto il visto insieme al padrone.
I gatti, invece, sono ovunque: in ogni giardino, in ogni vicolo, in ogni via che sia degna di questo nome. 
Purtroppo, il mio romanticismo finisce qui, perchè la loro presenza non è un buon segno. 
Tu stai camminando e all'improvviso vieni spaventata da un rumore molto, molto vicino: ed ecco un gatto che salta fuori da un cassonetto della spazzatura con un osso di pollo tra i denti. Questa è la migliore delle ipotesi, perchè la spazzatura è ovunque ad Amman - non solo nei cassonetti - e questo è un vero peccato oltre che, in certi casi, il vero scempio di una nazione che avrebbe molto da dare in termini naturalistici e artistici.
Ma la spazzatura è ovunque, e i gatti ne sono molto felici. Sono soprattutto felici di spaventare a morte ogni turista saltando fuori dai cassonetti con felicità e prodezza.
Andiamo ai taxi: anche questo non è un buon segno, i taxi sono ovunque ad Amman perchè i trasporti pubblici non sono molto efficienti. In realtà, c'è una fitta rete d'autobus ma credo di aver dedotto che essa è un'esclusiva locale perchè nessun turista ha mai capito da dove partono e, soprattutto, dove arrivano. Se state pensando che io sia incapace, potreste avere ragione, ma comunque "Santa Lonely" aggiunge un motivo in più per non curarsi di loro: "gli autobus sono lenti e poco affidabili".
Per sanare questa falla, i taxisti si sono moltiplicati esponenzialmente, fino a occupare ogni "corner" della città. Fosse solo il fatto che intasano le strade, non sarebbe un grande problema: il disagio che creano al pedone, invece, consiste nel fatto che essi suonano il clacson ad ogni forma vivente che pensano si stia muovendo a poca distanza da loro - quindi, suonano anche ai gatti.
Suonano il clacson, e questo l'ho già raccontato qui, non per salutarti, apprezzarti, segnalarti un pericolo: no, suonano il taxi per chiederti se hai bisogno di un passaggio. Se devi fare un chilometro - secondo la mia modesta opinione questa è la distanza massima che un cittadino occidentale possa sopportare ad Amman - diciamo che verrai "strombazzata" almeno una decina di volte, per una media di 1 clacson ogni 100 metri.
Il fatto è che per i giordani appare inconcepibile che uno possa voler camminare di sua "sponte" e fare tutta questa fatica ingiustificata, quindi anche se rispondi "La - لا" - "No" in arabo, se fai "No" con la testa - che poi, chissà cosa significa scuotere la testa dx-sx-dx-sx in Medio Oriente, se fai oscillare l'indice della mano a mo' di pendolo rovesciato - anche questo gesto ha una dubbia valenza universale - insomma, anche se cerchi in tutti i modi di rifiutare un passaggio, loro ti suonano almeno altre 2 volte, perchè per loro la tua testardaggine è pura follia.
Ho capito che la miglior soluzione è continuare a camminare, senza perdere tempo in gesti e dinieghi, per la serie "non ti curar di loro ma guarda e passa".
Capirete dunque che, per tutti questi attentati alla mia sanità mentale, sto cercando di collezionare prove a favore del fatto che i gatti e i taxi non potranno mai essere tanti quanti i murales che decorano la città. Il peggio che ti possa accadere se incontri un murales è che prendi una storta mentre pretendi di fotografarli camminando per non essere assalita dai taxisti che ti credono esausta e dai gatti che ti credono la mamma. Insomma, niente male.
Questo è il motivo per cui, nel prossimo post, cercherò di mettere insieme quello che ho scoperto sui murales di Amman.

domenica 9 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XVI: un cinema da "Le Mille e una Notte"

Avete presente l'atmosfera da "Le mille e una notte"? 
Un magnifico palazzo, candele che illuminano il paesaggio quel tanto che basta a creare un ambiente stellare, suonatori che lanciano note al cielo per portarlo più vicino...
Nelle serate di questa settimana si sta svolgendo ad Amman l'Arab Film Festival e la location della Royal Film Commission sembra essere fatta apposta per evocare i racconti persiani di dieci secoli fa...


