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mercoledì 17 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLII: storie sudanesi


Anche per Aziz è arrivato il giorno del commiato, della partenza, del salvataggio. La sua famiglia ha deciso che non c'è più tempo per metterlo in salvo, raggiunta quell'età pericolosa in cui sei giovane e forte e diventi bersaglio prediletto per le milizie del governo.
I demoni a cavallo, così li chiamano in Darfur, uccidono chiunque possa unirsi ai "ribelli". Ovviamente, non c'è modo di convincerli che loro sono solo una famiglia come tante, dedits all'agricoltura e al commercio su piccola scala.
Aziz parte, con il cuore in gola e con l'unica speranza di rivederli ancora. Con l'unico desiderio che un giorno possa riabbracciare mamma, papà e le sue tre sorelle. Non importa quanto si debba aspettare, l'importante è saperli vivi.
Ad oggi, sono passati dodici anni. Aziz li conta, dal 2006 ad oggi, sulle dita delle mani. Sono troppi, eppure non ha perso la speranza. Per anni non ha avuto loro notizie. Solo quando ha lasciato il Sudan per venire in Giordania, con molti dubbi e con l'unico desiderio di tornare in Darfur anche solo per qualche ora, un lontano cugino lo ha sconsigliato. "La situazione peggiora", dice. Peggiora, peggiorare rispetto a cosa? 
Aziz ha vissuto per otto anni nella periferia di Khartoum. É arrivato nella capitale vagando come un pazzo, senza contatti o persone fidate.
Qualcosa lo ha spinto a rifugiarsi in campagna, ai lati della città.
 Un giorno si sveglia e c'è un uomo che lo chiama, incuriosito da quella presenza ai margini del suo podere. É un contadino, sembra "innocuo", ma Aziz non si fida. Sa bene che il governo ha messo spie in ogni dove per trovare i Darfuriani e continuare il massacro.
Resta sul vago, ma il suo accento è chiaro e teme il peggio. Ma la fortuna vuole che ha incontrato un uomo mite e di cuore: lo porta nella sua fattoria, gli dà da mangiare, gli permette di dormire in un posto coperto.
Aziz è un "omone": fatico a immaginarlo timoroso, spaurito, spaventato. Eppure non ha problemi ad ammettere che per giorni è morto dalla paura, aspettando qualche "ufficiale" del governo che lo uccidesse lì, in quella fattoria ai margini della capitale.
Ma i giorni passano e nessuno arriva. Il buon uomo comincia a sembrargli fidato. Aziz non ha piani, non ha un posto alternativo dove andare nè un lavoro da cui ricominciare.
Così accetta di rimanere e di aiutare quel sudanese "puro", senza geni darfuriani o cristiani, a portare avanti la sua fattoria.
In quegli otto anni imparerà un mestiere, si occuperà delle bestie, della mungitura, del raccolto. Ogni azione gli ricorda i bei tempi in cui, col padre, curava la campagna e poi tornava a casa e trovava la madre intenta a cucinare i prodotti del loro raccolto. Il Darfur era una terra rigogliosa, ricca di acqua e di risorse. La maggior parte della popolazione era ricca rispetto alla media sudanese, ognuno aveva una fattoria, del bestiame, ognuno era impiegato nel commercio su piccola scala. Una terra da depredare, almeno dal colpo di stato del 1989.
In quegli anni Aziz si impegna soprattutto in una missione: dimenticare le sue origini. Ogni giorno pratica il dialetto locale, nella speranza di perdere il suo accento. Ogni giorno impara usi e costumi del posto, cercando di nascondere le sue origini.
Nel frattempo, ha messo via un po' di soldi e decide di iscriversi all'università. Continuerà a lavorare nella fattoria, facendo da "pendolare" tra la campagna e la città.
Il primo giorno di università, un uomo gli si avvicina e gli chiede "ehi amico, da dove vieni?". Aziz ha un tremito. "Da Khartoum". "Da Khartoum? Non sembri di qui! Non assomigli alla gente di Khartoum". "Ma sì, sono di Khartoum, è che vengo dalla campagna". "Ah, dalla campagna, ecco il perché di questo insolito accento". Aziz è conscio che quella possa essere una spia. Sta per mostrargli il passaporto, con il suo nuovo "National number". Ma poi lascia correre, cerca di sembrare disinvolto.
Aziz si è laureato in Business and Administration. Poi è venuto in Giordania, perché la cosa più importante per lui è "connettere le persone, continuare ad avere speranza, dare un senso alla propria vita anche fuori dal Sudan". 
Oggi lavora in una NGO che si occupa di rifugiati. Qualche giorno fa è riuscito a recuperare il numero della sua famiglia, grazie all'incredibile solidarietà africana. La sua famiglia ora vive in un campo profughi in Sudan. Ha parlato con sua madre dopo dodici anni. Mi chiedo come faccia ad essere così forte, così positivo, così grato. Mi chiedo come faccia ad anteporre ancora la speranza alla malinconia, alle preoccupazioni e al dolore. 
Quando arriva a casa mia è voglioso di parlare, è eccitato dall'idea di raccontarmi la sua storia.
Quando finisce di parlare, mi abbraccia e mi dice "I am sorry, this is too much for a girl".
For a girl. 
Attonita, resto lì immobile a cercare di immaginare la sua vita. Nel frattempo, Aziz prepara un tè, in un certo qual modo, mi consola.
Poi sdrammatizza: "sono vivo".

