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giovedì 8 novembre 2018

SENSI di VIAGGIO XLVIII: il deserto di Rum

Ho sempre amato il deserto. Ti siedi su una duna di sabbia. Non vedi niente. Non senti niente. 
E tuttavia qualcosa brilla in silenzio... 
[Il piccolo principe]


Me ne andrò.
Dove andrai, senza sapere dove?
- Anche se non lo so, lasciami andare
me ne andrò con il vento e non importa lasciare tracce
me ne andrò di nuvola in nuvola anche se non piove
me ne andrò con le stelle anche se non brillano
me ne andrò scalzo e non solo per sfuggire le guerre, l’indifferenza, la fame
l’odio che si nasconde nelle vene, le minacce e le vendette che puntano alle spalle
io sono nomade, sono nato nella sabbia sotto il sole come gli animali
sono libero come il vento, come la carovane che rompono l’immensità, sono libero,
figlio delle terra e della sua grandezza
ho tanti fratelli che voglio conoscere e voglio abbracciare
e soprattutto quelli che lottano per la libertà 
dove andrai, senza sapere dove?
- Dove non importa, lasciami solo andare
e non voglio che mi mostri l’oriente o l’occidente
né il nord o il sud, lasciami solo andare a mostrare questo cuore libero
imprigionato dentro di me
per sfidare le barriere del colore e della religione
 












dove andrai se non sai come?
come non importa
perché ho nella fronte un sole
E nella voce un clamore
me ne andrò di palmo in palmo di abbraccio in abbraccio
perché appartengo a tutte le stirpi
e a tutte le credenze




me ne andrò anche se tu non vuoi per abbattere
le frontiere e per mischiare le razze
me ne andrò anche se tu non vuoi per costruire
a cielo aperto un luogo senza nome
dove gli uomini sotto il sole si fondono in abbracci e perdoni
perché tutti abbiamo lo stesso sangue e sotto il sole la stessa ombra.


Saleh Andalahi Hamudi

  




Wadi Rum

Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci.
E il deserto affinché possa ritrovare la sua anima.
(Proverbio Tuareg)



martedì 6 novembre 2018

SENSI di VIAGGIO XLVII: Petra, dall'alba al tramonto

All'alba, dopo forse 4 ore di sonno, siamo di nuovo a Petra. Pochi turisti ciondolando nel siq per raggiungere il tesoro. L'aria fresca del mattino è un pizzicotto sulla pelle, il vento fruscia leggero tra i capelli, unico rumore in quella città ancora incantata. Tra poche ore, migliaia di turisti si riverseranno qui con tutto il loro cicaleccio: ci godiamo quella calma preziosa, soddisfatti per aver accettato il trauma della sveglia.


Sono ancora incredula per la serata precedente, ma in cuor mio so che questo posto ci stupirà anche oggi.
Dovremmo incontrarci con Firas al tesoro, poi proseguiremo per il monastero che sta su un'altura a qualche chilometro di distanza. Mentre lo aspettiamo, un altro beduino ci si avvicina: quando gli diciamo che aspettiamo Firas esclama con sicurezza "è mio cugino, venite, andiamogli incontro".
Prendiamo Bounty, che era stato "preso in prestito" da questo cugino per la notte e ci avviamo verso sud. Firas ci viene incontro sorridente con due cammelli: li fa "sedere", in modo che possiamo salire sul loro dorso. Il cammello ha le gambe così lunghe e così sottili che per inginocchiarsi si lascia cadere sulle ginocchia improvvisamente. Lo stesso quando si rialza, con uno scatto improvviso prima in avanti e poi indietro, nell'alternanza delle sue zampe.


Trotterelliamo con un po' di sana spocchia su quell'animale così esotico e così mitico. Siamo in alto, mentre Firas li conduce con passo svelto camminando.
Percorriamo la via di Petra, il teatro romano a destra, le tombe reali sulla sinistra. Raggiungiamo il grande tempio e le altre rovine romane che giacciono in secoli di storia.


 É ora di cambiare animale, dobbiamo inerpicarci dentro un Wadi - valle - e il cammello non è abbastanza agile. Monica e Bounty, i due muli, sono abituati a portare fino a 400 chili, ma quando vedo quanto è irto, roccioso e pendente il sentiero mi sento male per loro. In più, io e Firas condividiamo il povero Bounty, che si trova così con almeno 150 chili sulle "spalle".
Sinceramente ho paura che il mulo scivoli - in alcuni parti il sentiero è esposto su un precipizio - ma Firas ride e mi rassicura dicendo che i muli sono gli animali più forti di sempre e che non sarò certo io dall'Italia a sfatare il mito.




