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giovedì 8 novembre 2018

SENSI di VIAGGIO XLVIII: il deserto di Rum

Ho sempre amato il deserto. Ti siedi su una duna di sabbia. Non vedi niente. Non senti niente. 
E tuttavia qualcosa brilla in silenzio... 
[Il piccolo principe]


Me ne andrò.
Dove andrai, senza sapere dove?
- Anche se non lo so, lasciami andare
me ne andrò con il vento e non importa lasciare tracce
me ne andrò di nuvola in nuvola anche se non piove
me ne andrò con le stelle anche se non brillano
me ne andrò scalzo e non solo per sfuggire le guerre, l’indifferenza, la fame
l’odio che si nasconde nelle vene, le minacce e le vendette che puntano alle spalle
io sono nomade, sono nato nella sabbia sotto il sole come gli animali
sono libero come il vento, come la carovane che rompono l’immensità, sono libero,
figlio delle terra e della sua grandezza
ho tanti fratelli che voglio conoscere e voglio abbracciare
e soprattutto quelli che lottano per la libertà 
dove andrai, senza sapere dove?
- Dove non importa, lasciami solo andare
e non voglio che mi mostri l’oriente o l’occidente
né il nord o il sud, lasciami solo andare a mostrare questo cuore libero
imprigionato dentro di me
per sfidare le barriere del colore e della religione
 












dove andrai se non sai come?
come non importa
perché ho nella fronte un sole
E nella voce un clamore
me ne andrò di palmo in palmo di abbraccio in abbraccio
perché appartengo a tutte le stirpi
e a tutte le credenze




me ne andrò anche se tu non vuoi per abbattere
le frontiere e per mischiare le razze
me ne andrò anche se tu non vuoi per costruire
a cielo aperto un luogo senza nome
dove gli uomini sotto il sole si fondono in abbracci e perdoni
perché tutti abbiamo lo stesso sangue e sotto il sole la stessa ombra.


Saleh Andalahi Hamudi

  




Wadi Rum

Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci.
E il deserto affinché possa ritrovare la sua anima.
(Proverbio Tuareg)



giovedì 1 novembre 2018

SENSI DI VIAGGIO XLVI: una sera a Petra

Firas arriva a dorso di mulo, scuotendo il suo smartphone e sorridendomi. "Conosci questa ragazza?", mi chiede mostrando una mia foto.


Il nostro amico comune, che sta ad Amman, mi ha messo sotto la sua protezione. Mi abbraccia come se ci conoscessimo da sempre e mi dice che sono la benvenuta. 
Da quel momento la nostra visita a Petra di trasforma da super turistica a un'avventura in pieno stile beduino.
Mi porta sotto le tombe reali, dove c'è la tenda di sua cugina, una donna bellissima che vende artigianato.
Prepara la shisha e il tè, ci sediamo sulle rocce e guardiamo le frotte di turisti assolati da quel punto panoramico.
Mi sento subito a casa in compagnia di quella nuova famiglia beduina che sembra così onorata di conoscermi. In nessun posto, come in Giordania, mi sono resa conto di quanto siano preziosi i legami amicali, le connessioni, le conoscenze. Essere amica di amici è un lasciapassare incredibile. Ieri, mi ha permesso di vivere un'esperienza incredibile che probabilmente non è per tutti i turisti ;-)


Quando Firas valuta che si sia fumato abbastanza, prendiamo Monica e Bounty, i suoi due muli. Siamo diretti al punto panoramico che dà sul famigerato tesoro di Petra. Da lì, potremmo ammirare lo spettacolo di Petra by night, ma soprattutto i milioni di stelle, la brezza del deserto e una quiete irraggiungibile.
Il sole è già calato, subito è buio. Trotterello nel siq a dorso di Bounty, la stretta via tra le rocce spaccate dal vento sembra chiederci di assorbire quel poco di luce rossastra che rimane.
Poi ci arrampichiamo per una via impervia, i pochi turisti rimasti ci guardano stupiti, qualche beduino parla in arabo con Firas: capisco solo che lui garantisce per noi.
É buio, le luci dei cellulari a illuminare quelle rocce scivolose da scalare per raggiungere la cima. Firas sembra poter arrampicare a occhi chiusi, ma è premuroso e mentre regge la pila con una mano, con l'altra ci aiuta nei passaggi difficili.
Nel frattempo, raccoglie la legna per il fuoco.