martedì 16 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLI: l'uomo nero, in Giordania.


In Sudan, nell'indifferenza della comunità internazionale, si sta compiendo uno dei più atroci genocidi della storia contemporanea.
Prima di iniziare la mia ricerca in Giordania, non sapevo quasi niente del Darfur. A mala pena sapevo collocarlo sulla mappa e ciò che balzava alla mia mente erano scene di guerra e distruzione che posso aver visto solo in un qualche film - tipo nell'inizio di Blood Diamonds.
Quando ho iniziato a parlare con questi ragazzi, rifugiati in Giordania dal Darfur, ho scoperto tante cose. Soprattutto, ho scoperto che lo scenario che immaginavo è molto peggiore nella realtà.
Ogni giorno spendo ore con questi ragazzi, nelle loro case, al parco, in downtown. Beviamo un goccio di Whisky, andiamo a mangiare uno knafeh e fumiamo qualche sigaretta, anche se è "haram". E parliamo, parliamo, parliamo di sogni infranti e di atroci verità. 
Sono tutti uomini, tutti tra i 20 e i 30 anni, tutti soli. Soprattutto, sono tutti orgogliosamente neri in un mondo che non li vuole.
Io faccio loro qualche domanda per la mia ricerca, ma ogni volta realizzo che è impossibile contenere le loro storie nella rigidità della mia "intervista strutturata".
Allora accendo il registratore, poso la penna e li lascio parlare. Ascolto le loro parole con angoscia e ammirazione per quello che hanno passato e per come sono riusciti a superare quelle difficoltà.
Nel mio cuore sono così grata e cosi stupita che si fidino di me e che mi raccontino vicende tanto personali. Non credo di aver fatto niente per meritarmelo, se non aver mostrato interesse per la loro situazione. Ci sono frasi che mi rimarranno sempre impresse nella mente e so che la narrazione in prima persona incisa sotto forma di note nel mio registratore, è irripetibile.
Sono tutti giovani della mia età, belli, forti, e pieni di vita. Sono tutti giovani della mia età, scappati dai miliziani che li avrebbero reclutati o uccisi.
Chiedo delle loro famiglie e so che quasi sempre scuoteranno la testa e passeranno oltre. C'è chi non sa più niente di loro, chi racconta che solo le donne sono superstiti, chi, con dignitosa rassegnazione, prende su di sé tutte le responsabilità dicendo "noi non ce l'abbiamo con nessuno, è il nostro stesso governo che ci ha uccisi".
Questi ragazzi vogliono solo vivere in pace, dopo che il loro governo ha iniziato a massacrarli in nome di qualche tribalismo. In Giordania affrontano decine di problemi ogni giorno, ma almeno sono al sicuro. E di questa sicurezza sono così grati da non darla mai per scontata.
Attendono ogni giorno una chiamata da UNHCR, sperando di essere stati scelti per il ricollocamento. C'è sempre qualcosa (o qualcuno) che si mette in mezzo, e loro rimangono qui, infangati in una situazione paradossale di sopravvivenza e di attesa.
Molti avrebbero voluto tentare la via della Libia, ma - insha'Allah! - sono stati consigliati verso la Giordania, più facile e sicura da raggiungere. Ognuno di loro ricorda qualche amico che si è perso in mezzo al mare. 
É così che arrivano a chiedermi dall'Italia, e allora divento io il bersaglio dell'intervista. In una delle loro case c'è una grande carta geografica dell'Africa, appesa al muro. Ognuno si avvicina, traccia il suo percorso. Poi tocca a me - perché i ragazzi proprio non si spiegano perché io sia voluta venire in Giordania, se i rifugiati ce li avevo in casa. Allora provo a semplificare: parlo di Lampedusa, dei salvataggi, dei ragazzi come loro che ho incontrato nei CAS e nelle comunità.
