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mercoledì 20 novembre 2019

SCOUSE SCENE: Due settimane dopo... - Two weeks later

IT
(ENG Below)

Sembrerebbe che, in confronto alla Giordania, non abbia proprio nulla da dire...
Che da quando sono a Liverpool non sia successo nulla di significativo, eccitante, memorabile.
Non è così, ovviamente ;-)
Ma mi sento un po' confusa, forse disorientata. E la cosa (sorprendente) è che mi sento più disorientata qui, in una nazione - per il momento, ancora - "europea", di quanto mi sentissi in Medio Oriente....ma questa, è un'altra storia - che tutti già conoscono ;-)
Beh, la prima cosa sorprendente che mi è successa è sicuramente il furto del cellulare, dato che sono riuscita a farmelo rubare nella "civilissima" Inghilterra appena una settimana dopo il mio arrivo! Ma questa è colpa mia, essenzialmente, e sarebbe successo in qualsiasi parte del mondo a qualsiasi tonno - o sardina? - che abbia lasciato il telefono incustodito sul tavolo di un pub di fronte alla stazione...
Sopravvissuta al disagio di tre giorni senza telefono e all'imbarazzo di una email della polizia inglese che mi invita a rassegnarmi al furto - "le videocamere del locale non hanno permesso di identificare il ladro": peccato che abbiano controllato le telecamere del locale sbagliato! - mi ripiglio, trovo una casa, compro una bicicletta, comincio a orientarmi nel campus universitario.
Ci sono alcune cose che mi hanno sorpresa in queste due settimane:
1. Al momento, Liverpool è molto meno piovosa del previsto - saranno queste le ultime parole famose?
Capita spesso che ci siano abbaglianti mezz'ore di sole, in cui tutta la città sembra riacquisire la sua forza e rinvigorire nel (vano) tentativo di scappare dall'umidità. La città resta pur sempre bagnata, perchè quando il sole dà spazio alle nuvole, c'è quella pioggia sottile come spilli che ti lascia nello shakespeariano dilemma "Apro l'ombrello o non apro l'ombrello?". L'ombrello sembra sempre inutile, se non fosse che alla fine ti trovi completamente bagnata. L'ombrello sembra sempre utile, se non fosse che il vento fa il suo giro e lo rende inutilizzabile.
2. Gli inglesi del Nord sono estremamente socievoli - quasi Mediterranei?
Beh, la buona educazione e l'eleganza inglesi sono note a tutti: sono sempre così gentili, composti, misurati... esattamente come noi italiani! Ah, no..
A volte ti chiedi come sia possibile, che questi siano sempre così perfetti e così garbati. Io credo che non sia possibile che lo siano sempre: semplicemente, se sono contrariati o infastiditi, il loro sangue blu li tiene a freno, attiva una procedura di meditazione interna, e alla fine il massimo della loro reazione consiste in una elegante e cerimoniale perifrasi per dirti che hai fatto qualcosa di sbagliato. Insomma, gli inglesi non sono persone molto pratiche ;-)
Tornando all'affabilità, sono molto sorpresa di quanto gli Scousers - termine per indicare gli abitanti di Liverpool - siano aperti e amichevoli. Non è raro essere fermati in mezzo alla strada da qualcuno che, notando che sei nuovo o che stai cercando qualcosa, non solo si ferma ad aiutarti, ma comincia anche a fare conversazione e amicizia.
A quanto pare, c'è una certa rivalità tra Nord e Sud: pare che gli inglesi del Nord siano molto più alla mano di quelli del Sud, più socievoli, meno altolocati, più onesti. Sono capitata nel posto giusto?
3. Il cibo inglese è veramente s... squisitito? No. Saporito? No. Sofisticato? No. Sorprendente? Sì!
Beh, sorprende innanzitutto perchè non esiste. Qual è, esattamente, il cibo inglese? Un inglese ti risponderà che qua le culture sono tutte mischiate e che non c'è un vero e proprio piatto nazionale o qualcosa di tradizionalmente inglese antecedente al flusso migratorio - ti dirà anche che noi Italiani siamo così arroganti, che pensiamo che la pizza e la pasta siano buone solo come le facciamo noi! Beh, si cerca sempre di toglierli dal'imbarazzo e di non svelare loro cosa vuol dire quel "come le facciamo noi"!
4. La città è favolosa, tradizionale, elegante e incredibilmente inglese. Forse questa è la riflessione più profonda di questo stream of consciousness. Quando sono arrivata qui, sono rimasta sorpresa e forse anche un po' angustiata dall'architettura e dal profilo urbano. Tutte queste casette a schiera, colorate, in legno, con 2 mq di giardino intorno. Dico angustiata perchè mi sembrava di stare dentro una storia delle fiabe, in un mondo parallelo, non globalizzato, non modernizzato, non conformato! Sono stata molto ingenua, ma la mia mente cercava palazzi e grattacieli di default. Sono serviti alcuni giorni per accettare che la forma della città è questa, sia nel centro che nei sobborghi, e per apprezzare che in un mondo che si omologa, Liverpool resiste elegantemente!

Così, mi trovo a "biciclettare" tra questi viali alberati, scivolosi per lo strato di foglie spappolate dall'acqua. Ad apprezzare la bellezza di una città - Liverpool è pur sempre la terza città più grande dell'Inghilterra - che non ho ancora ben capito e che non sono sicura di saper descrivere a parole, ma che mi avvolge in un'atmosfera incredibilmente confortante.


