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martedì 16 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLI: l'uomo nero, in Giordania.


In Sudan, nell'indifferenza della comunità internazionale, si sta compiendo uno dei più atroci genocidi della storia contemporanea.
Prima di iniziare la mia ricerca in Giordania, non sapevo quasi niente del Darfur. A mala pena sapevo collocarlo sulla mappa e ciò che balzava alla mia mente erano scene di guerra e distruzione che posso aver visto solo in un qualche film - tipo nell'inizio di Blood Diamonds.
Quando ho iniziato a parlare con questi ragazzi, rifugiati in Giordania dal Darfur, ho scoperto tante cose. Soprattutto, ho scoperto che lo scenario che immaginavo è molto peggiore nella realtà.
Ogni giorno spendo ore con questi ragazzi, nelle loro case, al parco, in downtown. Beviamo un goccio di Whisky, andiamo a mangiare uno knafeh e fumiamo qualche sigaretta, anche se è "haram". E parliamo, parliamo, parliamo di sogni infranti e di atroci verità. 
Sono tutti uomini, tutti tra i 20 e i 30 anni, tutti soli. Soprattutto, sono tutti orgogliosamente neri in un mondo che non li vuole.
Io faccio loro qualche domanda per la mia ricerca, ma ogni volta realizzo che è impossibile contenere le loro storie nella rigidità della mia "intervista strutturata".
Allora accendo il registratore, poso la penna e li lascio parlare. Ascolto le loro parole con angoscia e ammirazione per quello che hanno passato e per come sono riusciti a superare quelle difficoltà.
Nel mio cuore sono così grata e cosi stupita che si fidino di me e che mi raccontino vicende tanto personali. Non credo di aver fatto niente per meritarmelo, se non aver mostrato interesse per la loro situazione. Ci sono frasi che mi rimarranno sempre impresse nella mente e so che la narrazione in prima persona incisa sotto forma di note nel mio registratore, è irripetibile.
Sono tutti giovani della mia età, belli, forti, e pieni di vita. Sono tutti giovani della mia età, scappati dai miliziani che li avrebbero reclutati o uccisi.
Chiedo delle loro famiglie e so che quasi sempre scuoteranno la testa e passeranno oltre. C'è chi non sa più niente di loro, chi racconta che solo le donne sono superstiti, chi, con dignitosa rassegnazione, prende su di sé tutte le responsabilità dicendo "noi non ce l'abbiamo con nessuno, è il nostro stesso governo che ci ha uccisi".
Questi ragazzi vogliono solo vivere in pace, dopo che il loro governo ha iniziato a massacrarli in nome di qualche tribalismo. In Giordania affrontano decine di problemi ogni giorno, ma almeno sono al sicuro. E di questa sicurezza sono così grati da non darla mai per scontata.
Attendono ogni giorno una chiamata da UNHCR, sperando di essere stati scelti per il ricollocamento. C'è sempre qualcosa (o qualcuno) che si mette in mezzo, e loro rimangono qui, infangati in una situazione paradossale di sopravvivenza e di attesa.
Molti avrebbero voluto tentare la via della Libia, ma - insha'Allah! - sono stati consigliati verso la Giordania, più facile e sicura da raggiungere. Ognuno di loro ricorda qualche amico che si è perso in mezzo al mare. 
É così che arrivano a chiedermi dall'Italia, e allora divento io il bersaglio dell'intervista. In una delle loro case c'è una grande carta geografica dell'Africa, appesa al muro. Ognuno si avvicina, traccia il suo percorso. Poi tocca a me - perché i ragazzi proprio non si spiegano perché io sia voluta venire in Giordania, se i rifugiati ce li avevo in casa. Allora provo a semplificare: parlo di Lampedusa, dei salvataggi, dei ragazzi come loro che ho incontrato nei CAS e nelle comunità.