Mentre saliamo a strattoni e mi reggo alle redini, mi guardo intorno e cerco di fare alcune foto. Siamo tra due muri di roccia, ogni tanto ci sono delle caverne. La gente ci fa capolino, dato che vive qua: è così magico percorrere quel sentiero e vedere le persone che si svegliano e cominciano le loro attività della giornata. Incontriamo soprattutto donne, pronte a sistemare la casa, adempiere alla faccende domestiche e preparare le bancarelle con la merce che cercheranno di vendere ai turisti. Saliamo, saliamo sempre di più: i gradini di roccia sembrano scivolosi e lisi dal passaggio quotidiano di così tante persone, ma i muli procedono sicuri. Non c'è ancora nessun turista qui, davvero possiamo dire di essere i primi della giornata.
Firas non ci dice niente, ma a un certo punto appare sulla sinistra il Monastero: è tanto bello quando il Tesoro, ma ha il fascino delle cose nascoste, segrete. Se ne sta lì, con una specie di piazza davanti, a dominare il Wadi, bastione incontestabile della bellezza di Petra.



Il sole comincia ad essere caldo. C'è una specie di ristorante, ci sediamo, prepariamo la shisha e facciamo colazione con un sandwich di falafel. La bandiera giordana sventola sicura nel vento e la foto del re sta appesa in una grotta: sorride e stupidamente mi viene da sorridergli di riflesso, beata in quel posto solitario e prezioso.


Ci prendiamo un po' di tempo per riposare, nessuno di noi vuole scendere da lì.
Quando decidiamo che è ora di andare, risaliamo in sella a Bounty e Monica: la discesa potrebbe sembrare più spaventosa, ma in realtà mi sono abituata a questa andatura apparentemente precaria.
I turisti cominciano a risalire il sentiero, stanchi. Sono pigramente grata a Firas per averci portati lì col mulo.
Visiteremo il tempio romano, la chiesa bizantina, il teatro romano; mi farò mettere il Kajal direttamente dai beduini, fumeremo un po' di shisha all'ombra di una tenda, guardando i turisti che cominciano ad ingorgare il sito. 



Non vogliamo salutarci, nemmeno se il Wadi Rum ci aspetta, nemmeno se Firas ci invita a tornare tutte le volte che vogliamo. C'è un vento feroce, che alza la sabbia e la getta negli occhi. Trotterelliamo sul mulo verso l'uscita attraverso una via secondaria e rialzata. Ammiro per l'ultima volta la bellezza di Petra coprendomi il viso con la Kefia. Firas mi chiede se va tutto bene: anche se sorrido, sono molto triste di lasciare quel posto. 
Le ultime 20 ore sono state le più assurde, intense, vivaci di tutta la mia permanenza di Giordania.