ENG

It seems that I have nothing to say, if compared with my first steps in Jordan. That since I am in Liverpool nothing exciting happened. Of course it is not like this ;-)
But I feel a little bit confused, and the surprising thing may be that I feel more disoriented here, in a - lasting - European country, than how I felt in the Middle East. But this is another story, which everyone already knows!
The first surprising thing in which I bumped into was the robbery of my phone, just a week later then my arrival. But this would happen everywhere, if you leave your things unattended in a pub close to the station.
As a surviver, after three days without phone, I got an email from the police which says "the CCTV camera could not help in the identification of the thief": I just gave up, not considering that the police checked the cameras of another pub! 
I found a house, I bought a bike, I am starting orienting myself in the university campus.
There are some things which really surprised me in these two weeks:
1. At the moment, Liverpool does not seem so rainy - the famous last words?
Often there are sunny half-hours, when the city seems to regain power and to dry a bit. The city is still wet, indeed: when clouds come back, a fine slight rain starts and the Shakespear-dilemma is "Should I open the umbrella or no?". The umbrella seems always useless, 'cause it appears to rain slowly: at the end you are completely wet.  The umbrella seems always usefull, but the wind turns it useless again.
2. English from the North are extremely sociable - kind of Mediterreans?
English politeness and elegance are well-known: they are always so kind, composed, formal... as the Italians! ;-)
Sometimes you wonder how this is possible: I think this is not possible: just, if they are upset or disappointed, they engage into a self-meditation. The outcomes is just a long, polite way to tell you that you mistook something. Very practical people ;-)
Then, Scousers - typical name to refer to Liverpool people - are really open and friendly. It is not rare that someone stops you in the middle of the street if they see you are searching for something. They help and they engage in a sociable, funny conversation. Maybe, they ask for your contact ;-)
Seems there is quite a competition between English from the North and English from the South, the first pretending to be more sociable, less posh, more honest. Am I in the right place?
3. English food is...Delicious? Tasty? Surprising?
Yes, Surprising, since it does not exist. Which is the typical English food? An English person would reply that here cultures are so melted and there is no national food - an English would also say that Italians are so arrogant since we pretend to call "pizza" or "pasta" only the ones we made!
4. The city is faboulous, traditional, elegant, extremely English. Maybe this is the most serious thing I am writing out of this stream of consciousness. When I arrived, I was surprised and also a bit anguished by this architecture. All these tiny tight woody houses! Anguished because I was automatically searching for blocks and skyscrapers, I felt to be into a fairy tale, in a not-modern, not -globalized world. 
I have been very naive: after some days I started appreciated the shape of the city and its way to resist - traditionally, proudly, English! - in a world which is conforming.

Thus, I ride the bike in the tree-lined avenues, with a slick layer of melted leafs on the ground trying to kill me. Meanwhile, I appreciate the beauty of a city like Liverpool, which is the third largest of England, but has a conforting atmosphere able to let me feel home.



domenica 25 novembre 2018

SENSI di VIAGGIO XLIX: dell'imprevisto - buono o cattivo - di un viaggio

In questi giorni ho pensato molto al senso dei viaggi e non ho mai trovato una risposta, nonostante abbia fatto di questo proposito il nome della mia rubrica giordana. Sensi di viaggio, appunto.
Anche per questo ho sospeso la scrittura dei post, un po' malinconica, un po' adagiata nello scorrere del tempo, un po' beata nella routine della mia tranquillità giordana.
Quando ho letto di Silvia Romano ho avuto una reazione molto di pancia, un tumulto indescrivibile a metà tra empatia, coraggio e speranza.
Possono esserci milioni di motivi per viaggiare e noi giovani d'oggi, soprattutto se occidentali, abbiamo davvero le ali sotto i piedi: col paradiso del low-cost, con l'inglese come lingua franca, con i nostri passaporti potenti in mano, possiamo scegliere di andare veramente dovunque.
A volte facciamo scelte "main stream", andando in località turistiche "solo" per divertirci, rilassarci, vedere qualcosa di diverso.
A volte facciamo scelte più azzardate, più ricercate, più coraggiose. Decidiamo di uscire davvero, per mesi, dalla nostra comfort zone e immergerci completamente in una realtà altra.
Possono esserci milioni di motivi per viaggiare e ognuno ha dentro di sè il suo groviglio di emozioni, pensieri, frustrazioni, speranze per partire. C'è chi parte per studio, chi per lavoro. C'è chi parte per avventura, chi per fuga, chi per amore. C'è chi parte per un ideale, chi per un suo bisogno di cercare altrove qualcosa che non ha ancora trovato, chi per darsi la possibilità di stupirsi ancora. 
Ed è vero, nessuno ci obbliga a partire - sì, grazie, lo so, potevo stare a casa mia.
E allora ognuno parte, con i suoi sensi di viaggio, sicuro e determinato nelle sue ragioni. Poi approda in un'altra realtà e se è fortunato come lo sono stata io, dimentica tutto: dimentica aspettative, stereotipi, speranze, preoccupazioni e si lascia trascinare. Dimentica pure i sensi del suo viaggio, i sensi della sua partenza. Si lascia trascinare dalla magia del luogo, dai suoi abitanti, dai suoni, a volte troppo rumorosi per la nostra organizzata efficienza europea. Si lascia trascinare dal colore e dal calore delle persone, dall'energia che ti ricarica, dalle emozioni, dalle novità, dallo stupore. E ogni giorno, ogni incontro, ogni novità aggiunge un po' di "senso" a quel viaggio. Un senso insperato, imprevisto, incalcolato. Un senso che scardina tutte le nostre previsioni, tutte le nostre sicurezze, tutte le barriere mentali che ci facevano vedere solo un certo raggio di mondo, solo una fetta di possibilità.
E allora nel viaggiare c'è anche l'imprevisto e l'imprevedibile: c'è anche la possibilità che ti succeda qualcosa di brutto. E la colpa non sarà tua, che sei stata impavida, ingenua, naive. Non sarà tua che hai lasciato la sicurezza della tua casa, l'efficienza della tua nazione, la protezione della tua gendarmeria.
La colpa non è tua, che non hai saputo accontentarti di quello che avevi, che sei andata a cercare te stessa lontano. Non è tua, che ti sei messa in gioco, hai rischiato, hai amato l'imprevisto e l'incertezza.
Silvia Romano non ha nessuna colpa, è stata solo sfortunata. Tutti noi, tutti i giorni, a casa e in viaggio, attraversiamo decine di situazioni di potenziale pericolo. Situazioni in cui basterebbe fare un passo in più, dire una parola di troppo, arrivare in orario, in ritardo, in compagnia o da soli per incontrare qualche pericolo. E non importa quanto sei prudente, quanto sei misurata, quanto precisamente hai calcolato l'imprevisto. Se ti deve succedere, succederà.
Io credo nel destino, credo nella magia - bianca o nera - delle insperate possibilità.
E sono sicura che anche Silvia Romano starà pensando che, malgrado tutto, ne sarà valsa la pena.
Di partire, incontrare, gioire, sperare, rischiare.
Rischiare.
Sono sicura che, più o meno orgogliosamente, sarà fiera della sua scelta e non avrà nulla di cui pentirsi e nulla da rimpiangere. E chissà, forse anche questo rapimento farà parte di tutto quel tumulto di emozioni e di esperienze che si sono costruite piano piano, nel suo personale e ricchissimo "senso di viaggio".



martedì 6 novembre 2018

SENSI di VIAGGIO XLVII: Petra, dall'alba al tramonto

All'alba, dopo forse 4 ore di sonno, siamo di nuovo a Petra. Pochi turisti ciondolando nel siq per raggiungere il tesoro. L'aria fresca del mattino è un pizzicotto sulla pelle, il vento fruscia leggero tra i capelli, unico rumore in quella città ancora incantata. Tra poche ore, migliaia di turisti si riverseranno qui con tutto il loro cicaleccio: ci godiamo quella calma preziosa, soddisfatti per aver accettato il trauma della sveglia.


