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martedì 16 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLI: l'uomo nero, in Giordania.


In Sudan, nell'indifferenza della comunità internazionale, si sta compiendo uno dei più atroci genocidi della storia contemporanea.
Prima di iniziare la mia ricerca in Giordania, non sapevo quasi niente del Darfur. A mala pena sapevo collocarlo sulla mappa e ciò che balzava alla mia mente erano scene di guerra e distruzione che posso aver visto solo in un qualche film - tipo nell'inizio di Blood Diamonds.
Quando ho iniziato a parlare con questi ragazzi, rifugiati in Giordania dal Darfur, ho scoperto tante cose. Soprattutto, ho scoperto che lo scenario che immaginavo è molto peggiore nella realtà.
Ogni giorno spendo ore con questi ragazzi, nelle loro case, al parco, in downtown. Beviamo un goccio di Whisky, andiamo a mangiare uno knafeh e fumiamo qualche sigaretta, anche se è "haram". E parliamo, parliamo, parliamo di sogni infranti e di atroci verità. 
Sono tutti uomini, tutti tra i 20 e i 30 anni, tutti soli. Soprattutto, sono tutti orgogliosamente neri in un mondo che non li vuole.
Io faccio loro qualche domanda per la mia ricerca, ma ogni volta realizzo che è impossibile contenere le loro storie nella rigidità della mia "intervista strutturata".
Allora accendo il registratore, poso la penna e li lascio parlare. Ascolto le loro parole con angoscia e ammirazione per quello che hanno passato e per come sono riusciti a superare quelle difficoltà.
Nel mio cuore sono così grata e cosi stupita che si fidino di me e che mi raccontino vicende tanto personali. Non credo di aver fatto niente per meritarmelo, se non aver mostrato interesse per la loro situazione. Ci sono frasi che mi rimarranno sempre impresse nella mente e so che la narrazione in prima persona incisa sotto forma di note nel mio registratore, è irripetibile.
Sono tutti giovani della mia età, belli, forti, e pieni di vita. Sono tutti giovani della mia età, scappati dai miliziani che li avrebbero reclutati o uccisi.
Chiedo delle loro famiglie e so che quasi sempre scuoteranno la testa e passeranno oltre. C'è chi non sa più niente di loro, chi racconta che solo le donne sono superstiti, chi, con dignitosa rassegnazione, prende su di sé tutte le responsabilità dicendo "noi non ce l'abbiamo con nessuno, è il nostro stesso governo che ci ha uccisi".
Questi ragazzi vogliono solo vivere in pace, dopo che il loro governo ha iniziato a massacrarli in nome di qualche tribalismo. In Giordania affrontano decine di problemi ogni giorno, ma almeno sono al sicuro. E di questa sicurezza sono così grati da non darla mai per scontata.
Attendono ogni giorno una chiamata da UNHCR, sperando di essere stati scelti per il ricollocamento. C'è sempre qualcosa (o qualcuno) che si mette in mezzo, e loro rimangono qui, infangati in una situazione paradossale di sopravvivenza e di attesa.
Molti avrebbero voluto tentare la via della Libia, ma - insha'Allah! - sono stati consigliati verso la Giordania, più facile e sicura da raggiungere. Ognuno di loro ricorda qualche amico che si è perso in mezzo al mare. 
É così che arrivano a chiedermi dall'Italia, e allora divento io il bersaglio dell'intervista. In una delle loro case c'è una grande carta geografica dell'Africa, appesa al muro. Ognuno si avvicina, traccia il suo percorso. Poi tocca a me - perché i ragazzi proprio non si spiegano perché io sia voluta venire in Giordania, se i rifugiati ce li avevo in casa. Allora provo a semplificare: parlo di Lampedusa, dei salvataggi, dei ragazzi come loro che ho incontrato nei CAS e nelle comunità.