Quando raggiungiamo il suo posto segreto, non abbiamo parole. Il tesoro si staglia lì sotto, pacifico ma determinato nel suo carico di storia. Sembra che riposi, dopo i 4000 turisti in media per giornata, tutti lì per contemplarlo.
Siamo su delle rocce altissime che si stagliano per chilometri, è impossibile vederne la fine. L'aria è fresca, Faris mi prende per mano e mi porta al limite del precipizio: "do you wanna fly? Jump. But I respect culture, women first" (vuoi volare? salta. Ma io rispetto le tradizioni: prima le donne). Scherza.
Ci sediamo su una roccia, 300 metri sotto i nostri piedi qualcuno comincia ad accendere le candele per lo spettacolo serale. Siamo avvolti in una "farua" - la tipica giacca beduina - e l'aria fresca ci sferza il viso. "Jack Sparrow" mi dice, e mi mette in testa la sua kefia, annodandola al modo beduino e allacciandomi gli estremi davanti alla faccia.
Così, con solo gli occhi a poter contemplare quella meraviglia del creato, li alziamo al cielo. Ci sono milioni di stelle, qualcuna cade sotto i nostri occhi, forse a lanciarci un messaggi.
Mi chiedo quanti desideri possano esprimere i beduini ogni giorno e Firas mi risponde "beduin never gives up" (il beduino non si arrende).
Ci sdraiamo così, su quella roccia levigata, lasciando i piedi penzoloni nel vuoto. 
Non ho idea di quanto tempo sia passato, in quella quiete infinita che ti parla, che ti sussurra nelle orecchie con il vento e che ti punzecchia la pelle con il frescore della notte, ma sei lì e guardi le stelle a cercare qualcuno o qualcosa che non sai.




La cena è quasi pronta, gli amici beduini di Firas ci chiamano: hanno fatto un fuoco e cotto polpette e patate in un cartoccio di stagnola. Fumano la shisha mentre ultimando la cottura. Poi tutti intorno a mangiare dallo stesso piatto pescando quelle polpette speziate con il pane.
É tempo di ballare, i 4 Jack Sparrow si alzano in piedi e iniziano a ciondolare. É il loro modo di ballare la Dabka, la danza tradizionale Giordana. I loro capelli lunghi si muovono sotto le kefie, gli occhi luccicano nell'assenza di luce e il kayal dei loro occhi sembra ancora più forte.
Balliamo, e mi insegnano quei passi cadenzati e pesanti, come a muoversi in una danza senza tempo. Si balla intorno al fuoco fino a quando dal tesoro di Petra cominciano a salire i flauti dello spettacolo serale. Ricomponiamo la quiete, ascoltiamo il liuto che vibra fin lassù.
























Mi sento così, forse felice, forse estasiata, forse non c'è il nome per questa emozione. Sicuramente, avvolta nella mia farua, mi godo quel torpore mentre il cielo mi schiaccia negli occhi milioni di stelle.
Come siamo scesi da lì, come siamo tornati all'uscita, e soprattutto le avventure mattutine di oggi, sono definitivamente un'altra (bellissima) storia.
Ma quella di ieri è stata così speciale, così emozionante, che ancora ho nel cuore un guizzo che sta per scomparire, ma che cerco di trattenere.
A domani, dunque, per il resto del viaggio.

martedì 23 ottobre 2018

SENSI di VIAGGI XLIII: Madaba e i mosaici bizantini

Vaghiamo per Madaba senza pretese, in un venerdì tranquillo e assolato di inizio autunno. La città è deserta, come solo può essere di venerdì in un paese del Medio Oriente. La gente ancora dorme oppure si aggira rilassata per la città. Non c'è traffico, solo frotte di turisti come noi che vogliono sfruttare il weekend.


Siamo qui per vedere i famosi mosaici bizantini e le chiese della città: un terzo della popolazione è cristiana e i due edifici più importanti sono la Chiesa di San Giorgio e il Santuario della Decapitazione di Giovanni Battista. Sono edifici abbastanza nuovi, il primo ortodosso, il secondo cattolico, costruiti tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo.
Ci stupiamo di vedere così tanti pellegrini, così tanti preti e suore. In un certo senso, ci sentiamo un po' a casa, in questa cittadina a mezz'ora dalla capitale che sembra la riduzione in scala di uno dei nostri centri storici.
Da qui sono passati in molti: una delle 12 tribù di Israele, gli Ammoniti, i Nabatei, i Romani e i Bizantini. Abbandonata per più di 1000 anni dopo un violento terremoto, si è ripopolata poco più di cento anni fa grazie a una comunità di duemila cristiani fuggiti da Karak dopo uno scontro coi musulmani locali.
Nella chiesa di San Giorgio c'è uno dei mosaici più importanti del mondo: la più antica cartina della Palestina - e della Terra Santa - scoperta un po' per caso mentre si scavava tra i resti di una chiesa bizantina per erigere l'attuale chiesa cristiana. Entriamo con religioso silenzio, la chiesa è modesta: cerchiamo il famoso mosaico fino a trovarlo sotto i nostri piedi. E' rimasto ben poco, ma si intuisce la magnificenza di quell'opera originariamente lunga circa 20 metri e composta da 2 milioni di tessere.
Tutta la geografia del Medio Oriente è sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi: le didascalie sono in greco, ma la riproduzione all'ingresso ci ha permesso di orientarci e riconosciamo le città principali: prima fra tutte, Gerusalemme.