Sono ancora incredula per la serata precedente, ma in cuor mio so che questo posto ci stupirà anche oggi.
Dovremmo incontrarci con Firas al tesoro, poi proseguiremo per il monastero che sta su un'altura a qualche chilometro di distanza. Mentre lo aspettiamo, un altro beduino ci si avvicina: quando gli diciamo che aspettiamo Firas esclama con sicurezza "è mio cugino, venite, andiamogli incontro".
Prendiamo Bounty, che era stato "preso in prestito" da questo cugino per la notte e ci avviamo verso sud. Firas ci viene incontro sorridente con due cammelli: li fa "sedere", in modo che possiamo salire sul loro dorso. Il cammello ha le gambe così lunghe e così sottili che per inginocchiarsi si lascia cadere sulle ginocchia improvvisamente. Lo stesso quando si rialza, con uno scatto improvviso prima in avanti e poi indietro, nell'alternanza delle sue zampe.


Trotterelliamo con un po' di sana spocchia su quell'animale così esotico e così mitico. Siamo in alto, mentre Firas li conduce con passo svelto camminando.
Percorriamo la via di Petra, il teatro romano a destra, le tombe reali sulla sinistra. Raggiungiamo il grande tempio e le altre rovine romane che giacciono in secoli di storia.


 É ora di cambiare animale, dobbiamo inerpicarci dentro un Wadi - valle - e il cammello non è abbastanza agile. Monica e Bounty, i due muli, sono abituati a portare fino a 400 chili, ma quando vedo quanto è irto, roccioso e pendente il sentiero mi sento male per loro. In più, io e Firas condividiamo il povero Bounty, che si trova così con almeno 150 chili sulle "spalle".
Sinceramente ho paura che il mulo scivoli - in alcuni parti il sentiero è esposto su un precipizio - ma Firas ride e mi rassicura dicendo che i muli sono gli animali più forti di sempre e che non sarò certo io dall'Italia a sfatare il mito.




Mentre saliamo a strattoni e mi reggo alle redini, mi guardo intorno e cerco di fare alcune foto. Siamo tra due muri di roccia, ogni tanto ci sono delle caverne. La gente ci fa capolino, dato che vive qua: è così magico percorrere quel sentiero e vedere le persone che si svegliano e cominciano le loro attività della giornata. Incontriamo soprattutto donne, pronte a sistemare la casa, adempiere alla faccende domestiche e preparare le bancarelle con la merce che cercheranno di vendere ai turisti. Saliamo, saliamo sempre di più: i gradini di roccia sembrano scivolosi e lisi dal passaggio quotidiano di così tante persone, ma i muli procedono sicuri. Non c'è ancora nessun turista qui, davvero possiamo dire di essere i primi della giornata.
Firas non ci dice niente, ma a un certo punto appare sulla sinistra il Monastero: è tanto bello quando il Tesoro, ma ha il fascino delle cose nascoste, segrete. Se ne sta lì, con una specie di piazza davanti, a dominare il Wadi, bastione incontestabile della bellezza di Petra.



Il sole comincia ad essere caldo. C'è una specie di ristorante, ci sediamo, prepariamo la shisha e facciamo colazione con un sandwich di falafel. La bandiera giordana sventola sicura nel vento e la foto del re sta appesa in una grotta: sorride e stupidamente mi viene da sorridergli di riflesso, beata in quel posto solitario e prezioso.


Ci prendiamo un po' di tempo per riposare, nessuno di noi vuole scendere da lì.
Quando decidiamo che è ora di andare, risaliamo in sella a Bounty e Monica: la discesa potrebbe sembrare più spaventosa, ma in realtà mi sono abituata a questa andatura apparentemente precaria.
I turisti cominciano a risalire il sentiero, stanchi. Sono pigramente grata a Firas per averci portati lì col mulo.
Visiteremo il tempio romano, la chiesa bizantina, il teatro romano; mi farò mettere il Kajal direttamente dai beduini, fumeremo un po' di shisha all'ombra di una tenda, guardando i turisti che cominciano ad ingorgare il sito. 



Non vogliamo salutarci, nemmeno se il Wadi Rum ci aspetta, nemmeno se Firas ci invita a tornare tutte le volte che vogliamo. C'è un vento feroce, che alza la sabbia e la getta negli occhi. Trotterelliamo sul mulo verso l'uscita attraverso una via secondaria e rialzata. Ammiro per l'ultima volta la bellezza di Petra coprendomi il viso con la Kefia. Firas mi chiede se va tutto bene: anche se sorrido, sono molto triste di lasciare quel posto. 
Le ultime 20 ore sono state le più assurde, intense, vivaci di tutta la mia permanenza di Giordania.


sabato 3 novembre 2018

SENSI di VIAGGIO XLVI: uscire da Petra, nel silenzio della notte


Scendiamo avvolti dal buio di quella serata magica. Firas e i suoi amici beduini fanno la strada mentre la nostra carovana turistica scende scrupolosa tra le rocce. Uno di loro apre la fila, tiene in mano il cellulare per fare luce con la torcia, dalle tasche della sua farua esce una cassa stereo che gracchia musica disco.
Potremmo pensare che rovini l'atmosfera, ma in realtà serve a darci quel po' di adrenalina necessaria a farci scendere tra quei passaggi di roccia.
Il secondo sta poco più avanti di me e di Firas, a un certo punto sentiamo un fruscio di foglie e non sappiamo come, ma lo vediamo sull'altra parete del piccolo canyon che stiamo scendendo.
Firas ride, capisce che sono shockata da quel balzo nel nulla notturno. "Monkey", scimmia, mi dice.
Quando raggiungiamo il tesoro ci guardiamo tra noi, consapevoli del privilegio di vederlo nella frescura della notte. É sorprendente pensare che sia lo stesso posto che di giorno è gremito di visitatori.
Percorriamo il siq per raggiungere la macchina con cui Faris ci porterà all'uscita. Trotterellando felici nel torpore delle nostre farue, la luna quasi piena a illuminare quel po' di strada deserta.
La "macchina" di Firas è un fuoristrada vecchio di trent'anni. Mi fa salire davanti e con un po' di malizia penso che sia un privilegio: il parabrezza non è più degno di questo nome. La brezza ce l' ho tutta in faccia, dato che è rotto per metà. Mentre Firas guida, mi sorride a 32 denti e mi dice "ultimo modello, fuoristrada con mezzo vetro per ammirare Petra più da vicino".
Percorriamo la strada, sobbalziamo. Gli chiedo di andare più a piano perché l'aria del deserto è davvero fastidiosa. Ma c'è un problema con ciò che rimane della friizione e ingranare le marce è ogni volta una sfida - oltre che un rumore assordante e una puzza di benzina bruciata.
A un certo punto la marcia non entra più, definitivamente più. La jeep comincia a sobbalzare, ad andare a strattoni, fino a spegnersi.
"Gasoline", mi dice. Non ci credo, non può essere finita la benzina. Penso che mi stia prendendo in giro ma capisco che non è così quando comincia a fare una serie di telefonate. Poi mi fa scendere e mi dice "andiamo incontro al mio amico, ci sta portando la benzina". Subito dopo dichiara che sapeva fin da subito di essere a secco ma che "nella loro cultura, i beduini non vogliono mai far vedere di avere un problema, almeno fino a quando non hanno una soluzione".
Lasciamo gli amici in macchina e iniziamo a camminare. Mi giro verso la jeep e l'ultima cosa che vedo spuntare nel buio della notte sono i piedi di uno degli amici di Firas appoggiati sul cruscotto attraverso il vetro.
Comodamente seduto sul sedile, si gode a gambe all'aria la sua sigaretta, facendo tesoro di quel vetro rotto che gli permette di distendersi così.