Parlo dei miei amici neri che sono in Italia e aspettano, aspettano, aspettano anche loro, ogni giorno, per qualcosa che non si sa se arriverà. E la loro empatia è così forte che sento di essere il loro tramite, sento che vorrebbero connettersi con loro, conoscere le loro storie, confrontarsi su questi percorsi così diversi ma così simili nei motivi della fuga.
Io sto lì, a metà tra lo sfinito e il disilluso, a cercare di dipingere un'Italia che oggi potrebbe essere migliore, ma che, invece, va cercando qualcos'altro. Che si è rassegnata all'odio, alle accuse, alla via facile di un capro espiatorio.
Non me la sento di mentire, di dire che le cose vanno bene, che l'Italia è un posto ospitale. Non me la sento di dire che lì saranno al sicuro, perché ogni giorno c'è un nuovo caso di violenza razziale e un nuovo attacco politico agli "immigrati". Perché ogni giorno noi italiani preferiamo mistificare la realtà e creare un nemico ad hoc per tutti i nostri problemi, piuttosto che uscire dalle nostre case, dai nostri preconcetti, dalle nostre paure e incontrare qualcuno di loro. 
"Portami via, che mi sento di morir". 
Tiro un sospiro di sollievo quando qualcuno mi dice "Io voglio andare in Canada".
Io so di parlare da una posizione privilegiata, so che le mie riflessioni possono sembrare semplicistiche, sentimentalistiche e pure un po' spocchiose. So di avere un passaporto forte e mi muovo disinvolta nei privilegi di questo neocolonialismo, ben conoscendo il trattamento preferenziale riservato agli stranieri d'Occidente.
Eppure, ogni volta che raccolgo una delle loro storie sono grata a me stessa per non essere razzista. Sono grata a me stessa per essermi sempre data la possibilità di incontrarli, di parlare con loro, di accettare il loro cibo, le loro storie, la loro musica. Ogni volta che vado in casa loro e le persone si moltiplicano intorno a me perché vogliono aggiungere un pezzo della loro storia alla mia ricerca, ogni volta che perdo la cognizione del tempo e resto a casa loro fino a tarda sera, ogni volta che mi alzo in piedi e spiego loro l'Europa, i confini, Ventimiglia, Calais e il sistema di Dublino, ogni volta che io, unica donna in mezzo a tanti uomini neri, torno a casa e me ne sto sola, finalmente, nella mia stanzetta, sono grata a me stessa per non aver avuto paura.
É la paura, che ci fotte ed è sulla paura che stanno giocando.
Io non ho paura, e ogni giorno realizzo che non c'è posto più sicuro in Giordania in cui io possa stare delle umili case dei miei amici Sudanesi.
A volte pure io mi meraviglio. Mi meraviglio della loro intelligenza, della loro voglia di studiare, della loro lungimiranza, della loro consapevolezza del mondo.  Mi meraviglio e mi vergogno per come siano consci degli stereotipi che si perpetuano su di loro - primo tra tutti l'idea del maschio nero ipersessualizzato, su cui cercano sempre di sdrammatizzare. In fondo pure io sono preda dei preconcetti e più di una volta ho pensato che fossero ignoranti, semplici, sprovveduti. Ma l'altro giorno un ragazzo mi ha detto "tutti pensano che siamo neri e quindi siamo scemi e, soprattutto, siamo poveri. Come se fossimo nati poveri, come se questa fosse la nostra natura. Nessuno pensa che avevamo una vita normale, prima. Nessuno pensa che avevamo una vita come la loro". Ecco, una vita come la loro, cioè come la nostra. 
La paura di un nero uguale a noi, la paura di un nero che vive come noi, la paura di un nero che ha una vita come la nostra.