Appena varcato il cancello, scendo le scale che conducono al giardino terrazzato: in mezzo agli alberi, un bar e poco più avanti una splendida piazza su Amman: è il cortile interno, volto al limitare del colle, da cui è possibile ammirare in lontananza le inconfondibili colonne della Cittadella.
Ad attendere me e gli altri spettatori c'è un piccolo anfiteatro: miracolosamente trovo posto. 
La brezza sembra risalire dal colle per rendere l'aria frizzante quanto basta a preparare i nostri corpi e le nostre menti al film della serata. Le luci soffuse in contrasto con i mille puntini luccicanti che ci restituisce la città sui colli di fronte. Le moschee, coi minareti illuminati in verde - il colore dell'Islam - catturano la nostra attenzione e la fagocitano col canto del muezzin. 
All'estrema sinistra, la Cupola della Sala delle Udienze sembra catturare tutte le luci della città, e restituirle con un abbaglio.
Ora, se pensate che tutto questo sia troppo, immaginate quando inizierà il film, e potrete gustarvelo in questa atmosfera.
In più, la Royal Film Commission ha proposto nel programma di quest'anno dei film molto audaci e di aperta critica verso le società arabe contemporanee.


Beauty and the dogs, per esempio, è un atto di denuncia alla corruzione e all'abuso di potere della polizia tunisina, attraverso la lenta ma audace resistenza di una ragazza che viene stuprata da alcuni agenti di pattuglia.
Kiss me not, invece, è un'esilarante commedia al limite del documentaristico che vuole testimoniare la progressiva scomparsa della "seduzione" dalla produzione cinematografica egiziana e far riflettere sull'irrigidimento morale di questa società.
Insomma, racconti pregnanti e necessari, fortemente stimolanti e anche un po' provocatori verso il pubblico medio, che servono a farci dialogare con presupposti culturali e risvolti postmoderni delle eredità storiche del '900.
Certo, questo è solo un punto di partenza e chissà, forse un modo per lanciare spunti di riflessione senza soluzione e tenerci in costante tensione - e attenzione - sul tema. Un po' come faceva Shahrazād, nel continuo rimandare il finale dei suoi racconti. Questa volta non per evitare la morte, ma per mantenerci impegnati e vigili in una visione critica del mondo che ci circonda.

giovedì 6 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XIII: il giardino segreto di Amman

Darat El Fununدارة الفنون - è, letteralmente, il dipartimento delle Arti. Nella pratica, è una delle tante gallerie d'arte che, insieme a murales e botteghe d'artisti, rendono ElWeibdeh il posto meraviglioso in cui ho la fortuna di vivere.



Ma, con tutto il rispetto, nè le mostre nè la collezione sono il motivo per cui ho preso la buona abitudine di venire qui tutti i pomeriggi: Darat El Funun è soprattutto un posto magico, immerso nell'ombra di piante di ogni tipo, dove riposare, bere un tè e godersi il panorama sulla città. Appena entri in questo giardino segreto, non ti abbaglia solo la luce - tipica di Amman - ma anche l'atmosfera fuori dal tempo, che ti obbliga a chiederti: sono ancora sul pianeta Terra?
Darat el Funun è un complesso architettonico tagliato a metà da una rampa di scale - l'ennesima - che porta al fulcro del quartiere. E' una specie di strada obbligata: se ti muovi a piedi devi passarci per forza, almeno una volta. Erano giorni che guardavo incuriosita attraverso le entrate e mi ripromettevo di venirci presto.
Quale migliore occasione se non un pomeriggio di sole cocente per cercare ristoro e ombra qui?
Entrando dall'accesso inferiore, mi trovo davanti ai resti di una chiesa bizantina. "Resti", in Giordania, vuol dire colonne, come avrete avuto modo di vedere qui e qui.



Ma la meraviglia del posto si rivela subito essere il giardino terrazzato: al momento, davanti a me vedo palme, gelsomini, ulivi e decine di gradini in pietra locale che mi invitano ad andare sempre più su. 
Salgo, e trovo piante di fico, viti e bouganville. Salgo ancora, e la scoperta continua. Scopro addirittura che una palma può crescere sopra un ulivo 😉


Sono finalmente all'ombra, non riesco a scattare foto decenti perchè la luce è - come sempre - troppo forte. Mi giro e la veduta che mi si apre davanti è questa.


Alla fine della salita, incontro un amico - nemmeno lui conosce la sua identità, quindi non potrò dirvi il suo nome...

                            

La direzione del museo è abile, e colpisce la mia attenzione con delle strane lenti sul muro: sembrerebbe che nelle pietre che hanno usato per costruire la casa, ci siano dei fossili.