Parlo dei miei amici neri che sono in Italia e aspettano, aspettano, aspettano anche loro, ogni giorno, per qualcosa che non si sa se arriverà. E la loro empatia è così forte che sento di essere il loro tramite, sento che vorrebbero connettersi con loro, conoscere le loro storie, confrontarsi su questi percorsi così diversi ma così simili nei motivi della fuga.
Io sto lì, a metà tra lo sfinito e il disilluso, a cercare di dipingere un'Italia che oggi potrebbe essere migliore, ma che, invece, va cercando qualcos'altro. Che si è rassegnata all'odio, alle accuse, alla via facile di un capro espiatorio.
Non me la sento di mentire, di dire che le cose vanno bene, che l'Italia è un posto ospitale. Non me la sento di dire che lì saranno al sicuro, perché ogni giorno c'è un nuovo caso di violenza razziale e un nuovo attacco politico agli "immigrati". Perché ogni giorno noi italiani preferiamo mistificare la realtà e creare un nemico ad hoc per tutti i nostri problemi, piuttosto che uscire dalle nostre case, dai nostri preconcetti, dalle nostre paure e incontrare qualcuno di loro. 
"Portami via, che mi sento di morir". 
Tiro un sospiro di sollievo quando qualcuno mi dice "Io voglio andare in Canada".
Io so di parlare da una posizione privilegiata, so che le mie riflessioni possono sembrare semplicistiche, sentimentalistiche e pure un po' spocchiose. So di avere un passaporto forte e mi muovo disinvolta nei privilegi di questo neocolonialismo, ben conoscendo il trattamento preferenziale riservato agli stranieri d'Occidente.
Eppure, ogni volta che raccolgo una delle loro storie sono grata a me stessa per non essere razzista. Sono grata a me stessa per essermi sempre data la possibilità di incontrarli, di parlare con loro, di accettare il loro cibo, le loro storie, la loro musica. Ogni volta che vado in casa loro e le persone si moltiplicano intorno a me perché vogliono aggiungere un pezzo della loro storia alla mia ricerca, ogni volta che perdo la cognizione del tempo e resto a casa loro fino a tarda sera, ogni volta che mi alzo in piedi e spiego loro l'Europa, i confini, Ventimiglia, Calais e il sistema di Dublino, ogni volta che io, unica donna in mezzo a tanti uomini neri, torno a casa e me ne sto sola, finalmente, nella mia stanzetta, sono grata a me stessa per non aver avuto paura.
É la paura, che ci fotte ed è sulla paura che stanno giocando.
Io non ho paura, e ogni giorno realizzo che non c'è posto più sicuro in Giordania in cui io possa stare delle umili case dei miei amici Sudanesi.
A volte pure io mi meraviglio. Mi meraviglio della loro intelligenza, della loro voglia di studiare, della loro lungimiranza, della loro consapevolezza del mondo.  Mi meraviglio e mi vergogno per come siano consci degli stereotipi che si perpetuano su di loro - primo tra tutti l'idea del maschio nero ipersessualizzato, su cui cercano sempre di sdrammatizzare. In fondo pure io sono preda dei preconcetti e più di una volta ho pensato che fossero ignoranti, semplici, sprovveduti. Ma l'altro giorno un ragazzo mi ha detto "tutti pensano che siamo neri e quindi siamo scemi e, soprattutto, siamo poveri. Come se fossimo nati poveri, come se questa fosse la nostra natura. Nessuno pensa che avevamo una vita normale, prima. Nessuno pensa che avevamo una vita come la loro". Ecco, una vita come la loro, cioè come la nostra. 
La paura di un nero uguale a noi, la paura di un nero che vive come noi, la paura di un nero che ha una vita come la nostra.