Io e Firas camminiamo almeno un km, è fresco ma non freddo. A un certo punto vediamo un pick-up scendere dal villaggio e avvicinarsi a noi. 
Prosegue senza caricarci, noi invertiamo la marcia e torniamo sui nostri passi. Quando arriviamo, troviamo uno degli amici di Firas che con una bottiglia fa il "pieno" alla jeep.


Si riparte, con lo stesso vento in faccia, su una strada sempre più dissestata. Quando arriviamo all'ingresso sappiamo di esserci guadagnati qualcosa. Salutiamo Firas, saremo di ritorno di lì a poche ore: vogliamo essere a Petra all'alba.
É quasi mezzanotte ma, una volta in albergo, è veramente difficile dormire.

giovedì 1 novembre 2018

SENSI DI VIAGGIO XLVI: una sera a Petra

Firas arriva a dorso di mulo, scuotendo il suo smartphone e sorridendomi. "Conosci questa ragazza?", mi chiede mostrando una mia foto.


Il nostro amico comune, che sta ad Amman, mi ha messo sotto la sua protezione. Mi abbraccia come se ci conoscessimo da sempre e mi dice che sono la benvenuta. 
Da quel momento la nostra visita a Petra di trasforma da super turistica a un'avventura in pieno stile beduino.
Mi porta sotto le tombe reali, dove c'è la tenda di sua cugina, una donna bellissima che vende artigianato.
Prepara la shisha e il tè, ci sediamo sulle rocce e guardiamo le frotte di turisti assolati da quel punto panoramico.
Mi sento subito a casa in compagnia di quella nuova famiglia beduina che sembra così onorata di conoscermi. In nessun posto, come in Giordania, mi sono resa conto di quanto siano preziosi i legami amicali, le connessioni, le conoscenze. Essere amica di amici è un lasciapassare incredibile. Ieri, mi ha permesso di vivere un'esperienza incredibile che probabilmente non è per tutti i turisti ;-)


Quando Firas valuta che si sia fumato abbastanza, prendiamo Monica e Bounty, i suoi due muli. Siamo diretti al punto panoramico che dà sul famigerato tesoro di Petra. Da lì, potremmo ammirare lo spettacolo di Petra by night, ma soprattutto i milioni di stelle, la brezza del deserto e una quiete irraggiungibile.
Il sole è già calato, subito è buio. Trotterello nel siq a dorso di Bounty, la stretta via tra le rocce spaccate dal vento sembra chiederci di assorbire quel poco di luce rossastra che rimane.
Poi ci arrampichiamo per una via impervia, i pochi turisti rimasti ci guardano stupiti, qualche beduino parla in arabo con Firas: capisco solo che lui garantisce per noi.
É buio, le luci dei cellulari a illuminare quelle rocce scivolose da scalare per raggiungere la cima. Firas sembra poter arrampicare a occhi chiusi, ma è premuroso e mentre regge la pila con una mano, con l'altra ci aiuta nei passaggi difficili.
Nel frattempo, raccoglie la legna per il fuoco.



Quando raggiungiamo il suo posto segreto, non abbiamo parole. Il tesoro si staglia lì sotto, pacifico ma determinato nel suo carico di storia. Sembra che riposi, dopo i 4000 turisti in media per giornata, tutti lì per contemplarlo.
Siamo su delle rocce altissime che si stagliano per chilometri, è impossibile vederne la fine. L'aria è fresca, Faris mi prende per mano e mi porta al limite del precipizio: "do you wanna fly? Jump. But I respect culture, women first" (vuoi volare? salta. Ma io rispetto le tradizioni: prima le donne). Scherza.
Ci sediamo su una roccia, 300 metri sotto i nostri piedi qualcuno comincia ad accendere le candele per lo spettacolo serale. Siamo avvolti in una "farua" - la tipica giacca beduina - e l'aria fresca ci sferza il viso. "Jack Sparrow" mi dice, e mi mette in testa la sua kefia, annodandola al modo beduino e allacciandomi gli estremi davanti alla faccia.
Così, con solo gli occhi a poter contemplare quella meraviglia del creato, li alziamo al cielo. Ci sono milioni di stelle, qualcuna cade sotto i nostri occhi, forse a lanciarci un messaggi.
Mi chiedo quanti desideri possano esprimere i beduini ogni giorno e Firas mi risponde "beduin never gives up" (il beduino non si arrende).
Ci sdraiamo così, su quella roccia levigata, lasciando i piedi penzoloni nel vuoto. 
Non ho idea di quanto tempo sia passato, in quella quiete infinita che ti parla, che ti sussurra nelle orecchie con il vento e che ti punzecchia la pelle con il frescore della notte, ma sei lì e guardi le stelle a cercare qualcuno o qualcosa che non sai.




La cena è quasi pronta, gli amici beduini di Firas ci chiamano: hanno fatto un fuoco e cotto polpette e patate in un cartoccio di stagnola. Fumano la shisha mentre ultimando la cottura. Poi tutti intorno a mangiare dallo stesso piatto pescando quelle polpette speziate con il pane.
É tempo di ballare, i 4 Jack Sparrow si alzano in piedi e iniziano a ciondolare. É il loro modo di ballare la Dabka, la danza tradizionale Giordana. I loro capelli lunghi si muovono sotto le kefie, gli occhi luccicano nell'assenza di luce e il kayal dei loro occhi sembra ancora più forte.
Balliamo, e mi insegnano quei passi cadenzati e pesanti, come a muoversi in una danza senza tempo. Si balla intorno al fuoco fino a quando dal tesoro di Petra cominciano a salire i flauti dello spettacolo serale. Ricomponiamo la quiete, ascoltiamo il liuto che vibra fin lassù.
