Finalmente, trovo il posto che cercavo... è magnifico fermarsi qui, all'ombra, dove solo qualche impavido raggio di sole filtra tra le foglie. Il gorgogliare dell'acqua, un rivolo di vento, tanti fiori e qualche gatto che gironzola - come in ogni dove ad Amman.
La grande bellezza, per me, è questa ❤️












mercoledì 6 gennaio 2016

Un "modello di pensatore": Bruno Munari raccontato da Giancarlo Iliprandi

Tutti amiamo le storie, soprattutto quelle che ci vengono raccontate. Amiamo restare ad ascoltare la voce di qualcuno che ci parla di ciò che noi non abbiamo visto o che non abbiamo nemmeno mai immaginato. Stiamo in silenzio e, mentre le nostre orecchie ascoltano, i nostri occhi vagano nello spazio di una fantasia creatrice, che cerca di immaginare forme e colori di quel racconto. 
Se poi abbiamo sottomano un libro, magari pure illustrato, la strada è più semplice, perché chi ha scritto quel libro ha già mediato tra realtà e fantasia e ha provato a rendere immutato e verosimile il contenuto reale o fantastico della sua mente.

Tutti amiamo le storie, anche per una specie di transfert futuro: tutti speriamo che quando saremo vecchi avremo anche noi molte storie da raccontare. Per questo scriviamo i diari, conserviamo lettere e biglietti d’auguri, scattiamo foto per immortalare il momento che ci servirà per riagganciare nella nostra mente eventi minuscoli e migliaia di azioni che hanno reso quella storia abbastanza importante da essere raccontata.



Le mie storie preferite sono quelle che mi parlano di un mondo che c’era, ma che non ho conosciuto. Questo perché sono nata in un’epoca relativamente recente. Ma ho avuto la fortuna di sentirmi raccontare di persona storie che risalgono ai primi anni del Novecento. 
Dai miei nonni, soprattutto, che hanno vissuto esperienze e vicende che ad oggi hanno dell’impossibile. Storie di fame, di prigionia, ma anche e soprattutto storie di coraggio ed entusiasmo. Amavo ascoltare quelle storie perché mi parlavano di cose e persone che ho conosciuto, perché mi svelavano ragioni e motivi della realtà che avevo sotto mano. Delineavano nella mia mente la giovinezza degli avi, la loro vita di campagna, le loro arti e i loro mestieri. Ed era una realtà così distante, ma allo stesso tempo così mia, che stavo morbosa a indagare ogni dettaglio, ogni minuzia, ogni aneddoto che potesse approfondire la mia conoscenza.
Quelle storie non le sento ormai più, con un velo di tristezza e malinconia sono rimaste sepolte tra le buone abitudini di quando c’erano i nonni…

Non pensavo di certo che il 2016 iniziasse ri-portandomi a questa emozionante scoperta del mondo che c’è stato. No, non ho scoperto niente di più sulla mia famiglia o sulle mie radici, ma ho avuto il piacere di ascoltare una storia delicata e sensibile, come se fosse stata tracciata con setole morbidissime e levigate dal tempo. La storia di Bruno Munari, vista dagli occhi del suo amico e collega Giancarlo Iliprandi...
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Questo perché alle 00.01 del primo giorno dell’anno mi ha raggiunto un pacco misterioso e anche piuttosto controverso – ma questa è un’altra storia – contenente l’originalissima biografia per immagini Note, di Giancarlo Iliprandi. Un desiderio espresso ed esaudito.


Quella stessa notte, tra le famose 00.01 e le due, mi sono addentrata tra le sue pagine, nella mordace curiosità di scoprire qualcosa di nuovo su quell'artista di cui avevo sentito tanto parlare e a cui ero approdata, ancora una volta, attraverso le fila sottili e robuste che legano gli artisti italiani che hanno avuto la loro massima espressione tra gli anni Cinquanta e Sessanta e tra i quali, per quanto mi riguarda, Bruno Munari è l’assoluto paradigma.

Quello che ci ho trovato, tra i tanti spunti per cui vi consiglio i leggerlo, è la storia di una bellissima e semplice amicizia tra artisti geniali nella Milano degli anni Sessanta. Probabilmente solo uno dei tanti percorsi tracciati dai ricordi di Giancarlo Iliprandi, ma egli non me ne voglia se per oggi sposterò – ancora una volta, lo so – l’attenzione sul bellissimo ritratto che mi ha regalato di Bruno Munari.

D’altronde, credo che mi comprenderà, dal momento che pure sua figlia Viviana si innamorò di Bruno “a prima vista, come tutti i bambini”. Okay, visto che non sono più una bambina, o meglio credo di non esserlo più per molti aspetti, la storia che Iliprandi mi ha raccontato ha in un certo senso dispiegato, ha reso palese a me stessa le ragioni di questa smisurata passione che mi lega a Munari. Leggendo le sue parole era come se nella mia mente si chiarificasse il garbuglio di sensazioni e impressioni che in questi anni ho raccolto su di lui e che non riuscivo a riordinare per trasformarli in lucida motivazione di tanto interesse.