Proverò a raccontare qualcuna delle loro storie, nei miei prossimi racconti. Foss'anche solo per dimostrare che quelle di oggi non sono solo delle riflessioni sentimentali ed estemporanee a conseguenza di qualche intervista troppo toccante. Ognuno di loro merita di essere incontrato e ascoltato. C'è sempre qualcosa da imparare, almeno secondo me.

venerdì 5 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXVI: essere (felice) ostaggio di una famiglia locale

È mooolto difficile che io dica di no a qualcosa, soprattutto quando sono in viaggio. Ma se mi vengono proposti falafel e hummus per colazione scatta la sopravvivenza.
L'amico Giordano che pensava di portare avanti questa idea si è ritrovato spiazzato e dato che venerdì è pure giorno di festa, per un attimo le cose sono sembrate volgere al peggio.
Tuttavia, ha avuto un'idea brillante e insuperabile: portarmi da qualcuno di veramente locale, di fortemente "tipico".
In un posto in cui non avrei rifiutato nessuno tipo di cibo perché troppo estasiata dall'atmosfera e dalla compagnia.
Mi dice solo "ti va di fare colazione all'ultimo piano di questo palazzo?". Nella mia positiva rassegnazione alle sorprese mediorientali, non riesco a fare altro che un mezzo cenno di assenso.
Mentre lui sale convinto le scale, io lo seguo stranita, cominciando a presumere che non si tratti di un locale, ma della casa di qualcuno.
Suoniamo il campanello, lui si nasconde e io rimango come una scema davanti alla porta: una ragazza bellissima esce strillando il suo nome, pur avendo visto solo me.
Credo che, nella sequela di parole successive, l'abbia insultato bonariamente per il suo solito modo scherzoso. 
Mi trascinano dentro, tutti urlano, spuntano un'altra ragazza bellissima, un bambino e una signora che mi sembra subito "un personaggio".
Cominciano a urlare strane cose, ad allungare le vocali in segno (credo) di stupore e meraviglia - non per la sottoscritta, ovviamente: credo piuttosto per l'onore di avere in casa una ragazza straniera.
Mi salutano - mano tesa, bacio guancia sinistra, bacio guancia destra ripetuto 3 volte in modo cazendato - della serie che non sai quando il convenevole mai finirà - e dopo tre secondi già sono diventata "habibi" - حببي amore/tesoro mio.
Portano il cibo per colazione, la shisha e cominciano a ballarmi intorno. Non so come tutto questo sia successo, troppe azioni, troppo veloci, in troppo poco tempo.
Le ragazze mi sciolgono i capelli e cominciano a rigirarseli tra le dita: sono così stupita e felice che non riesco a dire niente, nè a opporre resistenza.
Il mio amico ride a crepapelle e si limita a confortarmi dicendomi "sono pazze".
Molto bene. 
La cosa che ancora non ho detto è che tutto questo succede mentre cerchiamo di fare colazione - santo cappuccio e brioches: le tre donne di casa continuano ad avvicinarmi le cose, come se potessi mangiarle tutte nello stesso momento. Una di loro addirittura decide cosa devo mangiare, facendomi una specie di panino personalizzato. Mi giro e un'altra mi sta letteralmente "ficcando" un intero pomodoro in bocca.
Sto ancora cercando di masticare che arriva la madre e mi solleva dal divano con uno strattone: comincia a ballare e cantare nel salone e ovviamente pretende che io la segua. 
Se c'è stato un attimo di reticenza, le figlie sono subito arrivate (entrambe) a sanarlo, prendendomi per mano e guidando i miei "movimenti".
Ed è così, a capelli sciolti, tra un formaggino fritto e un boccone di olio e za'atar, che sono stata ufficialmente  battezzata (il famoso "battesimo di fuoco") e introdotta nella vita di questa famiglia palestinese.
Così tanto introdotta che ancora ora, abbandonata dal mio amico appena prima di pranzo, sono loro ostaggio - ebbene sì, non mi hanno lasciata andare a casa a dormire!
Un ostaggio attonito e felice, dopo una giornata mangereccia e conviviale, linguisticamente provante nel mio misto inglese/arabo/risata/sorriso/assenso/tentato dissenso - che sempre fallisce perché nulla si può rifiutare.
Dopo molte danze, dopo molte magie, dopo aver letto il futuro in una tazza del caffè, dopo aver espresso desideri con l'acqua della Mecca.
Dopo essere stata sottoposta a dolorosi trattamenti estetici locali, dopo essermi affidata alla medicina tradizionale per curare le punture di zanzara, dopo aver osservato per ore la città dall'alto del colle e dopo essermi accorta che tutto questo è successo in una sola giornata.
Ma non posso che farne una sintesi, perché in mezzo ci sono (molte) altre storie.