Mi sento così, forse felice, forse estasiata, forse non c'è il nome per questa emozione. Sicuramente, avvolta nella mia farua, mi godo quel torpore mentre il cielo mi schiaccia negli occhi milioni di stelle.
Come siamo scesi da lì, come siamo tornati all'uscita, e soprattutto le avventure mattutine di oggi, sono definitivamente un'altra (bellissima) storia.
Ma quella di ieri è stata così speciale, così emozionante, che ancora ho nel cuore un guizzo che sta per scomparire, ma che cerco di trattenere.
A domani, dunque, per il resto del viaggio.

venerdì 26 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLV: storie sudanesi, pt.2

Quando arriva all'aeroporto di Amman, Mohammed indossa solo una maglietta: è febbraio, nevica.
Tra le tante cose che non si aspettava da questo paese, ricorda la neve come quella più assurda di 5 anni in Giordania.
Scende dalla scaletta dell'aereo e respira a pieni polmoni quella libertà e quella sicurezza finalmente raggiunta.
Sale su un taxi e si fa portare in centro città. Il taxista vuole fare conversazione e capendo che è nuovo e disorientato, lo lascia nei pressi di un bar sudanese, in downtown.
"Noi, in quanto comunità sudanese, ci aiutiamo gli uni gli altri". 
É sicuro che lì troverà qualcuno cui affidarsi. "Ehi amico, come stai? Sei appena arrivato? Darfur? Tranquillo amico, vieni a casa mia".
Ali, il suo primo "fratello" sudanese in Giordania, lo porta a casa sua. "Wallahi*, cinque coperte mi ha portato", dice a mo' di battuta ricordando il freddo di quel giorno.
Così, dopo le procedure del caso (UNHCR, registrazione, commissione) comincia a lavorare.
In questi 5 anni a Mohammed ne sono successe veramente di tutte: mentre mi racconta la sua storia con fare concitato non faccio fatica a credere a quello che mi dice. É un ragazzo nerboruto di 25 anni, ha un fare animoso e agitato. É pieno di energie, di forza, di vita. Mentre parla, sembra sempre che le vene del collo siano sul punto di esplodere. Mentre facciamo l'intervista un suo inquilino attraversa la stanza e mi dice "ehi Serena, hai mai incontrato un pazzo del genere in Europa?".
Mh, in effetti no.
Ha una vita da Rambo: ha rischiato di essere deportato in Sudan 3 volte e 3 volte è scappato. Due volte per essere stato "beccato" a lavorare illegalmente, una volta durante la deportazione del 2015.
Mentre parla, si fa beffe dei poliziotti con cui l'ha fatta franca. In effetti, a sentire con quali assurdi stratagemmi è scappato, anche io ho pensato "che poliziotto scemo".
"Solo, usa la tua mente. Non c'è tempo per gli altri, se tua madre è con te e devi metterti in salvo, lascia tua madre e scappa". Mi chiedo cosa abbia passato in Darfur per acquisire questa filosofia di vita, ma del Darfur non vuole parlare, quindi proseguiamo.
Le sue disavventure sono così concatenate che a volte gli sono state d'aiuto le une con le altre.
Ha rischiato di perdere una mano mentre lavorava in una cava, utilizzando un macchinario per tagliare i sassi. I pantaloni si sono incastrati negli ingranaggi e stavano per stritolarlo. Quando il collo era così vicino alla sega, ha avuto l'istinto di spingersi indietro con le mani. É salvo, per questo, ma se l'è vista brutta. 
La mano destra è piena di cicatrici, ma in fondo la muove bene. Dice di essere stato portato subito all'ospedale: i medici parlavano solo inglese e a quel tempo lui non capiva che l'arabo. Una cosa era chiara, se qualcuno non pagava l'operazione, avrebbero amputato. La rete di solidarietà si mobilità, i suoi amici fanno pressione sul capo e lo implorano di pagare. Mohammed è disposto a rinunciare ai 2 mesi di paga arretrata e a denunciare l'accaduto. Chiede solo di essere curato. "Se ti facessi vedere le foto, Wallahi, ma sei una ragazza!". Ride, e scherza sull'accaduto.
Era insieme ai quasi 800 cittadini sudanesi che protestavano fuori da UNHCR in quel capodanno gelato del 2015. Quando la polizia viene a sgomberare - che brividi "politici", questa parola - lui indossa ancora un cumulo di bende. Ha la prontezza di nascondere il suo passaporto lì sotto: mentre i suoi compagni vengono caricati sui bus, con la promessa "you are going to Canada", lui viene fatto aspettare per essere identificato. Nella confusione, nessuno si cura di lui, sale su un'ambulanza, si fa piccolo piccolo e rimane lì, nascosto tra le attrezzature mediche, finché il mezzo non parte, incurante di quella presenza non autorizzata. Dall'ospedale in cui approda, ai margini di Amman, scappa e torna a casa. 
A farsi beffe dei poliziotti, mentre il TG trasmette le immagini di una deportazione tanto controversa quanto ancora irrisolta, che ha visto oltre 700 sudanesi rimpatriati nella terra inospitale da cui erano fuggiti. In barba alla convenzione di Ginevra - che la Giordania, scaltramente, non ha mai ratificato - ai protocolli d'intesa e al sacro santo diritto umani al non refoulement.
Alcuni di loro, mi dice, ora sono in Europa. Altri, sono morti in mezzo al mare. Questa è la meno triste delle ipotesi, perché almeno non sono stati uccisi dalle milizie connazionali che continuano la pulizia etnica del Darfur.
In questi anni Mohammed ha rotto anche una gamba, ha cambiato 32 lavori e avuto mooolto ragazze. Questo, a detta sua. 
Ora si bea di quegli 80 jd che riceve dalle Nazioni Unite per via dell'incidente e vive così, arrotondando con qualche giornata lavorativa al mese.
Nel frattempo, studia inglese e un corso di Social Worker online. Soprattutto, balla come non ci fosse un domani, balla in continuazione, balla intorno al mondo.
Per la sua spavalderia, per il suo cinismo, per la sua apparente freddezza e per il suo forzato distacco dalle cose, per il suo fare un po' cialtrone e per il fatto che non sta mai zitto, si potrebbe odiarlo. 
Ma tutti lo adorano, anche io, anche quando, ogni volta che mi invitano a un party, mi trascina verso il centro della sala e mi obbliga a ballare con lui: "vedi che sono guarito bene?".