Mi sembra di vederlo, seppure le immagini che ho di lui sono solo fotografie, nella sua casa-studio. La stessa in cui ha accolto Giancarlo Iliprandi quando era andato a chiedergli di poter esporre alcune delle sue opere in una delle letture sull'arte contemporanea in Italia che avrebbe dovuto tenere a Salisburgo. Bruno Munari non aveva monografie, non aveva agende né schedari: “segna brevi appunti su dei foglietti 10x10 che infila in tasca ripiegati” e “mi riempì di foto”, proprio per questo suo alternativo modo di documentare.


Lo immagino avvolto nella sua “cordialità contagiosa”, quella con cui affrontava ogni situazione. “Discuteva ogni obiezione tra il divertito e l’infastidito. […] I contrasti finivano con rallentare il lavoro, mentre lui tendeva a risolvere tutto seguendo un ritmo interiore”. D’altronde era stato in Giappone e da quel suo viaggio sembrava aver ereditato non solo i principi Wabi Sabi, ma pure quell’atteggiamento zen che sembra brillantemente permeare le teorie esposte nei suoi libri più “teorici” – Da cosa nasce cosa, Artista e designer.
“Bruno parla con i bonsai”, “colleziona oggetti piccolissimi, perché occupano poco spazio” e “viaggia con le sculture da viaggio”, elementi indispensabili, come se dovesse sempre, pur in punta di piedi, portarsi dietro qualcosa della sua stessa essenza.

Le sue doti principali? Iliprandi cerca di descriverle, e lo fa in uno stream of consciousness di arzigogolata spontaneità: salta da una parte all’altra, cercando di racchiudere dentro una grande rete, tutti gli sprizzi di una personalità così vasta. “La sua dote principale”: la flessibilità, il rigore, la spontaneità. “Trova su una bancarella un disco in dialetto comico milanese. Ripete le battute con quel suo accento un po’ veneto, ride tanto che gli vengono le lacrime agli occhi”, e poi “tutte le sere del ‘65 lo troviamo al Derby che canticchia ‘L’ombrello di mio fratello’” o una canzone di Tony Dallara con una strofa che termina “in fondo ad un bicchiere di gin”. “Bruno la canta spesso anche se non beve gin”. Tutto questo come se si facesse guidare dall’ondata di una sensazione crescente di vitalità ed energia, che gli sa sempre indicare, con un’estemporaneità determinata, ciò che è giusto fare. 
Addirittura si narra una cosa molto insolita, che se conoscessi Munari appena d’accenno, mi confonderebbe: “è salito sul Duomo a manifestare con altri europeisti. L’hanno arrestato”.

Fonte: munart.org

In effetti io me lo immagino così: composto e ordinato quanto basta da creare un metodo, quello del Codice Ovvio, ma sufficientemente audace per mettere tutto in discussione, per farsi sorprendere da ogni cosa. “Le mani, le forbici, i ritagli colorati che gli restavano appesi alla giacca, le poche righe su fogli di carta destinati a chissà quale proto”. “Non possiamo lasciarlo solo con una forchetta” – e chi è esperto comprenderà - perché tutto è materia buona per creare, per dare nuove forme, funzioni, valori, per vedere oltre il consueto.

L’ironia, insieme all’equilibrio zen, lo accompagnavano quando c’era qualcosa da discutere: “non gli piace di venire etichettato”, “anche Munari era intransigente: sotto il suo aspetto mite, non sopportava i mercanti d’arte, la pubblicità” e soprattutto “niente lo metteva in soggezione”.

Ma se proviamo a definirlo, a trovare un’espressione che sia degna della sua vitalità?
Iliprandi lo circoscrive con un’espressione che a me piace molto: “Bruno Munari è stato un indiscusso, impareggiabile modello di pensatore. Potremmo dire anche di progettista, pure di educatore, infine di tante altre cose. E forse non solo modello. Forse sarebbe più appropriato esempio. Di linearità, di chiarezza, di nonsochealtro. Perché riassumere la sua vitalità con espressioni consuete pare quasi riduttivo. Un modello e basta. Fuori dal tempo”.

Fuori dal tempo perché, a conoscerlo, si capiva subito che aveva una marcia in più. Come se fosse “tarato su un metronomo più stimolante, messo in movimento durante gli anni futuristi, chissà".