sabato 3 novembre 2018

SENSI di VIAGGIO XLVI: uscire da Petra, nel silenzio della notte


Scendiamo avvolti dal buio di quella serata magica. Firas e i suoi amici beduini fanno la strada mentre la nostra carovana turistica scende scrupolosa tra le rocce. Uno di loro apre la fila, tiene in mano il cellulare per fare luce con la torcia, dalle tasche della sua farua esce una cassa stereo che gracchia musica disco.
Potremmo pensare che rovini l'atmosfera, ma in realtà serve a darci quel po' di adrenalina necessaria a farci scendere tra quei passaggi di roccia.
Il secondo sta poco più avanti di me e di Firas, a un certo punto sentiamo un fruscio di foglie e non sappiamo come, ma lo vediamo sull'altra parete del piccolo canyon che stiamo scendendo.
Firas ride, capisce che sono shockata da quel balzo nel nulla notturno. "Monkey", scimmia, mi dice.
Quando raggiungiamo il tesoro ci guardiamo tra noi, consapevoli del privilegio di vederlo nella frescura della notte. É sorprendente pensare che sia lo stesso posto che di giorno è gremito di visitatori.
Percorriamo il siq per raggiungere la macchina con cui Faris ci porterà all'uscita. Trotterellando felici nel torpore delle nostre farue, la luna quasi piena a illuminare quel po' di strada deserta.
La "macchina" di Firas è un fuoristrada vecchio di trent'anni. Mi fa salire davanti e con un po' di malizia penso che sia un privilegio: il parabrezza non è più degno di questo nome. La brezza ce l' ho tutta in faccia, dato che è rotto per metà. Mentre Firas guida, mi sorride a 32 denti e mi dice "ultimo modello, fuoristrada con mezzo vetro per ammirare Petra più da vicino".
Percorriamo la strada, sobbalziamo. Gli chiedo di andare più a piano perché l'aria del deserto è davvero fastidiosa. Ma c'è un problema con ciò che rimane della friizione e ingranare le marce è ogni volta una sfida - oltre che un rumore assordante e una puzza di benzina bruciata.
A un certo punto la marcia non entra più, definitivamente più. La jeep comincia a sobbalzare, ad andare a strattoni, fino a spegnersi.
"Gasoline", mi dice. Non ci credo, non può essere finita la benzina. Penso che mi stia prendendo in giro ma capisco che non è così quando comincia a fare una serie di telefonate. Poi mi fa scendere e mi dice "andiamo incontro al mio amico, ci sta portando la benzina". Subito dopo dichiara che sapeva fin da subito di essere a secco ma che "nella loro cultura, i beduini non vogliono mai far vedere di avere un problema, almeno fino a quando non hanno una soluzione".
Lasciamo gli amici in macchina e iniziamo a camminare. Mi giro verso la jeep e l'ultima cosa che vedo spuntare nel buio della notte sono i piedi di uno degli amici di Firas appoggiati sul cruscotto attraverso il vetro.
Comodamente seduto sul sedile, si gode a gambe all'aria la sua sigaretta, facendo tesoro di quel vetro rotto che gli permette di distendersi così.



Io e Firas camminiamo almeno un km, è fresco ma non freddo. A un certo punto vediamo un pick-up scendere dal villaggio e avvicinarsi a noi. 
Prosegue senza caricarci, noi invertiamo la marcia e torniamo sui nostri passi. Quando arriviamo, troviamo uno degli amici di Firas che con una bottiglia fa il "pieno" alla jeep.


Si riparte, con lo stesso vento in faccia, su una strada sempre più dissestata. Quando arriviamo all'ingresso sappiamo di esserci guadagnati qualcosa. Salutiamo Firas, saremo di ritorno di lì a poche ore: vogliamo essere a Petra all'alba.
É quasi mezzanotte ma, una volta in albergo, è veramente difficile dormire.

giovedì 1 novembre 2018

SENSI DI VIAGGIO XLVI: una sera a Petra

Firas arriva a dorso di mulo, scuotendo il suo smartphone e sorridendomi. "Conosci questa ragazza?", mi chiede mostrando una mia foto.


Il nostro amico comune, che sta ad Amman, mi ha messo sotto la sua protezione. Mi abbraccia come se ci conoscessimo da sempre e mi dice che sono la benvenuta. 
Da quel momento la nostra visita a Petra di trasforma da super turistica a un'avventura in pieno stile beduino.
Mi porta sotto le tombe reali, dove c'è la tenda di sua cugina, una donna bellissima che vende artigianato.
Prepara la shisha e il tè, ci sediamo sulle rocce e guardiamo le frotte di turisti assolati da quel punto panoramico.
Mi sento subito a casa in compagnia di quella nuova famiglia beduina che sembra così onorata di conoscermi. In nessun posto, come in Giordania, mi sono resa conto di quanto siano preziosi i legami amicali, le connessioni, le conoscenze. Essere amica di amici è un lasciapassare incredibile. Ieri, mi ha permesso di vivere un'esperienza incredibile che probabilmente non è per tutti i turisti ;-)


Quando Firas valuta che si sia fumato abbastanza, prendiamo Monica e Bounty, i suoi due muli. Siamo diretti al punto panoramico che dà sul famigerato tesoro di Petra. Da lì, potremmo ammirare lo spettacolo di Petra by night, ma soprattutto i milioni di stelle, la brezza del deserto e una quiete irraggiungibile.
Il sole è già calato, subito è buio. Trotterello nel siq a dorso di Bounty, la stretta via tra le rocce spaccate dal vento sembra chiederci di assorbire quel poco di luce rossastra che rimane.
Poi ci arrampichiamo per una via impervia, i pochi turisti rimasti ci guardano stupiti, qualche beduino parla in arabo con Firas: capisco solo che lui garantisce per noi.
É buio, le luci dei cellulari a illuminare quelle rocce scivolose da scalare per raggiungere la cima. Firas sembra poter arrampicare a occhi chiusi, ma è premuroso e mentre regge la pila con una mano, con l'altra ci aiuta nei passaggi difficili.
Nel frattempo, raccoglie la legna per il fuoco.