Parlo dei miei amici neri che sono in Italia e aspettano, aspettano, aspettano anche loro, ogni giorno, per qualcosa che non si sa se arriverà. E la loro empatia è così forte che sento di essere il loro tramite, sento che vorrebbero connettersi con loro, conoscere le loro storie, confrontarsi su questi percorsi così diversi ma così simili nei motivi della fuga.
Io sto lì, a metà tra lo sfinito e il disilluso, a cercare di dipingere un'Italia che oggi potrebbe essere migliore, ma che, invece, va cercando qualcos'altro. Che si è rassegnata all'odio, alle accuse, alla via facile di un capro espiatorio.
Non me la sento di mentire, di dire che le cose vanno bene, che l'Italia è un posto ospitale. Non me la sento di dire che lì saranno al sicuro, perché ogni giorno c'è un nuovo caso di violenza razziale e un nuovo attacco politico agli "immigrati". Perché ogni giorno noi italiani preferiamo mistificare la realtà e creare un nemico ad hoc per tutti i nostri problemi, piuttosto che uscire dalle nostre case, dai nostri preconcetti, dalle nostre paure e incontrare qualcuno di loro. 
"Portami via, che mi sento di morir". 
Tiro un sospiro di sollievo quando qualcuno mi dice "Io voglio andare in Canada".
Io so di parlare da una posizione privilegiata, so che le mie riflessioni possono sembrare semplicistiche, sentimentalistiche e pure un po' spocchiose. So di avere un passaporto forte e mi muovo disinvolta nei privilegi di questo neocolonialismo, ben conoscendo il trattamento preferenziale riservato agli stranieri d'Occidente.
Eppure, ogni volta che raccolgo una delle loro storie sono grata a me stessa per non essere razzista. Sono grata a me stessa per essermi sempre data la possibilità di incontrarli, di parlare con loro, di accettare il loro cibo, le loro storie, la loro musica. Ogni volta che vado in casa loro e le persone si moltiplicano intorno a me perché vogliono aggiungere un pezzo della loro storia alla mia ricerca, ogni volta che perdo la cognizione del tempo e resto a casa loro fino a tarda sera, ogni volta che mi alzo in piedi e spiego loro l'Europa, i confini, Ventimiglia, Calais e il sistema di Dublino, ogni volta che io, unica donna in mezzo a tanti uomini neri, torno a casa e me ne sto sola, finalmente, nella mia stanzetta, sono grata a me stessa per non aver avuto paura.
É la paura, che ci fotte ed è sulla paura che stanno giocando.
Io non ho paura, e ogni giorno realizzo che non c'è posto più sicuro in Giordania in cui io possa stare delle umili case dei miei amici Sudanesi.
A volte pure io mi meraviglio. Mi meraviglio della loro intelligenza, della loro voglia di studiare, della loro lungimiranza, della loro consapevolezza del mondo.  Mi meraviglio e mi vergogno per come siano consci degli stereotipi che si perpetuano su di loro - primo tra tutti l'idea del maschio nero ipersessualizzato, su cui cercano sempre di sdrammatizzare. In fondo pure io sono preda dei preconcetti e più di una volta ho pensato che fossero ignoranti, semplici, sprovveduti. Ma l'altro giorno un ragazzo mi ha detto "tutti pensano che siamo neri e quindi siamo scemi e, soprattutto, siamo poveri. Come se fossimo nati poveri, come se questa fosse la nostra natura. Nessuno pensa che avevamo una vita normale, prima. Nessuno pensa che avevamo una vita come la loro". Ecco, una vita come la loro, cioè come la nostra. 
La paura di un nero uguale a noi, la paura di un nero che vive come noi, la paura di un nero che ha una vita come la nostra.