Proverò a raccontare qualcuna delle loro storie, nei miei prossimi racconti. Foss'anche solo per dimostrare che quelle di oggi non sono solo delle riflessioni sentimentali ed estemporanee a conseguenza di qualche intervista troppo toccante. Ognuno di loro merita di essere incontrato e ascoltato. C'è sempre qualcosa da imparare, almeno secondo me.

lunedì 17 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXIV: Othman e il sogno infranto dell'Europa. Un incontro giordano.

Ci sono viaggi che hanno più senso di altri. 
Tipo quello di  Othman, che di viaggi ne ha fatti tanti, ma nessuno di essi è andato come sperava.
Ieri era il suo compleanno e timido, nella sua camicia bianca, cercava di minimizzarne l'importanza spostando l'attenzione sul fermento dello skatepark.
Scherzando, mi dice che non è un "good mathematician" ma sì, se da ieri ha 26 anni, ha incontrato la guerra quando ne aveva 11.


Lo aiuto nel calcolo e penso a quanto siano vicine le nostre età.
Ha vissuto in un campo profughi da quando ha memoria e in mente ha solo una data: 2003, l'inizio del conflitto in Darfur. Era lo stesso anno in cui le città italiane si riempivano di bandiere della Pace e le nostre menti di apprensioni per la Guerra in Iraq.
Mi riassume in poche parole quel conflitto che qualcuno ha avuto il coraggio di definire "genocidio" e basta farsi un giro sulla pagina wikipedia dedicata e confrontare le perdite nei due schieramenti per trovare conferma di un'avvenuta e perdurante epurazione etnica.
In sostanza, il governo centrale sostiene più o meno apertamente i miliziani che si sono guadagnati il nome di "demoni a cavallo", affinchè la popolazione agricola dell'Ovest del paese smetta di vantare pretese sulle sue legittime risorse, da decenni trasportate a Nord per arricchire i potenti del Paese.
Il campo profughi è l'ultimo baluardo a difesa di questo popolo oppresso che, "Inshallah" - "se dio vuole", un giorno sarà uno stato indipendente.
Sono dieci anni che Othman viaggia e si è fermato solo un anno fa, quando è arrivato in Giordania con un visto per cure mediche. Eppure, nonostante lavori e faccia il volontario in varie associazioni, i suoi piedi fremono, perchè sa di non essere arrivato dove avrebbe voluto.
"I gave up", mi dice ridendo di se stesso. Mi sono arreso.
Mentre racconta le tappe del suo viaggio, provo a quantificare il peso di tutti quei dinieghi, di tutti quei fallimenti, di tutti quei sogni infranti, ma non trovo un'unità di misura.
E' partito per l'Egitto dopo aver messo via un po' di soldi lavorando qualche anno a Khartoum e lasciando i 3 fratelli e le 5 sorelle carichi di speranze e preoccupazioni nel campo, ad accudire i genitori.
Se sono dieci anni che viaggia, sono dieci anni che Othman è solo.
Arrivato in Egitto, prova a imbarcarsi su un traghetto per l'Italia, ma la polizia li intercetta e non c'è possibilità di scappare. Mi racconta, ancora incredulo, che quella è stata l'unica volta in cui non è riuscito a scappare dalla polizia: in mezzo al mare, nell'oscurità, le sirene che lanciano l'allarme ad annunciare l'inizio della fine del suo primo tentativo.
Insieme ad altre 40 persone, trascorre i 45 giorni successivi nella cella di un carcere, senza mai uscirne, senza mai davvero dormire, senza mai davvero mangiare. "Ci portavano un solo pasto al giorno e non gli egiziani, ma le Nazioni Unite".
Quando esce di lì, se non teme di essere pazzo, è sicuro di essere cieco: l'unica cosa che vede è un aereo pronto a riportarlo in Sudan e un timbro di espulsione sul suo passaporto per i successivi 5 anni.
Ci riprova, questa volta attraverso la Libia: cinque volte si imbarca per arrivare in Italia, cinque volte lo riportano indietro. Cinque volte prepara la partenza nel buio del suo rifugio, dove sta barricato coi suoi compagni per evitare che qualcuno li trovi, li denunci, li ricatti, li torturi, li uccida.
E se scampa ai libici delle coste, non gli saranno d'aiuto le gambe veloci e il fisico dinoccolato per fuggire alle milizie del deserto. Proprio mentre pensava che il suo piano di rientro e il suo arrendersi definitivo gli avrebbero garantito il ritorno dalla sua famiglia, proprio mentre cedeva al sogno di una vita migliore sventolando in aria tutte le sue speranze a mo' di bandiera bianca, veniva bloccato nel deserto, al confine, a due passi dall'unico paese che gli sarà mai concesso di chiamare "casa".
I libici lo torturano e gli rompono le gambe, per l'unica colpa di non avere niente con sè da saccheggiare per ripagare il transito illecito in quella terra fuori controllo.
Miracolosamente, riesce a rientrare in Sudan e nella mostruosità di quell'atto subito, mentre guarisce e riprende le forze, riesce a scorgere una luce sotto cumuli di fallimenti e sconfitte.
E' così, con un visto per cure mediche, che arriva in Giordania, l'orgogliosa meta del turismo medico del Medio Oriente e del Maghreb.
Questa volta, arriva via aereo e sulle sue gambe piagate in eterno, raggiunge l'UNHCR, dove chiede l'asilo. I libici, nella bestialità della loro "punizione", gli avevano reso un servizio inconfutabile...
 E' un anno che Othman è in Giordania: in questo tempo ha studiato e lavorato. E' passato dal vivere solo in un'umida stanza di Jabal Amman, a condividere la casa dove, coi suoi amici somali, eritrei ed etiopi, abbiamo festeggiato il suo compleanno.
Soprattutto, non ha mai smesso di sperare, nemmeno per un giorno, di raggiungere i suoi compagni di viaggio, i tanti che sono riusciti ad andare avanti e che ora gli scrivono da qualche parte d'Europa. 
Ogni giorno, Othman si sveglia e spera che qualcuno lo venga a trovare e gli dica che un piano di ricollocamento è pronto per lui. Per lui, l'importante è muoversi, è andare.
Nel mio stordimento, credo di aver chiara solo una cosa: Othman non si è mai arreso, e mai si arrenderà.
Sapere che la forza con cui mi racconta la sua storia è la stessa che gli ha permesso di avere tante volte salva la vita, mi fa sentire grata e fortunata per questo incontro. Qualcosa mi dice che se fosse riuscito ad approdare sulle nostre coste, ci saremmo incontrati anche in Italia.