 
Proseguiamo un po' a zonzo, tra i negozietti colorati della via principale: i venditori ci guardano, desiderosi di una nostra visita nelle loro botteghe. Scopriremo che sono gli unici personaggi attivi della giornata, considerando che vagheremo per più di un'ora prima di trovare un posto aperto dove mangiare. 
Arriviamo a uno dei due parchi archeologici della città: ci sono un uomo e un bambino ad aspettarci. 


Ci chiedono se abbiamo il Jordan Pass, senza intenzioni di controllarlo. Il bambino prende l'iniziativa e ci porta a fare il tour guidato dell'area, mentre quello che presumiamo essere il padre, giace inerte sulla sedia. E' un parco veramente piccolo, ma ci sono dei mosaici bellissimi su quello che doveva essere il pavimento di una chiesa. Il bambino ha 12 anni, (non) sa una parola di inglese: "come" - "venite". Va velocissimo, ma si ferma a ogni cartello esplicativo per farcelo leggere, certo del nostro interesse. 



Appena togliamo gli occhi dal pannello, inizia a indicare qualche animale tra i mosaici e dice il nome in arabo. Vuole fare una foto, orgoglioso delle sue competenze turistiche; soprattutto, ambisce a quei due dinari che ci ha fatto risparmiare per non averci stampato il biglietto.


Ma il vero gioiello della città è il Santuario di cui sopra - in cui troviamo il Gesù più biondo di tutti i tempi.



Saliamo sul campanile, 100 gradini tra le corde delle campane che oscillano al nostro passaggio. La vista è magnifica, da lì: si vedono i confini della città, l'estendersi infinito del deserto. Non smetterò mai di meravigliarmi di questa assenza di limiti, di spazi incalcolabili, di questa assenza di barriere naturali. Forse, dell'assenza delle Alpi, che anche qui viziano la mia percezione dello spazio.




Respiro a pieni polmoni, l'aria del deserto e il calore di un ottobre ancora gentile. Il muezzin canta il richiamo alla preghiera dalla moschea principale della città. Questo mix di religioni ci stupisce e ci rilassa. Forse, siamo contagiate dalla spiritualità del luogo.
E' così che decidiamo di proseguire e di portarci fuori città, per vedere la Terra Promessa: prendiamo un Taxi per il Monte Nebo, nel nostro risoluto tributo a Mosè.
Ma questa, è la storia di domani ;-)

mercoledì 17 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLII: storie sudanesi