E se proviamo a dire quali sono state le sue opere più importanti?
Iliprandi dice era un “grande comunicatore”. E credo che questa espressione abbia molto valore se detta da un professionista della comunicazione come lui, da uno che ha fatto del dovere di comunicare il suo lavoro, il suo impegno, la sua passione. Ma “forse le sue cose più importanti sono quelle per i bambini, per i ragazzi. Era un formatore”, perché per essere dei buoni formatori bisogna innanzitutto saper comunicare, saper trovare una corsia preferenziale e brillante per arrivare prima al cuore e poi alle menti di chi si mette nelle tue mani per imparare.
E forse la caratteristica vitale che lo rendeva un formatore d’eccellenza era il fatto che mettesse “sullo stesso piano positivo e negativo. Il suo difetto principale: essere sempre positivo. Veramente positivo”.

Fonte: brunomunari.it
“Veramente positivo” da accettare qualsiasi espressione come forma d’arte, mi verrebbe da dire. “Veramente positivo” da intravedere in ogni scarabocchio tracciato, in ogni foglietto ripiegato, in ogni macchia di colore sgocciolata dai bambini che a partire dal 1977 – anno del primo laboratorio per bambini all'Accademia di Belle Arti di Brera – un’energia vitale origine di idee creatrici.

La cosa più importante che credo di aver imparato da Bruno Munari è a dare un preciso profilo al termine ‘creatività’: la capacità di saper accostare o leggere in modo diverso cose esistenti. Per lui ‘creatività’ non era mai ‘invenzione’ o ‘fantasia’. “Essere creativi non è esplorare un bizzarro ignoto territorio di caccia. Bensì, e con un maggiore raziocinio, ridurre il campo d’azione entro l’angolo del nostro sapere contingente”.
Insomma: saper guardare ciò che abbiamo sotto gli occhi con uno sguardo diverso e, soprattutto, da una nuova prospettiva, per saperlo trasformare, manipolare, ricreare, risignificare.

Ed è per questo che è stato bello trovare tra queste pagine bianche profumate di nuovo la ‘soluzione’ ai loro lavori, a quelli di Bruno Munari e dei suoi colleghi (Giancarlo Iliprandi, Max Huber, Achille Castiglioni, Albe Steiner e tutti gli altri): “una certa operosità è diventata creatività. Perché anche noi, lontani cugini del signor Da Vinci, necessitavamo di un passaporto. O di una patente o di un lasciapassare o di una bolla qualsiasi. Purché fosse chiaro che eravamo dei creativi, finalmente. E non, come per decenni si era supposto, dei pittori, degli scrittori, degli artisti qualsiasi ma, finalmente, dei creativi”.



E così è questo quello che resta, di questa incommensurabile produzione innovativa e originale, audace come solo audace può essere la passione rinascente di artisti, designer, architetti che hanno avuto la responsabilità di dare una chance a un’epoca nuova. Sperimentazioni libere e autonome, che trovano nella loro stessa encomiabile innovazione la linfa vitale per esistere anche fuori dagli ordini, dai generi, dai mercati, come il design di Enzo Mari che “ha sempre fatto quel che voleva, pur con quel carattere terribile che si ritrova”, come la tipografia e la grafica di Iliprandi, come la pedagogia bizzarra e libertaria di Munari.
Probabilmente per questo li ricorderemo, anche se magari loro l’avranno fatto perché “l’unica cosa che resta della vita di un uomo è quello che egli ha fatto per gli altri.” Bruno Munari diceva questo con molta semplicità, con leggerezza. Con quella voce da ragazzo che lascia perplessi molti accademici.

Una semplicità che mi sembra di ritrovare, soffusa e quasi timida in quella foto insolita e sgranata dal tempo,di Bruno Munari a Filicudi, nel suo museo delle ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari. La mia foto preferita, il mio paradigma descrittivo di quest’uomo.


Ma come molti dicono, ognuno conosce un Munari diverso, e sono grata a Iliprandi di avermi lasciato immergere nella sua calorosa e familiare atmosfera, soprattutto in quella del 1949, quando, all’isola d’Elba con Alberto (Munari) cercavate piriti all’interno di una cava abbandonata. “Bruno visto di spalle, vestito di bianco, all’imbocco della miniera dove eravamo andati a cercare piriti pareva indispensabile. Doveva entrare nel libro. Doveva entrare assolutamente”.
Invece siamo ancora là, nella cava rossa, carezzati dall’odore della macchia.

E forse, grazie a questa storia raccontata, pur senza quella foto indispensabile, in quella cava rossa mi sembra di esserci stata anche io, fosse solo per un minuto.

Foto tratte da Note, Giancarlo Iliprandi, Hoepli, 2015.