Il nome di Othman è stato modificato a scopo di tutela per la sua storia.

domenica 16 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXIII: Skateboarding in Amman


E' sabato sera e il sole splende e via via si dirada dietro le colline di Amman, come a chiudere definitivamente la settimana. Ma c'è ancora tempo... 

C'è tempo per giocare e per competere...


C'è tempo per chiacchierare, un occhio verso i figli che giocano lontano...


C'è un tempo per i discorsi importanti...


e un tempo per prendersi la mano...


C'è un tempo per volare, sfrecciando lontano...




e un tempo per realizzare che non ti puoi più fermare...


c'è un tempo per le sfide...



e uno per consumare le ultime energie.


C'è un tempo per ogni cosa, e per ognuno.


ma soprattutto, c'è un tempo per ammirare, e per costruire i piccoli sogni che ti porteranno lontano...


un progetto di Sawiyan --> https://sawiyan.org/

martedì 11 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XVIII: ricollocarsi in un mondo che non ti vuole. Profughi da decenni, in attesa da una vita.

Lei è Faiza e fa parte dei circa 800 rifugiati Somali che "vivono" in Giordania. 


Nel 2017, lei e la sua famiglia hanno ottenuto il resettlement [ricollocamento] negli Stati Uniti: in parole povere, il diritto, in quando rifugiati, di trasferirsi oltre Oceano per iniziare una nuova vita, alla ricerca di una terra più fertile di occasioni e speranze.
Ve lo ricordate il Travel Ban? All'inizio del 2017 il Presidente Trump ha bandito l'ingresso nel "suo" paese a cittadini Somali, Libici, Siriani, Yemeniti, Iraniani, Iracheni e Sudanesi, per almeno 90 giorni. 
Egli ha fatto di tutto - o forse no? - per nascondere all'opinione pubblica che si trattasse di un "Muslim ban", adombrando l'ordine esecutivo sotto la gloriosa dizione "Protecting the Nation from Foreign Terrorist Entry into the United States": proteggere la Nazione dell'ingresso di terroristi stranieri negli Stati Uniti.
Tra i numerosi risvolti di questo provvedimento, quello di cui mi interessa parlarvi oggi è la "temporanea sospensione" dell'accoglienza di rifugiati e del loro ricollocamento sul suolo americano. Pare che molti di loro abbiano approfittato del ricollocamento per infiltrarsi come terroristi:

Terrorist groups have sought to infiltrate several nations through refugee programs. Accordingly, I temporarily suspended the USRAP [United States Refugee Admissions Program] pending a review of our procedures for screening and vetting refugees.

Caro Trump, quelli che tu, per precauzione, definisci terroristi, sono profughi in fuga da decenni, nel caso dei Somali che ho avuto la fortuna di incontrare, almeno dalla caduta di Siad Barre, che ha gettato la Somalia nel caos. 
La maggioranza è salpata da Bosaso (la Tripoli della Somalia) per attraversare il golfo di Aden e rifugiarsi in Yemen.
hrw.org