Quando raggiungiamo il suo posto segreto, non abbiamo parole. Il tesoro si staglia lì sotto, pacifico ma determinato nel suo carico di storia. Sembra che riposi, dopo i 4000 turisti in media per giornata, tutti lì per contemplarlo.
Siamo su delle rocce altissime che si stagliano per chilometri, è impossibile vederne la fine. L'aria è fresca, Faris mi prende per mano e mi porta al limite del precipizio: "do you wanna fly? Jump. But I respect culture, women first" (vuoi volare? salta. Ma io rispetto le tradizioni: prima le donne). Scherza.
Ci sediamo su una roccia, 300 metri sotto i nostri piedi qualcuno comincia ad accendere le candele per lo spettacolo serale. Siamo avvolti in una "farua" - la tipica giacca beduina - e l'aria fresca ci sferza il viso. "Jack Sparrow" mi dice, e mi mette in testa la sua kefia, annodandola al modo beduino e allacciandomi gli estremi davanti alla faccia.
Così, con solo gli occhi a poter contemplare quella meraviglia del creato, li alziamo al cielo. Ci sono milioni di stelle, qualcuna cade sotto i nostri occhi, forse a lanciarci un messaggi.
Mi chiedo quanti desideri possano esprimere i beduini ogni giorno e Firas mi risponde "beduin never gives up" (il beduino non si arrende).
Ci sdraiamo così, su quella roccia levigata, lasciando i piedi penzoloni nel vuoto. 
Non ho idea di quanto tempo sia passato, in quella quiete infinita che ti parla, che ti sussurra nelle orecchie con il vento e che ti punzecchia la pelle con il frescore della notte, ma sei lì e guardi le stelle a cercare qualcuno o qualcosa che non sai.




La cena è quasi pronta, gli amici beduini di Firas ci chiamano: hanno fatto un fuoco e cotto polpette e patate in un cartoccio di stagnola. Fumano la shisha mentre ultimando la cottura. Poi tutti intorno a mangiare dallo stesso piatto pescando quelle polpette speziate con il pane.
É tempo di ballare, i 4 Jack Sparrow si alzano in piedi e iniziano a ciondolare. É il loro modo di ballare la Dabka, la danza tradizionale Giordana. I loro capelli lunghi si muovono sotto le kefie, gli occhi luccicano nell'assenza di luce e il kayal dei loro occhi sembra ancora più forte.
Balliamo, e mi insegnano quei passi cadenzati e pesanti, come a muoversi in una danza senza tempo. Si balla intorno al fuoco fino a quando dal tesoro di Petra cominciano a salire i flauti dello spettacolo serale. Ricomponiamo la quiete, ascoltiamo il liuto che vibra fin lassù.
























Mi sento così, forse felice, forse estasiata, forse non c'è il nome per questa emozione. Sicuramente, avvolta nella mia farua, mi godo quel torpore mentre il cielo mi schiaccia negli occhi milioni di stelle.
Come siamo scesi da lì, come siamo tornati all'uscita, e soprattutto le avventure mattutine di oggi, sono definitivamente un'altra (bellissima) storia.
Ma quella di ieri è stata così speciale, così emozionante, che ancora ho nel cuore un guizzo che sta per scomparire, ma che cerco di trattenere.
A domani, dunque, per il resto del viaggio.

venerdì 26 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLV: storie sudanesi, pt.2