* Wallahi: tipica esclamazione araba che significa più o meno "giuro su Allah"

mercoledì 24 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLIV: la Terra Promessa

Possiamo anche professarci atei, ma quando siamo in Medio Oriente è impossibile non subire il fascino del religioso che pervade ogni luogo. Sin dalle mie prime visite "turistiche" in questa nazione, ho realizzato quanta storia sia stata tracciata su questa terra: ma mi sono sentita veramente coinvolta quando ho iniziato a sentir parlare dei Romani e, soprattutto, di storie Cristiane. 
Così, tutte le ore di catechismo e di religione sono tornate alla mia mente e ho cominciato a ricostruire i tasselli di quelle storie bibliche. Mosè, Giovanni Battista e tutti gli altri personaggi che abbiamo sentito citare almeno una volta nella Bibbia mi sono sembrati subito più reali, più veri, più storici, realizzando che - secondo la tradizione! - avrebbero compiuto le loro gesta proprio qua.



Dopo la visita a Madaba abbiamo deciso di portarci fuori città, verso il Monte Nebo: avevamo bisogno di un po' di natura, di un po' di pace dalla città.



Soprattutto, eravamo tutte desiderose di vedere una vista mirabile ma, forse come punizione per una fede troppo labile, il sole era così forte e l'aria così carica di sabbia del deserto, che la Terra promessa abbiamo solo potuto immaginarla.
Mentre ci avviciniamo al monte, la pianura lascia spazio alle colline, la strada le avvolge e dalla carreggiata su cui ci troviamo cominciamo ad ammirare la vallata sottostante e quei cumuli di sabbia che scendono sempre più in basso, sempre più verso il fondo. L'altitudine comincia a calare finchè raggiungerà la depressione del Mar Morto. 
Paghiamo il biglietto ed entriamo al memoriale: anche qui, frotte di turisti. Una chiesa poggia sulla cima del colle, un vialetto alberato vi ci conduce. Ma nessuno vuole restare chiuso tra quelle file di alberi, pur tanto rigogliosi in una terra così arida: i turisti si abbarbicano sui lati del colle, a cercare la vista. 
Raggiungiamo il belvedere: da qui, l'allora 120enne Mosè, ammirò la Terra promessa dopo l'Esodo, senza poterla raggiungere:

"tu morirai sul monte sul quale stai per salire e sarai riunito ai tuoi antenati" [Deuteronomio]


Immaginiamo la Palestina, la Terra Santa, Israele al di là di quella cortina di polvere. Il monumento a Mosè che solleva il serpente dal deserto sembra fare da monito, controllando dall'alto quelle terre che oggi si contendono uno spazio troppo stretto e tanto carico di religioni. Mi piace pensare che voglia mandare un messaggio di speranza, tolleranza, condivisione a quella terra così dilaniata da un conflitto che dura da settant'anni.


Ma il sole comincia a calare e a cadere giù. E' ora di tornare ad Amman.









martedì 23 ottobre 2018

SENSI di VIAGGI XLIII: Madaba e i mosaici bizantini

Vaghiamo per Madaba senza pretese, in un venerdì tranquillo e assolato di inizio autunno. La città è deserta, come solo può essere di venerdì in un paese del Medio Oriente. La gente ancora dorme oppure si aggira rilassata per la città. Non c'è traffico, solo frotte di turisti come noi che vogliono sfruttare il weekend.


Siamo qui per vedere i famosi mosaici bizantini e le chiese della città: un terzo della popolazione è cristiana e i due edifici più importanti sono la Chiesa di San Giorgio e il Santuario della Decapitazione di Giovanni Battista. Sono edifici abbastanza nuovi, il primo ortodosso, il secondo cattolico, costruiti tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo.
Ci stupiamo di vedere così tanti pellegrini, così tanti preti e suore. In un certo senso, ci sentiamo un po' a casa, in questa cittadina a mezz'ora dalla capitale che sembra la riduzione in scala di uno dei nostri centri storici.
Da qui sono passati in molti: una delle 12 tribù di Israele, gli Ammoniti, i Nabatei, i Romani e i Bizantini. Abbandonata per più di 1000 anni dopo un violento terremoto, si è ripopolata poco più di cento anni fa grazie a una comunità di duemila cristiani fuggiti da Karak dopo uno scontro coi musulmani locali.
Nella chiesa di San Giorgio c'è uno dei mosaici più importanti del mondo: la più antica cartina della Palestina - e della Terra Santa - scoperta un po' per caso mentre si scavava tra i resti di una chiesa bizantina per erigere l'attuale chiesa cristiana. Entriamo con religioso silenzio, la chiesa è modesta: cerchiamo il famoso mosaico fino a trovarlo sotto i nostri piedi. E' rimasto ben poco, ma si intuisce la magnificenza di quell'opera originariamente lunga circa 20 metri e composta da 2 milioni di tessere.
Tutta la geografia del Medio Oriente è sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi: le didascalie sono in greco, ma la riproduzione all'ingresso ci ha permesso di orientarci e riconosciamo le città principali: prima fra tutte, Gerusalemme.


 
Proseguiamo un po' a zonzo, tra i negozietti colorati della via principale: i venditori ci guardano, desiderosi di una nostra visita nelle loro botteghe. Scopriremo che sono gli unici personaggi attivi della giornata, considerando che vagheremo per più di un'ora prima di trovare un posto aperto dove mangiare. 
Arriviamo a uno dei due parchi archeologici della città: ci sono un uomo e un bambino ad aspettarci. 


Ci chiedono se abbiamo il Jordan Pass, senza intenzioni di controllarlo. Il bambino prende l'iniziativa e ci porta a fare il tour guidato dell'area, mentre quello che presumiamo essere il padre, giace inerte sulla sedia. E' un parco veramente piccolo, ma ci sono dei mosaici bellissimi su quello che doveva essere il pavimento di una chiesa. Il bambino ha 12 anni, (non) sa una parola di inglese: "come" - "venite". Va velocissimo, ma si ferma a ogni cartello esplicativo per farcelo leggere, certo del nostro interesse. 



Appena togliamo gli occhi dal pannello, inizia a indicare qualche animale tra i mosaici e dice il nome in arabo. Vuole fare una foto, orgoglioso delle sue competenze turistiche; soprattutto, ambisce a quei due dinari che ci ha fatto risparmiare per non averci stampato il biglietto.


Ma il vero gioiello della città è il Santuario di cui sopra - in cui troviamo il Gesù più biondo di tutti i tempi.



Saliamo sul campanile, 100 gradini tra le corde delle campane che oscillano al nostro passaggio. La vista è magnifica, da lì: si vedono i confini della città, l'estendersi infinito del deserto. Non smetterò mai di meravigliarmi di questa assenza di limiti, di spazi incalcolabili, di questa assenza di barriere naturali. Forse, dell'assenza delle Alpi, che anche qui viziano la mia percezione dello spazio.