Poi la guerra è arrivata anche in Yemen, e allora sono ripartiti per arrivare fin qui.
Hanno vissuto anni nell'indigenza sopravvivendo al caro vita giordano coi 270 dinari che gli passa l'UNHCR - circa 330 euro - al mese, indipendentemente da quanto sia grande la famiglia.
Poi, un giorno, qualcuno ha bussato alla porta e con un foglio in mano ha spiegato loro che erano stati accettati per un piano di resettlement/ricollocamento: sarebbero finalmente partiti, in condizioni di sicurezza - niente barche o traversate desertiche - per un porto sicuro: l'America.
Nella casa di Faiza si placa la gioia e l'incredulità e si agisce razionalmente, preparando i sette figli alla partenza. Faiza ha solo 2 anni, non può capire: ma è felice perché finalmente vede la mamma sorridere e non arrovellarsi nei pensieri, vede il papà riprendere le forze che gli sono state prosciugate in anni di inedia forzata.
Anche la loro povera, umile e umida casa sembra trasformarsi in una pista di decollo, l'ultimo rifugio prima della tranquillità.
Cinque fratellini di Faiza vanno a scuola e oggi hanno un modo per difendersi da chi li chiama Abeed - عبد, schiavi negri: "noi partiamo, andiamo in America!". E tutte le offese, le discriminazioni, gli assoggettamento vissuti negli anni sembrano farsi piccoli di fronte a un sogno così grande che si avvera.
Poi, un giorno, chi ha la (s)fortuna di avere una TV o una radio in casa, comincia a riferire qualcosa... Le notizie scorrono e si sente parlare di terroristi, di terroristi musulmani e anche di Somali esclusi dall'America.
La famiglia di Faiza non ci crede, non fino a quando qualcuno viene ancora a bussare alla porta e gli dice: "il vostro piano di ricollocamento è saltato, l'America non vi vuole più".
Su quella porta ho trovato Faiza, qualche giorno fa: mi salutava dall'uscio insieme a mamma Mariam, pronta ad accogliermi nella sua casa. Il figlio più grande si muoveva curioso e ascoltava i nostri discorsi con fare responsabile, come solo può essere chi è primo testimone e interprete della sofferenza dei genitori.
Due fratellini dormivano, altri tre erano fuori a giocare a calcio.
Mariam aveva la testa così piena di pensieri che non riusciva a riordinarli per raccontarmi la sua storia, Mohamed giaceva in un angolo, quasi inerte.
L'inerzia della disillusione: una disillusione che colpisce più di un qualsiasi insulto, bastonata, pallottola ricevuta o schivata negli anni. La disillusione di due genitori che si allunga come un'ombra sui figli. Gli stessi figli che raccolgono i cocci dei loro sogni spezzati da stereotipi, razzismo e presupposti neocolonialisti e sovranisti di cui non sono responsabili.
Per fortuna, Faiza gioca e sorride, senza rendersi conto che nessuno si prenderà cura dei suoi sogni.

[per la cronaca antipopulista: è illegale lavorare se sei un rifugiato in Giordania. Chi volesse discutere questo punto può contattarmi per avere maggiori delucidazioni sul significato "pratico" di quell' "illegale"].

mercoledì 5 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XII: Viaggi, porti sicuri e nuove speranze. Il caso dei Somali in Giordania

In Giordania ci sono circa un milione e mezzo di rifugiati Siriani, un terzo dei quali registrati presso l'UNHCR come richiedenti asilo. Il rapporto con la popolazione locale è di circa 89 rifugiati ogni 1000 abitanti. E' cosa nota che la Siria non sia un porto sicuro...
Oltre a loro, ci sono circa 5.000 rifugiati africani, provenienti dal corno d'Africa e dal Sudan.

Foto di Alice Su

Fin dai primi giorni, gironzolando per il lussuoso quartiere di IlWeibedh, mi sono accorta di loro. Come poteva esser altrimenti, dato che qui, nella gloriosa fratellanza panaraba, iraqeni, siriani e palestinesi si adattano a usi e costumi e sono praticamente indistinguibili ai miei occhi.
Lo ammetto: mi sono stupita così tanto di trovarli qui che sono andata un attimo a vedere sulla carta geografica il viaggio che devono aver fatto per arrivare in Giordania.