Anche per Aziz è arrivato il giorno del commiato, della partenza, del salvataggio. La sua famiglia ha deciso che non c'è più tempo per metterlo in salvo, raggiunta quell'età pericolosa in cui sei giovane e forte e diventi bersaglio prediletto per le milizie del governo.
I demoni a cavallo, così li chiamano in Darfur, uccidono chiunque possa unirsi ai "ribelli". Ovviamente, non c'è modo di convincerli che loro sono solo una famiglia come tante, dedits all'agricoltura e al commercio su piccola scala.
Aziz parte, con il cuore in gola e con l'unica speranza di rivederli ancora. Con l'unico desiderio che un giorno possa riabbracciare mamma, papà e le sue tre sorelle. Non importa quanto si debba aspettare, l'importante è saperli vivi.
Ad oggi, sono passati dodici anni. Aziz li conta, dal 2006 ad oggi, sulle dita delle mani. Sono troppi, eppure non ha perso la speranza. Per anni non ha avuto loro notizie. Solo quando ha lasciato il Sudan per venire in Giordania, con molti dubbi e con l'unico desiderio di tornare in Darfur anche solo per qualche ora, un lontano cugino lo ha sconsigliato. "La situazione peggiora", dice. Peggiora, peggiorare rispetto a cosa? 
Aziz ha vissuto per otto anni nella periferia di Khartoum. É arrivato nella capitale vagando come un pazzo, senza contatti o persone fidate.
Qualcosa lo ha spinto a rifugiarsi in campagna, ai lati della città.
 Un giorno si sveglia e c'è un uomo che lo chiama, incuriosito da quella presenza ai margini del suo podere. É un contadino, sembra "innocuo", ma Aziz non si fida. Sa bene che il governo ha messo spie in ogni dove per trovare i Darfuriani e continuare il massacro.
Resta sul vago, ma il suo accento è chiaro e teme il peggio. Ma la fortuna vuole che ha incontrato un uomo mite e di cuore: lo porta nella sua fattoria, gli dà da mangiare, gli permette di dormire in un posto coperto.
Aziz è un "omone": fatico a immaginarlo timoroso, spaurito, spaventato. Eppure non ha problemi ad ammettere che per giorni è morto dalla paura, aspettando qualche "ufficiale" del governo che lo uccidesse lì, in quella fattoria ai margini della capitale.
Ma i giorni passano e nessuno arriva. Il buon uomo comincia a sembrargli fidato. Aziz non ha piani, non ha un posto alternativo dove andare nè un lavoro da cui ricominciare.
Così accetta di rimanere e di aiutare quel sudanese "puro", senza geni darfuriani o cristiani, a portare avanti la sua fattoria.
In quegli otto anni imparerà un mestiere, si occuperà delle bestie, della mungitura, del raccolto. Ogni azione gli ricorda i bei tempi in cui, col padre, curava la campagna e poi tornava a casa e trovava la madre intenta a cucinare i prodotti del loro raccolto. Il Darfur era una terra rigogliosa, ricca di acqua e di risorse. La maggior parte della popolazione era ricca rispetto alla media sudanese, ognuno aveva una fattoria, del bestiame, ognuno era impiegato nel commercio su piccola scala. Una terra da depredare, almeno dal colpo di stato del 1989.
In quegli anni Aziz si impegna soprattutto in una missione: dimenticare le sue origini. Ogni giorno pratica il dialetto locale, nella speranza di perdere il suo accento. Ogni giorno impara usi e costumi del posto, cercando di nascondere le sue origini.
Nel frattempo, ha messo via un po' di soldi e decide di iscriversi all'università. Continuerà a lavorare nella fattoria, facendo da "pendolare" tra la campagna e la città.
Il primo giorno di università, un uomo gli si avvicina e gli chiede "ehi amico, da dove vieni?". Aziz ha un tremito. "Da Khartoum". "Da Khartoum? Non sembri di qui! Non assomigli alla gente di Khartoum". "Ma sì, sono di Khartoum, è che vengo dalla campagna". "Ah, dalla campagna, ecco il perché di questo insolito accento". Aziz è conscio che quella possa essere una spia. Sta per mostrargli il passaporto, con il suo nuovo "National number". Ma poi lascia correre, cerca di sembrare disinvolto.
Aziz si è laureato in Business and Administration. Poi è venuto in Giordania, perché la cosa più importante per lui è "connettere le persone, continuare ad avere speranza, dare un senso alla propria vita anche fuori dal Sudan". 
Oggi lavora in una NGO che si occupa di rifugiati. Qualche giorno fa è riuscito a recuperare il numero della sua famiglia, grazie all'incredibile solidarietà africana. La sua famiglia ora vive in un campo profughi in Sudan. Ha parlato con sua madre dopo dodici anni. Mi chiedo come faccia ad essere così forte, così positivo, così grato. Mi chiedo come faccia ad anteporre ancora la speranza alla malinconia, alle preoccupazioni e al dolore. 
Quando arriva a casa mia è voglioso di parlare, è eccitato dall'idea di raccontarmi la sua storia.
Quando finisce di parlare, mi abbraccia e mi dice "I am sorry, this is too much for a girl".
For a girl. 
Attonita, resto lì immobile a cercare di immaginare la sua vita. Nel frattempo, Aziz prepara un tè, in un certo qual modo, mi consola.
Poi sdrammatizza: "sono vivo".

lunedì 15 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XL: un bagno nel mar Morto, al tramonto