Respiro a pieni polmoni, l'aria del deserto e il calore di un ottobre ancora gentile. Il muezzin canta il richiamo alla preghiera dalla moschea principale della città. Questo mix di religioni ci stupisce e ci rilassa. Forse, siamo contagiate dalla spiritualità del luogo.
E' così che decidiamo di proseguire e di portarci fuori città, per vedere la Terra Promessa: prendiamo un Taxi per il Monte Nebo, nel nostro risoluto tributo a Mosè.
Ma questa, è la storia di domani ;-)

mercoledì 17 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLII: storie sudanesi


Anche per Aziz è arrivato il giorno del commiato, della partenza, del salvataggio. La sua famiglia ha deciso che non c'è più tempo per metterlo in salvo, raggiunta quell'età pericolosa in cui sei giovane e forte e diventi bersaglio prediletto per le milizie del governo.
I demoni a cavallo, così li chiamano in Darfur, uccidono chiunque possa unirsi ai "ribelli". Ovviamente, non c'è modo di convincerli che loro sono solo una famiglia come tante, dedits all'agricoltura e al commercio su piccola scala.
Aziz parte, con il cuore in gola e con l'unica speranza di rivederli ancora. Con l'unico desiderio che un giorno possa riabbracciare mamma, papà e le sue tre sorelle. Non importa quanto si debba aspettare, l'importante è saperli vivi.
Ad oggi, sono passati dodici anni. Aziz li conta, dal 2006 ad oggi, sulle dita delle mani. Sono troppi, eppure non ha perso la speranza. Per anni non ha avuto loro notizie. Solo quando ha lasciato il Sudan per venire in Giordania, con molti dubbi e con l'unico desiderio di tornare in Darfur anche solo per qualche ora, un lontano cugino lo ha sconsigliato. "La situazione peggiora", dice. Peggiora, peggiorare rispetto a cosa? 
Aziz ha vissuto per otto anni nella periferia di Khartoum. É arrivato nella capitale vagando come un pazzo, senza contatti o persone fidate.
Qualcosa lo ha spinto a rifugiarsi in campagna, ai lati della città.
 Un giorno si sveglia e c'è un uomo che lo chiama, incuriosito da quella presenza ai margini del suo podere. É un contadino, sembra "innocuo", ma Aziz non si fida. Sa bene che il governo ha messo spie in ogni dove per trovare i Darfuriani e continuare il massacro.
Resta sul vago, ma il suo accento è chiaro e teme il peggio. Ma la fortuna vuole che ha incontrato un uomo mite e di cuore: lo porta nella sua fattoria, gli dà da mangiare, gli permette di dormire in un posto coperto.
Aziz è un "omone": fatico a immaginarlo timoroso, spaurito, spaventato. Eppure non ha problemi ad ammettere che per giorni è morto dalla paura, aspettando qualche "ufficiale" del governo che lo uccidesse lì, in quella fattoria ai margini della capitale.
Ma i giorni passano e nessuno arriva. Il buon uomo comincia a sembrargli fidato. Aziz non ha piani, non ha un posto alternativo dove andare nè un lavoro da cui ricominciare.
Così accetta di rimanere e di aiutare quel sudanese "puro", senza geni darfuriani o cristiani, a portare avanti la sua fattoria.
In quegli otto anni imparerà un mestiere, si occuperà delle bestie, della mungitura, del raccolto. Ogni azione gli ricorda i bei tempi in cui, col padre, curava la campagna e poi tornava a casa e trovava la madre intenta a cucinare i prodotti del loro raccolto. Il Darfur era una terra rigogliosa, ricca di acqua e di risorse. La maggior parte della popolazione era ricca rispetto alla media sudanese, ognuno aveva una fattoria, del bestiame, ognuno era impiegato nel commercio su piccola scala. Una terra da depredare, almeno dal colpo di stato del 1989.
In quegli anni Aziz si impegna soprattutto in una missione: dimenticare le sue origini. Ogni giorno pratica il dialetto locale, nella speranza di perdere il suo accento. Ogni giorno impara usi e costumi del posto, cercando di nascondere le sue origini.
Nel frattempo, ha messo via un po' di soldi e decide di iscriversi all'università. Continuerà a lavorare nella fattoria, facendo da "pendolare" tra la campagna e la città.
Il primo giorno di università, un uomo gli si avvicina e gli chiede "ehi amico, da dove vieni?". Aziz ha un tremito. "Da Khartoum". "Da Khartoum? Non sembri di qui! Non assomigli alla gente di Khartoum". "Ma sì, sono di Khartoum, è che vengo dalla campagna". "Ah, dalla campagna, ecco il perché di questo insolito accento". Aziz è conscio che quella possa essere una spia. Sta per mostrargli il passaporto, con il suo nuovo "National number". Ma poi lascia correre, cerca di sembrare disinvolto.
Aziz si è laureato in Business and Administration. Poi è venuto in Giordania, perché la cosa più importante per lui è "connettere le persone, continuare ad avere speranza, dare un senso alla propria vita anche fuori dal Sudan". 
Oggi lavora in una NGO che si occupa di rifugiati. Qualche giorno fa è riuscito a recuperare il numero della sua famiglia, grazie all'incredibile solidarietà africana. La sua famiglia ora vive in un campo profughi in Sudan. Ha parlato con sua madre dopo dodici anni. Mi chiedo come faccia ad essere così forte, così positivo, così grato. Mi chiedo come faccia ad anteporre ancora la speranza alla malinconia, alle preoccupazioni e al dolore. 
Quando arriva a casa mia è voglioso di parlare, è eccitato dall'idea di raccontarmi la sua storia.
Quando finisce di parlare, mi abbraccia e mi dice "I am sorry, this is too much for a girl".
For a girl. 
Attonita, resto lì immobile a cercare di immaginare la sua vita. Nel frattempo, Aziz prepara un tè, in un certo qual modo, mi consola.
Poi sdrammatizza: "sono vivo".

martedì 16 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLI: l'uomo nero, in Giordania.