khartoumprocess.net

Non sono riuscita a trovare una mappa specifica, ma in cuor mio spero che facciate un pensierino su tutte le freccette che vedete, giusto per avere una visione un po' più ampia del fenomeno.
Ecco: ora cercate Jordan. Non è difficile capire che i più "fortunati" sono gli Yemeniti, che hanno dovuto attraversare "solo" il lussureggiante deserto saudita per arrivare fin qui.
I sudanesi sono quasi tutti profughi del Darfour, a ovest del paese: tutti abbiamo sentito "i bambini dei Darfour", "non siamo mica in Darfour", "la guerra del Darfour": ecco bene, non che si parli ancora di falsi profughi o boiate varie. Loro, se è andata bene, hanno dovuto superare l'Egitto, anch'esso una splendida pianura ricca di delizie, attraversare il Golfo di Aqaba e intrufolarsi in Giordania, curandosi bene di non infastidire Israele.
I Somali, invece, hanno spesso cercato un "porto sicuro" dentro il loro stesso paese, diventando degli IDP - internally displaced people nel Somaliland, uno stato autoproclamatisi indipendente e leggermente meno turbolento della sua terra madre.
E' proprio sui Somali che mi vorrei concentrare per fare quello che ritengo essere un interessante parallelismo con la migrazione contemporanea italiana.
I Somali vivono in guerra dal 1986, cioè dalla morte del Generale Siad Barre che, come potrete capire, dall'alto del suo ruolo non svolgeva certo la funzione del benefattore. Ma che, un po' come il nostro alleato Gheddafi, sapeva tenere in pugno il paese e "calmare" potenziali insorti. A dirla tutta, anche Siad Barre era nostro alleato, dato che considerava la Somalia "la ventunesima regione d'Italia".
Dalla sua morte, si alternano al potere gruppi di rivoltosi, movimenti indipendentisti, fondamentalisti islamici che hanno portato a una crisi umanitaria e a mezzo milione di vittime.
I Somali, che anche loro sono dei veri rifugiati, hanno cercato riparo in Yemen, un paese fragile dal punto di vista politico e religioso, ma che fino al 2015 vantava una certa stabilità. Quando è scoppiata la guerra, non se ne sono andati solo gli Yemeniti ma, ovviamente, anche i nostri affezionati Somali, abituati a cercare una destinazione più sicura. Per essere attuali, un "porto sicuro"...
Porto sicuro, sarebbe bello se questa espressione fosse solo una metafora: e invece no, è proprio di porti navali che parlano Ministri dell'Interno, Presidenti all'Eliseo e tutti gli altri amici della "combricola". E così, pur nel suo significato più autentico e concreto, il "porto sicuro" è solo un concetto vuoto, ma politicamente troppo pesante: una patata bollente che "quelli che stanno in alto" si rimpallano da mesi.
La Libia non è un porto sicuro o almeno: non lo è più. Lo è stata, non senza discriminazioni, assoggettamento e schiavitù, per tanti Subsahariani che fuggivano dai loro paesi in cerca di un futuro migliore. Per chi fuggiva dal Gambia per le sue idee politiche, per i cristiani perseguitati nel Nord della Nigeria, per i Maliani cacciati dagli islamisti. Lo è stato per tutti, anche per chi si è fatto accecare dalle promesse di un Gheddafi braccato nell'embargo e in disperato bisogno di alleati - e di forza lavoro. I negri, e uso questo termine per rivendicare con fierezza la dignità spesso calpestata di queste persone, sono diventati gli schiavi dei libici e per anni sono sopravvissuti, nel bene e nel male, dentro le maglie larghe di una Libia lussuosa.
Ora la Libia non è più un porto sicuro, non lo è più in modo definitivo e per l'intersezione di così tanti fattori che portano a un'unica conclusione: da schiavi a capri espiatori e fonte di lucro.
Così, i negri fuggono e arrivano sulle nostre coste in cerca di un porto sicuro. Riprendono il viaggio, ripartono con la loro sacca vuota di effetti e colma di sofferenza. Arrivano in Europa, così come i loro fratelli Somali arrivano in Giordania, lasciandosi Libia e Yemen alle spalle. Ricominciano il viaggio.
Il viaggio della speranza.
Mi viene un po' di amarezza a pensare che, in questo parallelismo, c'è una cosa che collima più delle altre: Somalia, Libia, ex colonie italiane. Sarà un caso?

"Periodi della mia vita senza una trama precisa

Tempi brillanti in salita, l'ansia della discesa

Ci sono nuove colonne laggiù alla fine del mare

Ci sono spiagge dovunque da cui ricominciare"






Questo post non ha nè pretese scientifiche di indagine dei fenomeni, nè politiche. Ho solo voluto mettere per iscritto una mia suggestione estemporanea e restituire una mia personale interpretazione del fenomeno - validata da certe verità oggettive.