Proverò a raccontare qualcuna delle loro storie, nei miei prossimi racconti. Foss'anche solo per dimostrare che quelle di oggi non sono solo delle riflessioni sentimentali ed estemporanee a conseguenza di qualche intervista troppo toccante. Ognuno di loro merita di essere incontrato e ascoltato. C'è sempre qualcosa da imparare, almeno secondo me.

venerdì 5 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXVI: essere (felice) ostaggio di una famiglia locale

È mooolto difficile che io dica di no a qualcosa, soprattutto quando sono in viaggio. Ma se mi vengono proposti falafel e hummus per colazione scatta la sopravvivenza.
L'amico Giordano che pensava di portare avanti questa idea si è ritrovato spiazzato e dato che venerdì è pure giorno di festa, per un attimo le cose sono sembrate volgere al peggio.
Tuttavia, ha avuto un'idea brillante e insuperabile: portarmi da qualcuno di veramente locale, di fortemente "tipico".
In un posto in cui non avrei rifiutato nessuno tipo di cibo perché troppo estasiata dall'atmosfera e dalla compagnia.
Mi dice solo "ti va di fare colazione all'ultimo piano di questo palazzo?". Nella mia positiva rassegnazione alle sorprese mediorientali, non riesco a fare altro che un mezzo cenno di assenso.
Mentre lui sale convinto le scale, io lo seguo stranita, cominciando a presumere che non si tratti di un locale, ma della casa di qualcuno.
Suoniamo il campanello, lui si nasconde e io rimango come una scema davanti alla porta: una ragazza bellissima esce strillando il suo nome, pur avendo visto solo me.
Credo che, nella sequela di parole successive, l'abbia insultato bonariamente per il suo solito modo scherzoso. 
Mi trascinano dentro, tutti urlano, spuntano un'altra ragazza bellissima, un bambino e una signora che mi sembra subito "un personaggio".
Cominciano a urlare strane cose, ad allungare le vocali in segno (credo) di stupore e meraviglia - non per la sottoscritta, ovviamente: credo piuttosto per l'onore di avere in casa una ragazza straniera.
Mi salutano - mano tesa, bacio guancia sinistra, bacio guancia destra ripetuto 3 volte in modo cazendato - della serie che non sai quando il convenevole mai finirà - e dopo tre secondi già sono diventata "habibi" - حببي amore/tesoro mio.
Portano il cibo per colazione, la shisha e cominciano a ballarmi intorno. Non so come tutto questo sia successo, troppe azioni, troppo veloci, in troppo poco tempo.
Le ragazze mi sciolgono i capelli e cominciano a rigirarseli tra le dita: sono così stupita e felice che non riesco a dire niente, nè a opporre resistenza.
Il mio amico ride a crepapelle e si limita a confortarmi dicendomi "sono pazze".
Molto bene. 
La cosa che ancora non ho detto è che tutto questo succede mentre cerchiamo di fare colazione - santo cappuccio e brioches: le tre donne di casa continuano ad avvicinarmi le cose, come se potessi mangiarle tutte nello stesso momento. Una di loro addirittura decide cosa devo mangiare, facendomi una specie di panino personalizzato. Mi giro e un'altra mi sta letteralmente "ficcando" un intero pomodoro in bocca.
Sto ancora cercando di masticare che arriva la madre e mi solleva dal divano con uno strattone: comincia a ballare e cantare nel salone e ovviamente pretende che io la segua. 
Se c'è stato un attimo di reticenza, le figlie sono subito arrivate (entrambe) a sanarlo, prendendomi per mano e guidando i miei "movimenti".
Ed è così, a capelli sciolti, tra un formaggino fritto e un boccone di olio e za'atar, che sono stata ufficialmente  battezzata (il famoso "battesimo di fuoco") e introdotta nella vita di questa famiglia palestinese.
Così tanto introdotta che ancora ora, abbandonata dal mio amico appena prima di pranzo, sono loro ostaggio - ebbene sì, non mi hanno lasciata andare a casa a dormire!
Un ostaggio attonito e felice, dopo una giornata mangereccia e conviviale, linguisticamente provante nel mio misto inglese/arabo/risata/sorriso/assenso/tentato dissenso - che sempre fallisce perché nulla si può rifiutare.
Dopo molte danze, dopo molte magie, dopo aver letto il futuro in una tazza del caffè, dopo aver espresso desideri con l'acqua della Mecca.
Dopo essere stata sottoposta a dolorosi trattamenti estetici locali, dopo essermi affidata alla medicina tradizionale per curare le punture di zanzara, dopo aver osservato per ore la città dall'alto del colle e dopo essermi accorta che tutto questo è successo in una sola giornata.
Ma non posso che farne una sintesi, perché in mezzo ci sono (molte) altre storie.






lunedì 17 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXIV: Othman e il sogno infranto dell'Europa. Un incontro giordano.

Ci sono viaggi che hanno più senso di altri. 
Tipo quello di  Othman, che di viaggi ne ha fatti tanti, ma nessuno di essi è andato come sperava.
Ieri era il suo compleanno e timido, nella sua camicia bianca, cercava di minimizzarne l'importanza spostando l'attenzione sul fermento dello skatepark.
Scherzando, mi dice che non è un "good mathematician" ma sì, se da ieri ha 26 anni, ha incontrato la guerra quando ne aveva 11.