Quando arriva all'aeroporto di Amman, Mohammed indossa solo una maglietta: è febbraio, nevica.
Tra le tante cose che non si aspettava da questo paese, ricorda la neve come quella più assurda di 5 anni in Giordania.
Scende dalla scaletta dell'aereo e respira a pieni polmoni quella libertà e quella sicurezza finalmente raggiunta.
Sale su un taxi e si fa portare in centro città. Il taxista vuole fare conversazione e capendo che è nuovo e disorientato, lo lascia nei pressi di un bar sudanese, in downtown.
"Noi, in quanto comunità sudanese, ci aiutiamo gli uni gli altri". 
É sicuro che lì troverà qualcuno cui affidarsi. "Ehi amico, come stai? Sei appena arrivato? Darfur? Tranquillo amico, vieni a casa mia".
Ali, il suo primo "fratello" sudanese in Giordania, lo porta a casa sua. "Wallahi*, cinque coperte mi ha portato", dice a mo' di battuta ricordando il freddo di quel giorno.
Così, dopo le procedure del caso (UNHCR, registrazione, commissione) comincia a lavorare.
In questi 5 anni a Mohammed ne sono successe veramente di tutte: mentre mi racconta la sua storia con fare concitato non faccio fatica a credere a quello che mi dice. É un ragazzo nerboruto di 25 anni, ha un fare animoso e agitato. É pieno di energie, di forza, di vita. Mentre parla, sembra sempre che le vene del collo siano sul punto di esplodere. Mentre facciamo l'intervista un suo inquilino attraversa la stanza e mi dice "ehi Serena, hai mai incontrato un pazzo del genere in Europa?".
Mh, in effetti no.
Ha una vita da Rambo: ha rischiato di essere deportato in Sudan 3 volte e 3 volte è scappato. Due volte per essere stato "beccato" a lavorare illegalmente, una volta durante la deportazione del 2015.
Mentre parla, si fa beffe dei poliziotti con cui l'ha fatta franca. In effetti, a sentire con quali assurdi stratagemmi è scappato, anche io ho pensato "che poliziotto scemo".
"Solo, usa la tua mente. Non c'è tempo per gli altri, se tua madre è con te e devi metterti in salvo, lascia tua madre e scappa". Mi chiedo cosa abbia passato in Darfur per acquisire questa filosofia di vita, ma del Darfur non vuole parlare, quindi proseguiamo.
Le sue disavventure sono così concatenate che a volte gli sono state d'aiuto le une con le altre.
Ha rischiato di perdere una mano mentre lavorava in una cava, utilizzando un macchinario per tagliare i sassi. I pantaloni si sono incastrati negli ingranaggi e stavano per stritolarlo. Quando il collo era così vicino alla sega, ha avuto l'istinto di spingersi indietro con le mani. É salvo, per questo, ma se l'è vista brutta. 
La mano destra è piena di cicatrici, ma in fondo la muove bene. Dice di essere stato portato subito all'ospedale: i medici parlavano solo inglese e a quel tempo lui non capiva che l'arabo. Una cosa era chiara, se qualcuno non pagava l'operazione, avrebbero amputato. La rete di solidarietà si mobilità, i suoi amici fanno pressione sul capo e lo implorano di pagare. Mohammed è disposto a rinunciare ai 2 mesi di paga arretrata e a denunciare l'accaduto. Chiede solo di essere curato. "Se ti facessi vedere le foto, Wallahi, ma sei una ragazza!". Ride, e scherza sull'accaduto.
Era insieme ai quasi 800 cittadini sudanesi che protestavano fuori da UNHCR in quel capodanno gelato del 2015. Quando la polizia viene a sgomberare - che brividi "politici", questa parola - lui indossa ancora un cumulo di bende. Ha la prontezza di nascondere il suo passaporto lì sotto: mentre i suoi compagni vengono caricati sui bus, con la promessa "you are going to Canada", lui viene fatto aspettare per essere identificato. Nella confusione, nessuno si cura di lui, sale su un'ambulanza, si fa piccolo piccolo e rimane lì, nascosto tra le attrezzature mediche, finché il mezzo non parte, incurante di quella presenza non autorizzata. Dall'ospedale in cui approda, ai margini di Amman, scappa e torna a casa. 
A farsi beffe dei poliziotti, mentre il TG trasmette le immagini di una deportazione tanto controversa quanto ancora irrisolta, che ha visto oltre 700 sudanesi rimpatriati nella terra inospitale da cui erano fuggiti. In barba alla convenzione di Ginevra - che la Giordania, scaltramente, non ha mai ratificato - ai protocolli d'intesa e al sacro santo diritto umani al non refoulement.
Alcuni di loro, mi dice, ora sono in Europa. Altri, sono morti in mezzo al mare. Questa è la meno triste delle ipotesi, perché almeno non sono stati uccisi dalle milizie connazionali che continuano la pulizia etnica del Darfur.
In questi anni Mohammed ha rotto anche una gamba, ha cambiato 32 lavori e avuto mooolto ragazze. Questo, a detta sua. 
Ora si bea di quegli 80 jd che riceve dalle Nazioni Unite per via dell'incidente e vive così, arrotondando con qualche giornata lavorativa al mese.
Nel frattempo, studia inglese e un corso di Social Worker online. Soprattutto, balla come non ci fosse un domani, balla in continuazione, balla intorno al mondo.
Per la sua spavalderia, per il suo cinismo, per la sua apparente freddezza e per il suo forzato distacco dalle cose, per il suo fare un po' cialtrone e per il fatto che non sta mai zitto, si potrebbe odiarlo. 
Ma tutti lo adorano, anche io, anche quando, ogni volta che mi invitano a un party, mi trascina verso il centro della sala e mi obbliga a ballare con lui: "vedi che sono guarito bene?".