Immaginate di lasciarvi trasportare dall'acqua, mentre fate 'il morto' in una qualche location marittima amena, a poche bracciate dalla spiaggia. Il sole che batte gentile e i gabbiani che stridono.
Immaginate di chiudere gli occhi e di non dovervi preoccupare di nulla, perché siete come in un sogno e non c'è nulla da temere: non ci sono onde, nè vento, nè pesci nè meduse gelatinose.
E tu galleggi, e galleggi, e galleggi.
Ecco, fatta eccezione per i gabbiani e con le dovute proporzioni su quell'"ameno", il mio primo bagno nel Mar Morto è stato così..
Mi avevano detto che l'acqua mi avrebbe sollevata immediatamente, ma in cuor mio non ci credevo e volevo verificare di persona. Non riuscivo proprio a immaginare questa cosa, questa assenza di gravità capace di rendermi immediatamente leggera.
Dopo l'escursione nel Wadi, ci avviciniamo al Mar Morto. Dato che siamo mooolto "easy", niente resort o alberghi di lusso: fermiamo la macchina e cominciamo a scendere una scarpata. La polvere si alza sotto i nostri piedi, si scivola, dovremmo stare attenti. Eppure siamo tutti incantati  da quella pace, da quell'assoluta tranquillità, anche i miei compagni di avventura che sono già stati qui altre volte.
Le gambe fanno "Giacomo Giacomo" per la fatica, ma decidiamo di lasciarle andare e di scendere, scendere verso la costa mentre il sole si riflette in quell'acqua anomala. Sembra così compatta, così densa, così impenetrabile...




Non c'è un rivolo di vento, l'acqua sembra immobile, il sole ci inchioda lì su quella sponda, la Palestina di fronte e quel confine immaginario che passa in mezzo al mare tracciato tanti anni fa. 
Faris è originariamente di Haifa: si ferma e ci dice "non è assurdo? In tutta la mia vita non sono mai uscito dalla Giordania, eppure la mia casa è là, potremmo arrivarci a nuoto".
Recuperato l'attimo di malinconia, raggiungiamo la costa e cominciamo a cercare un posto con del "buon fango". Non ho idea di come abbiano intenzione di riconoscerlo, ma li seguo e rimango in coda perché muoio dalla voglia di "assaggiare" quest'acqua tanto famosa. 
Immergo le dita e la assaggio, in effetti è salatissima. Ma è solo quando ci immergiamo che capisco che la metafora dell'olio era azzeccata. L'acqua è pesantissima, collosa, sembra incapace di scivolare sulla nostra pelle. Il fondale è sassi e sale cristallizzato che si spacca sotto i nostri piedi.
Subito si abbassa, è profondo e ho un attimo di ansia, ma l'acqua solleva le mie gambe e mi trovo così, a pancia in su, a guardare il cielo. 
La pelle pizzica e tutti noi scopriamo qualche ferita o minuscolo taglio di cui non sapevamo. Una goccia d'acqua mi entra in un occhio e non vedo nulla per minuti. 
Provo a sfidare la natura e a "nuotare" girandomi sulla pancia: ve la ricordate quella stupida storia del gatto con una fetta biscottata e del burro sulla schiena che non si sa come atterrerà? Il gatto dovrebbe atterrare sulle zampe, ma la fetta biscottata cade sempre dalla parte del burro... Mhm....
In effetti giro su me stessa per un po', cerco di toccare il fondo. I miei amici ridono e Faris mi dice che sono "silly" perché è inutile sfidare la natura.
Torno sulla schiena e con i piedi mi spingo verso la riva, facendo il morto nel Mar Morto 🙃🙃🙃
È il momento dei fanghi: noi ragazze ci ricopriamo di quella sostanza tanto nota e tanto costosa. Ci chiniamo sul fondale a cercala con le mani e ci urliamo l'una con l'altra "qui c'è del fango buonissimo!". Io non ho idea se sia buono o no, ma è bello essere così nere, così sporche, così vischiose.
Soprattutto, è divertente pensare che l'acqua con cui ci laveremo è la seconda più salata del pianeta e non ci toglierà quell'untume di dosso. 
Nel frattempo, il sole si abbassa, è quasi il tramonto. Il sole che prima era alto nel cielo e cercava di farsi spazio tra le nuvole, ora gode della sua posizione imperante in mezzo al cielo. Ci guarda, mentre sicuro del suo colore e del suo calore, si abbassa per cedere alla fine della sua giornata. Il cielo è arancione, l'atmosfera di pietra. 
Rimaniamo sulla spiaggia per alcuni minuti a guardare quel paesaggio che cambia, pensando ognuno ai fatti suoi, alle sue malinconie, alle sue gioie. Intanto il fango si secca e poco dopo ritorniamo nell'acqua per lavarci. 
E' ora di andare, è ora di tornare ad Amman, cariche di bellezza e di sale. 
  