Lo aiuto nel calcolo e penso a quanto siano vicine le nostre età.
Ha vissuto in un campo profughi da quando ha memoria e in mente ha solo una data: 2003, l'inizio del conflitto in Darfur. Era lo stesso anno in cui le città italiane si riempivano di bandiere della Pace e le nostre menti di apprensioni per la Guerra in Iraq.
Mi riassume in poche parole quel conflitto che qualcuno ha avuto il coraggio di definire "genocidio" e basta farsi un giro sulla pagina wikipedia dedicata e confrontare le perdite nei due schieramenti per trovare conferma di un'avvenuta e perdurante epurazione etnica.
In sostanza, il governo centrale sostiene più o meno apertamente i miliziani che si sono guadagnati il nome di "demoni a cavallo", affinchè la popolazione agricola dell'Ovest del paese smetta di vantare pretese sulle sue legittime risorse, da decenni trasportate a Nord per arricchire i potenti del Paese.
Il campo profughi è l'ultimo baluardo a difesa di questo popolo oppresso che, "Inshallah" - "se dio vuole", un giorno sarà uno stato indipendente.
Sono dieci anni che Othman viaggia e si è fermato solo un anno fa, quando è arrivato in Giordania con un visto per cure mediche. Eppure, nonostante lavori e faccia il volontario in varie associazioni, i suoi piedi fremono, perchè sa di non essere arrivato dove avrebbe voluto.
"I gave up", mi dice ridendo di se stesso. Mi sono arreso.
Mentre racconta le tappe del suo viaggio, provo a quantificare il peso di tutti quei dinieghi, di tutti quei fallimenti, di tutti quei sogni infranti, ma non trovo un'unità di misura.
E' partito per l'Egitto dopo aver messo via un po' di soldi lavorando qualche anno a Khartoum e lasciando i 3 fratelli e le 5 sorelle carichi di speranze e preoccupazioni nel campo, ad accudire i genitori.
Se sono dieci anni che viaggia, sono dieci anni che Othman è solo.
Arrivato in Egitto, prova a imbarcarsi su un traghetto per l'Italia, ma la polizia li intercetta e non c'è possibilità di scappare. Mi racconta, ancora incredulo, che quella è stata l'unica volta in cui non è riuscito a scappare dalla polizia: in mezzo al mare, nell'oscurità, le sirene che lanciano l'allarme ad annunciare l'inizio della fine del suo primo tentativo.
Insieme ad altre 40 persone, trascorre i 45 giorni successivi nella cella di un carcere, senza mai uscirne, senza mai davvero dormire, senza mai davvero mangiare. "Ci portavano un solo pasto al giorno e non gli egiziani, ma le Nazioni Unite".
Quando esce di lì, se non teme di essere pazzo, è sicuro di essere cieco: l'unica cosa che vede è un aereo pronto a riportarlo in Sudan e un timbro di espulsione sul suo passaporto per i successivi 5 anni.
Ci riprova, questa volta attraverso la Libia: cinque volte si imbarca per arrivare in Italia, cinque volte lo riportano indietro. Cinque volte prepara la partenza nel buio del suo rifugio, dove sta barricato coi suoi compagni per evitare che qualcuno li trovi, li denunci, li ricatti, li torturi, li uccida.
E se scampa ai libici delle coste, non gli saranno d'aiuto le gambe veloci e il fisico dinoccolato per fuggire alle milizie del deserto. Proprio mentre pensava che il suo piano di rientro e il suo arrendersi definitivo gli avrebbero garantito il ritorno dalla sua famiglia, proprio mentre cedeva al sogno di una vita migliore sventolando in aria tutte le sue speranze a mo' di bandiera bianca, veniva bloccato nel deserto, al confine, a due passi dall'unico paese che gli sarà mai concesso di chiamare "casa".
I libici lo torturano e gli rompono le gambe, per l'unica colpa di non avere niente con sè da saccheggiare per ripagare il transito illecito in quella terra fuori controllo.
Miracolosamente, riesce a rientrare in Sudan e nella mostruosità di quell'atto subito, mentre guarisce e riprende le forze, riesce a scorgere una luce sotto cumuli di fallimenti e sconfitte.
E' così, con un visto per cure mediche, che arriva in Giordania, l'orgogliosa meta del turismo medico del Medio Oriente e del Maghreb.
Questa volta, arriva via aereo e sulle sue gambe piagate in eterno, raggiunge l'UNHCR, dove chiede l'asilo. I libici, nella bestialità della loro "punizione", gli avevano reso un servizio inconfutabile...
 E' un anno che Othman è in Giordania: in questo tempo ha studiato e lavorato. E' passato dal vivere solo in un'umida stanza di Jabal Amman, a condividere la casa dove, coi suoi amici somali, eritrei ed etiopi, abbiamo festeggiato il suo compleanno.
Soprattutto, non ha mai smesso di sperare, nemmeno per un giorno, di raggiungere i suoi compagni di viaggio, i tanti che sono riusciti ad andare avanti e che ora gli scrivono da qualche parte d'Europa. 
Ogni giorno, Othman si sveglia e spera che qualcuno lo venga a trovare e gli dica che un piano di ricollocamento è pronto per lui. Per lui, l'importante è muoversi, è andare.
Nel mio stordimento, credo di aver chiara solo una cosa: Othman non si è mai arreso, e mai si arrenderà.
Sapere che la forza con cui mi racconta la sua storia è la stessa che gli ha permesso di avere tante volte salva la vita, mi fa sentire grata e fortunata per questo incontro. Qualcosa mi dice che se fosse riuscito ad approdare sulle nostre coste, ci saremmo incontrati anche in Italia.