* Wallahi: tipica esclamazione araba che significa più o meno "giuro su Allah"

mercoledì 24 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLIV: la Terra Promessa

Possiamo anche professarci atei, ma quando siamo in Medio Oriente è impossibile non subire il fascino del religioso che pervade ogni luogo. Sin dalle mie prime visite "turistiche" in questa nazione, ho realizzato quanta storia sia stata tracciata su questa terra: ma mi sono sentita veramente coinvolta quando ho iniziato a sentir parlare dei Romani e, soprattutto, di storie Cristiane. 
Così, tutte le ore di catechismo e di religione sono tornate alla mia mente e ho cominciato a ricostruire i tasselli di quelle storie bibliche. Mosè, Giovanni Battista e tutti gli altri personaggi che abbiamo sentito citare almeno una volta nella Bibbia mi sono sembrati subito più reali, più veri, più storici, realizzando che - secondo la tradizione! - avrebbero compiuto le loro gesta proprio qua.



Dopo la visita a Madaba abbiamo deciso di portarci fuori città, verso il Monte Nebo: avevamo bisogno di un po' di natura, di un po' di pace dalla città.



Soprattutto, eravamo tutte desiderose di vedere una vista mirabile ma, forse come punizione per una fede troppo labile, il sole era così forte e l'aria così carica di sabbia del deserto, che la Terra promessa abbiamo solo potuto immaginarla.
Mentre ci avviciniamo al monte, la pianura lascia spazio alle colline, la strada le avvolge e dalla carreggiata su cui ci troviamo cominciamo ad ammirare la vallata sottostante e quei cumuli di sabbia che scendono sempre più in basso, sempre più verso il fondo. L'altitudine comincia a calare finchè raggiungerà la depressione del Mar Morto. 
Paghiamo il biglietto ed entriamo al memoriale: anche qui, frotte di turisti. Una chiesa poggia sulla cima del colle, un vialetto alberato vi ci conduce. Ma nessuno vuole restare chiuso tra quelle file di alberi, pur tanto rigogliosi in una terra così arida: i turisti si abbarbicano sui lati del colle, a cercare la vista. 
Raggiungiamo il belvedere: da qui, l'allora 120enne Mosè, ammirò la Terra promessa dopo l'Esodo, senza poterla raggiungere:

"tu morirai sul monte sul quale stai per salire e sarai riunito ai tuoi antenati" [Deuteronomio]


Immaginiamo la Palestina, la Terra Santa, Israele al di là di quella cortina di polvere. Il monumento a Mosè che solleva il serpente dal deserto sembra fare da monito, controllando dall'alto quelle terre che oggi si contendono uno spazio troppo stretto e tanto carico di religioni. Mi piace pensare che voglia mandare un messaggio di speranza, tolleranza, condivisione a quella terra così dilaniata da un conflitto che dura da settant'anni.


Ma il sole comincia a calare e a cadere giù. E' ora di tornare ad Amman.









martedì 23 ottobre 2018

SENSI di VIAGGI XLIII: Madaba e i mosaici bizantini

Vaghiamo per Madaba senza pretese, in un venerdì tranquillo e assolato di inizio autunno. La città è deserta, come solo può essere di venerdì in un paese del Medio Oriente. La gente ancora dorme oppure si aggira rilassata per la città. Non c'è traffico, solo frotte di turisti come noi che vogliono sfruttare il weekend.