sabato 6 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXVII: ostaggio delle danze, la storia continua

Sono stata rilasciata, ma resto in libertà vigilata.
La giornata è iniziata quando, alle 7 del mattino, la padrona di casa è entrata in camera sbattendo la porta e dicendomi "breeeekfast for you!": le uniche 3 parole in inglese del weekend, probabilmente le uniche che le serviva capissi.
Mi alzo in modalità coma, e ad aspettarmi c'è un uomo che strilla le note di Toto Cutugno con una pentola in mano: è il fratello della padrona di casa, che è stato in Italia tanti anni ed è venuto apposta per conoscermi. Per onorare la mia presenza ha portato questa 'pizza senza pane' - pomodori e mozzarella disposti coreograficamente - che mi fa sorgere il dubbio che in Italia ci sia stato davvero. C'è un aroma di aglio e cipolla che nel frattempo ha scacciato tutte le streghe d'Asia.
Ha degli improbabili pantaloni bianchi con la scritta "Italia" sulla gamba, non riesco nemmeno a presentarmi che dice con un refrain 'ma che bella ragazza e simpatica!'. Passi il 'bella', che son gusti, ma 'simpatica'? Sono ancora nel mondo dei sogni e il suo flusso di parole mi ha permesso a mala pena di dire "piacere di conoscerti!". 
Decido di prendere tempo e di cambiarmi almeno il pigiama: indosso degli altrettanto improbabili leggins felpati leopardati regalatami dalla padrona di casa la sera prima - e che ovviamente non c'è stato modo di rifiutare.
Facciamo colazione, sempre su quel delizioso terrazzino vista città. Tutta la famiglia: i padroni di casa, le due figlie, il figlio di una di queste, io e lo zio d'America, pardon: d'Italia.
La padrona di casa mangia e danza contemporaneamente, sprigionando energie, il marito la guarda e scuote la testa con fare bonario, le figlie assorbono quella positività familiare e ridono, coccolando il padre prima che vada a lavoro.



Ore 7.45. Tutto si placa, gli uomini se ne vanno e rimaniamo solo noi donne - più il bambino che, avendo dormito vicino a me, mi ha svegliato alle 2 di notte con un calcio in piena faccia e conseguente "sanguedanaso".
Ci mettiamo lì, in salotto, e ci concediamo finalmente il piacere di svegliarci con delicatezza: beviamo caffè, fumiamo un po' di shisha, mangiamo noccioline sputando i gusci sul pavimento - e guai a te se provi a metterli in un angolino.
Poi la figlia più grande si attiva, decidendo che sono la sua nuova "living doll": mi fa le sopracciglia, mi pettina, mi mette un "leggero" make up. Sono in un tale stato di relax che mi sto per "abbioccare": mi riprendo quando sento una strana sostanza gommosa strisciare sulle mie braccia.
Apro gli occhi e... Zac: Majeeda ha deciso di farmi la ceretta.
Sono sconvolta, non so se vergognarmi di fronte al suo lisciume o se rivendicare anni di battaglie sociali in difesa della libertà di scelta, almeno sulla depilazione.
Ormai ha iniziato, e capisco che non posso più sottrarmi. Cerco di ritrovare un po' di relax, abbandonandomi al mio destino e accettando la mia nuova situazione di passività.
Ma il bello deve ancora venire! La mamma arriva e mi strattona il vestito, facendomi capire con mooolto grazia che devo toglierlo. Li. In terrazza. 
Arriva con un bellissimo vestito palestinese, colori sgargianti e vivi. Me lo ficca in testa, pretende di sistemarmi la sottoveste e mi trascina al centro della sala. Si balla.
Parte una playlist di canzoni folkloristiche palestinesi: solo io e lei balliamo, le figlie fanno le videomakers e spammano la mia immagine a incalcolabili cugini e amici dentro e oltre il confine. Il refrain è sempre lo stesso e mescola strani vocalizzi con il chiaro "Filistini! Filistini!". 



Così sia, dato quello che sto mangiando in questi giorni, ballare può essere pure salutare. E così, tra le cose improbabili che potevano succedermi, la più ridicola di tutte sono io che ballo e la padrona di casa che fa cori da stadio a ogni mio movimento.
La figlia minore, forse gelosa, mi porta in camera sua: ''dai che si riposa, ora sono libera!''. E invece no: mi spoglia (!!!) e mi obbliga ad entrare in un attillatissimo vestito rosso di tre taglie più piccole - facciamo pure 4 - che sul fondo e sulle maniche ha una sequenza incalcolabile di specchietti.