giovedì 1 settembre 2016

VORREMMO INCONTRARTI :)

(WOULD MEET YOU)


The project IncontrArti is an educational project about interculturality. Its aim is to favour integration among children coming from different cultures, through art potentialities.


Our aim is to stimulate children to seek channels of communication and confrontation different from verbal language, in order to go beyond the linguistic boundaries and to find an universal language. For this reason we believe in the great value of images and of visual language which, even if influenced by a particular culture, are naturally free from every system of symbols or alphabets elaborated by human beings. It is possible to communicate by images, but even by gestures, by movements, by sounds and silences. Isn’t that what we call multimedia?

Le forchette di Munari.
Bruno Munari, 1991.
This alternative communication is combined with a deep rediscovery of our way to perceive reality, based not only on the primacy of sight but also on the use of hands, ears, nose, mouth and above all, the heart. We love and encourage the so called synaesthesia, i.e. the union of perceptions, emotions, and information coming from different senses which increase our knowledge of the world and our aliveness.
We try to focus on what is already part of ourselves: creativity, that many deny to possess, is actually an innate mental faculty that helps us to organize information.
With our proposals we want to remove some dust from those rusty mechanisms and give them a new life, in order to learn how to see the reality from a new point of view, like when we were children, to interpret and to assign meaning beyond preconceived knowledge, to think in a lateral and divergent way. If we think laterally, we will notice that there are new, original and more efficient ways to face everyday problems.
Then, the different will not be seen with distrust and prejudice, but as an holder of huge and unlimited experiences, knowledge, stimuli and curiosities.

Bull's Head.
Picasso, 1942.
FOR WHO

For now, we address children of all ages, from 3 years old to 10 years old, elaborating different paths depending on age range.
Potentially, the project could be extended and everyone could be involved!

WHAT

We propose activities that will stimulate reflections about cross-cultural themes - e.g. identity, places, emotion’s colors, handcraft objects - through the presentation of relating materials of different nature: books, comic books, leporellos, maps, images, painting, artworks, music, cinema, photos. This is due to our will to favour a multi-medial approach.
We settle an artistic laboratory for each meeting, where children can mould and give colors and expression to their impressions and elaborate effectively their ideas.