In Sudan, nell'indifferenza della comunità internazionale, si sta compiendo uno dei più atroci genocidi della storia contemporanea.
Prima di iniziare la mia ricerca in Giordania, non sapevo quasi niente del Darfur. A mala pena sapevo collocarlo sulla mappa e ciò che balzava alla mia mente erano scene di guerra e distruzione che posso aver visto solo in un qualche film - tipo nell'inizio di Blood Diamonds.
Quando ho iniziato a parlare con questi ragazzi, rifugiati in Giordania dal Darfur, ho scoperto tante cose. Soprattutto, ho scoperto che lo scenario che immaginavo è molto peggiore nella realtà.
Ogni giorno spendo ore con questi ragazzi, nelle loro case, al parco, in downtown. Beviamo un goccio di Whisky, andiamo a mangiare uno knafeh e fumiamo qualche sigaretta, anche se è "haram". E parliamo, parliamo, parliamo di sogni infranti e di atroci verità. 
Sono tutti uomini, tutti tra i 20 e i 30 anni, tutti soli. Soprattutto, sono tutti orgogliosamente neri in un mondo che non li vuole.
Io faccio loro qualche domanda per la mia ricerca, ma ogni volta realizzo che è impossibile contenere le loro storie nella rigidità della mia "intervista strutturata".
Allora accendo il registratore, poso la penna e li lascio parlare. Ascolto le loro parole con angoscia e ammirazione per quello che hanno passato e per come sono riusciti a superare quelle difficoltà.
Nel mio cuore sono così grata e cosi stupita che si fidino di me e che mi raccontino vicende tanto personali. Non credo di aver fatto niente per meritarmelo, se non aver mostrato interesse per la loro situazione. Ci sono frasi che mi rimarranno sempre impresse nella mente e so che la narrazione in prima persona incisa sotto forma di note nel mio registratore, è irripetibile.
Sono tutti giovani della mia età, belli, forti, e pieni di vita. Sono tutti giovani della mia età, scappati dai miliziani che li avrebbero reclutati o uccisi.
Chiedo delle loro famiglie e so che quasi sempre scuoteranno la testa e passeranno oltre. C'è chi non sa più niente di loro, chi racconta che solo le donne sono superstiti, chi, con dignitosa rassegnazione, prende su di sé tutte le responsabilità dicendo "noi non ce l'abbiamo con nessuno, è il nostro stesso governo che ci ha uccisi".
Questi ragazzi vogliono solo vivere in pace, dopo che il loro governo ha iniziato a massacrarli in nome di qualche tribalismo. In Giordania affrontano decine di problemi ogni giorno, ma almeno sono al sicuro. E di questa sicurezza sono così grati da non darla mai per scontata.
Attendono ogni giorno una chiamata da UNHCR, sperando di essere stati scelti per il ricollocamento. C'è sempre qualcosa (o qualcuno) che si mette in mezzo, e loro rimangono qui, infangati in una situazione paradossale di sopravvivenza e di attesa.
Molti avrebbero voluto tentare la via della Libia, ma - insha'Allah! - sono stati consigliati verso la Giordania, più facile e sicura da raggiungere. Ognuno di loro ricorda qualche amico che si è perso in mezzo al mare. 
É così che arrivano a chiedermi dall'Italia, e allora divento io il bersaglio dell'intervista. In una delle loro case c'è una grande carta geografica dell'Africa, appesa al muro. Ognuno si avvicina, traccia il suo percorso. Poi tocca a me - perché i ragazzi proprio non si spiegano perché io sia voluta venire in Giordania, se i rifugiati ce li avevo in casa. Allora provo a semplificare: parlo di Lampedusa, dei salvataggi, dei ragazzi come loro che ho incontrato nei CAS e nelle comunità.
Parlo dei miei amici neri che sono in Italia e aspettano, aspettano, aspettano anche loro, ogni giorno, per qualcosa che non si sa se arriverà. E la loro empatia è così forte che sento di essere il loro tramite, sento che vorrebbero connettersi con loro, conoscere le loro storie, confrontarsi su questi percorsi così diversi ma così simili nei motivi della fuga.
Io sto lì, a metà tra lo sfinito e il disilluso, a cercare di dipingere un'Italia che oggi potrebbe essere migliore, ma che, invece, va cercando qualcos'altro. Che si è rassegnata all'odio, alle accuse, alla via facile di un capro espiatorio.
Non me la sento di mentire, di dire che le cose vanno bene, che l'Italia è un posto ospitale. Non me la sento di dire che lì saranno al sicuro, perché ogni giorno c'è un nuovo caso di violenza razziale e un nuovo attacco politico agli "immigrati". Perché ogni giorno noi italiani preferiamo mistificare la realtà e creare un nemico ad hoc per tutti i nostri problemi, piuttosto che uscire dalle nostre case, dai nostri preconcetti, dalle nostre paure e incontrare qualcuno di loro. 
"Portami via, che mi sento di morir". 
Tiro un sospiro di sollievo quando qualcuno mi dice "Io voglio andare in Canada".
Io so di parlare da una posizione privilegiata, so che le mie riflessioni possono sembrare semplicistiche, sentimentalistiche e pure un po' spocchiose. So di avere un passaporto forte e mi muovo disinvolta nei privilegi di questo neocolonialismo, ben conoscendo il trattamento preferenziale riservato agli stranieri d'Occidente.
Eppure, ogni volta che raccolgo una delle loro storie sono grata a me stessa per non essere razzista. Sono grata a me stessa per essermi sempre data la possibilità di incontrarli, di parlare con loro, di accettare il loro cibo, le loro storie, la loro musica. Ogni volta che vado in casa loro e le persone si moltiplicano intorno a me perché vogliono aggiungere un pezzo della loro storia alla mia ricerca, ogni volta che perdo la cognizione del tempo e resto a casa loro fino a tarda sera, ogni volta che mi alzo in piedi e spiego loro l'Europa, i confini, Ventimiglia, Calais e il sistema di Dublino, ogni volta che io, unica donna in mezzo a tanti uomini neri, torno a casa e me ne sto sola, finalmente, nella mia stanzetta, sono grata a me stessa per non aver avuto paura.
É la paura, che ci fotte ed è sulla paura che stanno giocando.
Io non ho paura, e ogni giorno realizzo che non c'è posto più sicuro in Giordania in cui io possa stare delle umili case dei miei amici Sudanesi.
A volte pure io mi meraviglio. Mi meraviglio della loro intelligenza, della loro voglia di studiare, della loro lungimiranza, della loro consapevolezza del mondo.  Mi meraviglio e mi vergogno per come siano consci degli stereotipi che si perpetuano su di loro - primo tra tutti l'idea del maschio nero ipersessualizzato, su cui cercano sempre di sdrammatizzare. In fondo pure io sono preda dei preconcetti e più di una volta ho pensato che fossero ignoranti, semplici, sprovveduti. Ma l'altro giorno un ragazzo mi ha detto "tutti pensano che siamo neri e quindi siamo scemi e, soprattutto, siamo poveri. Come se fossimo nati poveri, come se questa fosse la nostra natura. Nessuno pensa che avevamo una vita normale, prima. Nessuno pensa che avevamo una vita come la loro". Ecco, una vita come la loro, cioè come la nostra. 
La paura di un nero uguale a noi, la paura di un nero che vive come noi, la paura di un nero che ha una vita come la nostra.

Proverò a raccontare qualcuna delle loro storie, nei miei prossimi racconti. Foss'anche solo per dimostrare che quelle di oggi non sono solo delle riflessioni sentimentali ed estemporanee a conseguenza di qualche intervista troppo toccante. Ognuno di loro merita di essere incontrato e ascoltato. C'è sempre qualcosa da imparare, almeno secondo me.