Vuole che io balli ancora più forte, facendo ancora più rumore. Arriva il bambino, probabilmente attirato dal frastuono che produco, e mi esprime inconsciamente solidarietà ballando quelle musiche tradizionali con gesti da rapper.
E si balla, e "balliamo sul mondo", a finestre aperte, a porte spalancate, col palazzo che trema, la maqluba che bolle e la città che si riflette immobile nei nostri occhi fino a trasmettermi una gioia e una sicurezza tale da pensare: "Amman, sono a casa".


venerdì 5 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXVI: essere (felice) ostaggio di una famiglia locale

È mooolto difficile che io dica di no a qualcosa, soprattutto quando sono in viaggio. Ma se mi vengono proposti falafel e hummus per colazione scatta la sopravvivenza.
L'amico Giordano che pensava di portare avanti questa idea si è ritrovato spiazzato e dato che venerdì è pure giorno di festa, per un attimo le cose sono sembrate volgere al peggio.
Tuttavia, ha avuto un'idea brillante e insuperabile: portarmi da qualcuno di veramente locale, di fortemente "tipico".
In un posto in cui non avrei rifiutato nessuno tipo di cibo perché troppo estasiata dall'atmosfera e dalla compagnia.
Mi dice solo "ti va di fare colazione all'ultimo piano di questo palazzo?". Nella mia positiva rassegnazione alle sorprese mediorientali, non riesco a fare altro che un mezzo cenno di assenso.
Mentre lui sale convinto le scale, io lo seguo stranita, cominciando a presumere che non si tratti di un locale, ma della casa di qualcuno.
Suoniamo il campanello, lui si nasconde e io rimango come una scema davanti alla porta: una ragazza bellissima esce strillando il suo nome, pur avendo visto solo me.
Credo che, nella sequela di parole successive, l'abbia insultato bonariamente per il suo solito modo scherzoso. 
Mi trascinano dentro, tutti urlano, spuntano un'altra ragazza bellissima, un bambino e una signora che mi sembra subito "un personaggio".
Cominciano a urlare strane cose, ad allungare le vocali in segno (credo) di stupore e meraviglia - non per la sottoscritta, ovviamente: credo piuttosto per l'onore di avere in casa una ragazza straniera.
Mi salutano - mano tesa, bacio guancia sinistra, bacio guancia destra ripetuto 3 volte in modo cazendato - della serie che non sai quando il convenevole mai finirà - e dopo tre secondi già sono diventata "habibi" - حببي amore/tesoro mio.
Portano il cibo per colazione, la shisha e cominciano a ballarmi intorno. Non so come tutto questo sia successo, troppe azioni, troppo veloci, in troppo poco tempo.
Le ragazze mi sciolgono i capelli e cominciano a rigirarseli tra le dita: sono così stupita e felice che non riesco a dire niente, nè a opporre resistenza.
Il mio amico ride a crepapelle e si limita a confortarmi dicendomi "sono pazze".
Molto bene. 
La cosa che ancora non ho detto è che tutto questo succede mentre cerchiamo di fare colazione - santo cappuccio e brioches: le tre donne di casa continuano ad avvicinarmi le cose, come se potessi mangiarle tutte nello stesso momento. Una di loro addirittura decide cosa devo mangiare, facendomi una specie di panino personalizzato. Mi giro e un'altra mi sta letteralmente "ficcando" un intero pomodoro in bocca.
Sto ancora cercando di masticare che arriva la madre e mi solleva dal divano con uno strattone: comincia a ballare e cantare nel salone e ovviamente pretende che io la segua. 
Se c'è stato un attimo di reticenza, le figlie sono subito arrivate (entrambe) a sanarlo, prendendomi per mano e guidando i miei "movimenti".
Ed è così, a capelli sciolti, tra un formaggino fritto e un boccone di olio e za'atar, che sono stata ufficialmente  battezzata (il famoso "battesimo di fuoco") e introdotta nella vita di questa famiglia palestinese.
Così tanto introdotta che ancora ora, abbandonata dal mio amico appena prima di pranzo, sono loro ostaggio - ebbene sì, non mi hanno lasciata andare a casa a dormire!
Un ostaggio attonito e felice, dopo una giornata mangereccia e conviviale, linguisticamente provante nel mio misto inglese/arabo/risata/sorriso/assenso/tentato dissenso - che sempre fallisce perché nulla si può rifiutare.
Dopo molte danze, dopo molte magie, dopo aver letto il futuro in una tazza del caffè, dopo aver espresso desideri con l'acqua della Mecca.
Dopo essere stata sottoposta a dolorosi trattamenti estetici locali, dopo essermi affidata alla medicina tradizionale per curare le punture di zanzara, dopo aver osservato per ore la città dall'alto del colle e dopo essermi accorta che tutto questo è successo in una sola giornata.
Ma non posso che farne una sintesi, perché in mezzo ci sono (molte) altre storie.






martedì 2 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXV: la pioggia, l'autunno.