Siamo qui per vedere i famosi mosaici bizantini e le chiese della città: un terzo della popolazione è cristiana e i due edifici più importanti sono la Chiesa di San Giorgio e il Santuario della Decapitazione di Giovanni Battista. Sono edifici abbastanza nuovi, il primo ortodosso, il secondo cattolico, costruiti tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo.
Ci stupiamo di vedere così tanti pellegrini, così tanti preti e suore. In un certo senso, ci sentiamo un po' a casa, in questa cittadina a mezz'ora dalla capitale che sembra la riduzione in scala di uno dei nostri centri storici.
Da qui sono passati in molti: una delle 12 tribù di Israele, gli Ammoniti, i Nabatei, i Romani e i Bizantini. Abbandonata per più di 1000 anni dopo un violento terremoto, si è ripopolata poco più di cento anni fa grazie a una comunità di duemila cristiani fuggiti da Karak dopo uno scontro coi musulmani locali.
Nella chiesa di San Giorgio c'è uno dei mosaici più importanti del mondo: la più antica cartina della Palestina - e della Terra Santa - scoperta un po' per caso mentre si scavava tra i resti di una chiesa bizantina per erigere l'attuale chiesa cristiana. Entriamo con religioso silenzio, la chiesa è modesta: cerchiamo il famoso mosaico fino a trovarlo sotto i nostri piedi. E' rimasto ben poco, ma si intuisce la magnificenza di quell'opera originariamente lunga circa 20 metri e composta da 2 milioni di tessere.
Tutta la geografia del Medio Oriente è sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi: le didascalie sono in greco, ma la riproduzione all'ingresso ci ha permesso di orientarci e riconosciamo le città principali: prima fra tutte, Gerusalemme.


 
Proseguiamo un po' a zonzo, tra i negozietti colorati della via principale: i venditori ci guardano, desiderosi di una nostra visita nelle loro botteghe. Scopriremo che sono gli unici personaggi attivi della giornata, considerando che vagheremo per più di un'ora prima di trovare un posto aperto dove mangiare. 
Arriviamo a uno dei due parchi archeologici della città: ci sono un uomo e un bambino ad aspettarci. 


Ci chiedono se abbiamo il Jordan Pass, senza intenzioni di controllarlo. Il bambino prende l'iniziativa e ci porta a fare il tour guidato dell'area, mentre quello che presumiamo essere il padre, giace inerte sulla sedia. E' un parco veramente piccolo, ma ci sono dei mosaici bellissimi su quello che doveva essere il pavimento di una chiesa. Il bambino ha 12 anni, (non) sa una parola di inglese: "come" - "venite". Va velocissimo, ma si ferma a ogni cartello esplicativo per farcelo leggere, certo del nostro interesse. 



Appena togliamo gli occhi dal pannello, inizia a indicare qualche animale tra i mosaici e dice il nome in arabo. Vuole fare una foto, orgoglioso delle sue competenze turistiche; soprattutto, ambisce a quei due dinari che ci ha fatto risparmiare per non averci stampato il biglietto.


Ma il vero gioiello della città è il Santuario di cui sopra - in cui troviamo il Gesù più biondo di tutti i tempi.



Saliamo sul campanile, 100 gradini tra le corde delle campane che oscillano al nostro passaggio. La vista è magnifica, da lì: si vedono i confini della città, l'estendersi infinito del deserto. Non smetterò mai di meravigliarmi di questa assenza di limiti, di spazi incalcolabili, di questa assenza di barriere naturali. Forse, dell'assenza delle Alpi, che anche qui viziano la mia percezione dello spazio.




Respiro a pieni polmoni, l'aria del deserto e il calore di un ottobre ancora gentile. Il muezzin canta il richiamo alla preghiera dalla moschea principale della città. Questo mix di religioni ci stupisce e ci rilassa. Forse, siamo contagiate dalla spiritualità del luogo.
E' così che decidiamo di proseguire e di portarci fuori città, per vedere la Terra Promessa: prendiamo un Taxi per il Monte Nebo, nel nostro risoluto tributo a Mosè.
Ma questa, è la storia di domani ;-)