Children at work in Tirano, Public Library
"Paolo e Paola Maria Arcari".

HOW

We strongly believe in the value of rules because, as Bruno Munari said:

«Rule alone is monotonous. The combination between rule and chance is life, 
art, fantasy, equilibrium».

Therefore, each activity is accurately organized, both in the directives, in materials and practical support, but every child can express themselves freely. There are no models to be copied nor example of perfection to be followed: rule is necessary only to provide directions to be followed in order to optimize results, because “projecting is easy when you know how to do that”.
Only through direct and active experimentation children can become actual protagonists of their learning process. “I hear and I forget. I see and I remember. I do and I understand”, Confucius said. But this making-process has to completely useless and free from every utilitarian ambition typical of Western society. For us  it is important that the child takes posses of this learning process in order to apply it in other different situations: their inheritance will be not a product, but a behave.


WHERE

Potentially, everywhere: in a classroom, in the hall of a museum or a library, in a field or in a backyard.
The important thing is that there must be a great open space where it will be possible to sit all together,  sharing, listening to other people and paying attention to our interiority.
For the laboratorial activity it is important that all the materials are tidy, in order to put the children in the condition to choose with awareness what they desire and to distinguish the specificity of every support.
But don’t worry: we will help you sort out your mess!

WHY

We already presented some aims of our project, but in particular we want to increase, enhance and valorize knowledge: our project has an intercultural target and we believe in the equality and in the richness of every culture. We fight against prejudices and narrow mindset with the proposal to draw knowledge, curiosities, beliefs and tales from every culture and to share them. Only experimenting actively the diversity we can become aware of the big source it represents and employ it in everyday life.
Respect, listening, sharing are the key principles.


 BENEFITS
  • To promote peer to peer collaboration and joint commitment.
  • To share experience, knowledge, back-ground.
  • To experiment varieties of different materials and supports.
  • To sensitize to a multimedia and synaesthetic approach to the reality.
  • To provide stimuli, proposals and new cognizances.
  • To stimulate a different, divergent and lateral way to look at the reality.
  • To valorize everyone’s creative and artistic potential.

INSPIRATIONAL FIGURE

The inspirational figure of this project is Bruno Munari, architect, designer, graphic, writer but most of all polyhedral artist and pedagogue by chance. He was the first who strongly believed in the educative value of art and who projected the laboratories from which we take inspiration.

Bruno Munari, 1907-1998.
But if it is true that “everyone knows a different Bruno Munari”, we especially know the Munari of unlimited and free experimentation and of the variations. For him, the “sincere research of variations” was one of the several faces of creativity which consists on systematically changing the features that normally define an object and on proposing a new version of it, different but still recognizable. Like human faces, all different but still faces of human beings!
To search, create, elaborate varieties, therefore, to make the difference our richness.

Alla Faccia!
Bruno Munari, 1992.

WHAT WE HAVE DONE UNTIL NOW

A first set of laboratories took place in Tirano last spring, at the public library “Paolo e Paola Maria Arcari”. The Participants were 15 children – foreigners and Italians – between 8 and 10 years.

The project has been presented in occasion of the 10th UNESCO Summer School “Childhood and children in Multicultural societies: theory, praxis,research” in Warsaw, at the Accademy of Special Education. Our research is going to be published in the conference proceedings

Morover, IncontrArti has been part of the 15 educative tools presented at the Tool Fair Italia 2016,
an exposition of innovative educative practices in Rome. Valued as one of the best tools, it is in the TOP 5 Tool of the Italian Tool Fair.

In the light of the former goal, IncontrArti will be presented in occasion of the International Tool Fair in Malta, from 7th to 12th of November.

IncontrArti is even registered in the Educational Toolboox of Erasmus+ Educative Portal.
Find it here: IncontrArti

For the future, we are waiting for you and we would like to meet you!

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