Ad Amman l'autunno arriva bussando, timido e pacato. Si presenta con la pioggia in tarda serata, quando quasi tutti già dormono, quando i locali chiudono e quando i giovani cercano un posto dove temporeggiare in compagnia, ancora per qualche minuto.
Lo fa con delle gocce grosse, ma solitarie. Col passare dei minuti, sembra che quelle porzioncine d'acqua si chiamino tra loro, con un suono che è sempre più intenso, sempre più "allegro".
Ma "allegro non troppo'', vogliono solo affrontare in gruppo la loro timidezza, dopo tanti giorni trascorsi in qualche nuvola continuamente sospinta verso l'alto dal calore del deserto.
Ora cominciamo ad essere tante. Non è più solo una sensazione sulla pelle, una macchiolina sugli occhiali: le gocce si moltiplicano. Piove.
E mentre i pochi nottambuli si accorgono di quello che sta succedendo, le gocce perdono la loro timidezza e si scatenano.
Sempre più allegre, sempre più impavide nell'oscurità protettiva della notte.
Possono scrosciare a piacimento, finalmente libere, finalmente legittimate da un cielo sempre più grigio, che nei giorni precedenti si era preparato per loro.
E vibrano, e rendono l'aria frizzante. Rallegrano gli spiriti, ammutoliscono gli increduli. Piove, dopo settimane di caldo schiacciante, di afa cocente, di serate come oasi nell'arsura della giornata.
Piove, piove acqua mista a una sabbia fine che domani mattina avrà lasciato la sua traccia sulle macchine immacolate dei Giordani.
Piove, mentre stupita mi godo quest'atmosfera e realizzo che non si tratta di una pioggerella estiva, ma di un principio di autunno. Per la prima volta, realizzo che l'estate sta finendo anche qui e che il tempo scorre, troppo in fretta.




domenica 30 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXIV: 10 COSE che NON immaginavi su Amman

1 - Come Roma, fu originariamente costruita su 7 colli, detti Jabal.
Ma oggi la città si è espansa così tanto da occuparne quasi 20.

2 - I nomi delle strade e delle vie sono stati introdotti da poco, motivo per cui nessuno li conosce.
Se vorrai orientarti in città o raggiungere la tua meta, dovrai dare al tuo autista dei punti di riferimento più conosciuti, come i "cerchi".

3 - Ebbene sì, la città è divisa in 8 cerchi, delle enormi rotonde che fanno da raccordo tra i vari colli. Non puoi sopravvivere ad Amman senza tenerli in considerazione ;-)

4 - Non esiste rete idraulica
Sì, dimenticatevi le condutture sotterranee: l'acqua ad Amman "sgorga dai tetti", ove sono posizionate delle grandi cisterne. Per questo motivo, l'acqua è assai limitata e potrebbe improvvisamente finire nel bel mezzo di una doccia.

5 - Non c'è acqua in città.
Le cisterne vengono rifornite settimanalmente casa per casa, con l'acqua pompata dalle Oasi del deserto Orientale - che si stanno prosciugando!

6 - La città è divisa in Amman Est - la parte più popolare e tradizionale - e Amman ovest - la zona più moderna e fancy, copia mediorientale dell'Occidente.

7 - E' detta città bianca.
Questo per via del colore delle pietre calcaree utilizzate per costruirla, che sono importate dal sud e dal nord-est del paese e vengono rigorosamente lavorate a mano. 

8 - All'epoca dei Greci, si chiamava Philadelphia.
Ma di tutti i nomi di Amman vi ho già ampiamente parlato qui.

9 - Sorge su un altopiano situato a circa 1.029 metri.
Cosa abbastanza curiosa se si pensa che con nemmeno un'ora di macchina si raggiunge la depressione del Mar Morto, a oltre 400 m sotto il livello del mare.

10 - Metà della popolazione Giordana vive qui.
Su una popolazione di circa 10 milioni di abitanti, 4 milioni e 955 mila vivono ad Amman, motivo per cui la densità di popolazione è molto alta - 2 973,21 ab./km².