Il nome di Othman è stato modificato a scopo di tutela per la sua storia.

mercoledì 12 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XIX: gatti, taxi e murales ad Amman, in quantità.

Tra il milione di cose che possono incuriosirti quando passi più di qualche ora ad Amman, ce n'è una che mi assilla da giorni: in questa città, ci sono più gatti, più taxi o più murales?


Il quesito è davvero rilevante, soprattutto se cerchi strenuamente di sopravvivere in qualità di pedone e devi tener conto di queste tre distrazioni che possono facilmente distoglierti dalla tua meta.
Partiamo dai gatti: io credo che questi animali abbiano un nonsochè di universale. Tutte le culture amano i gatti - okay, magari qualcuno può esserne allergico, può averne paura, può odiarne il pelo - ma, in generale, non so di una società che li ripudi apertamente. Spero di non essere contraddetta perchè il mio grande maestro Bruno Munari - sì, lo so, è un po' che non vi parlo di lui 😟 - diceva
che "conoscere i bambini è come conoscere i gatti. Chi non ama i gatti non ama i bambini e non li capisce". Ecco, questo sillogismo è a sostegno della mia tesi, datosi che ogni società che voglia perpetuarsi nel tempo DEVE amare i bambini, e quindi i gatti.

                                         
                                                                                       Il gatto che "fa la pasta" c'è anche ad Amman
Ad Amman, la gente ha paura dei cani - che sono praticamente assenti fatta eccezione per qualche expat-dog di razza che ha varcato il confine e ottenuto il visto insieme al padrone.
I gatti, invece, sono ovunque: in ogni giardino, in ogni vicolo, in ogni via che sia degna di questo nome. 
Purtroppo, il mio romanticismo finisce qui, perchè la loro presenza non è un buon segno. 
Tu stai camminando e all'improvviso vieni spaventata da un rumore molto, molto vicino: ed ecco un gatto che salta fuori da un cassonetto della spazzatura con un osso di pollo tra i denti. Questa è la migliore delle ipotesi, perchè la spazzatura è ovunque ad Amman - non solo nei cassonetti - e questo è un vero peccato oltre che, in certi casi, il vero scempio di una nazione che avrebbe molto da dare in termini naturalistici e artistici.
Ma la spazzatura è ovunque, e i gatti ne sono molto felici. Sono soprattutto felici di spaventare a morte ogni turista saltando fuori dai cassonetti con felicità e prodezza.
Andiamo ai taxi: anche questo non è un buon segno, i taxi sono ovunque ad Amman perchè i trasporti pubblici non sono molto efficienti. In realtà, c'è una fitta rete d'autobus ma credo di aver dedotto che essa è un'esclusiva locale perchè nessun turista ha mai capito da dove partono e, soprattutto, dove arrivano. Se state pensando che io sia incapace, potreste avere ragione, ma comunque "Santa Lonely" aggiunge un motivo in più per non curarsi di loro: "gli autobus sono lenti e poco affidabili".
Per sanare questa falla, i taxisti si sono moltiplicati esponenzialmente, fino a occupare ogni "corner" della città. Fosse solo il fatto che intasano le strade, non sarebbe un grande problema: il disagio che creano al pedone, invece, consiste nel fatto che essi suonano il clacson ad ogni forma vivente che pensano si stia muovendo a poca distanza da loro - quindi, suonano anche ai gatti.
Suonano il clacson, e questo l'ho già raccontato qui, non per salutarti, apprezzarti, segnalarti un pericolo: no, suonano il taxi per chiederti se hai bisogno di un passaggio. Se devi fare un chilometro - secondo la mia modesta opinione questa è la distanza massima che un cittadino occidentale possa sopportare ad Amman - diciamo che verrai "strombazzata" almeno una decina di volte, per una media di 1 clacson ogni 100 metri.
Il fatto è che per i giordani appare inconcepibile che uno possa voler camminare di sua "sponte" e fare tutta questa fatica ingiustificata, quindi anche se rispondi "La - لا" - "No" in arabo, se fai "No" con la testa - che poi, chissà cosa significa scuotere la testa dx-sx-dx-sx in Medio Oriente, se fai oscillare l'indice della mano a mo' di pendolo rovesciato - anche questo gesto ha una dubbia valenza universale - insomma, anche se cerchi in tutti i modi di rifiutare un passaggio, loro ti suonano almeno altre 2 volte, perchè per loro la tua testardaggine è pura follia.
Ho capito che la miglior soluzione è continuare a camminare, senza perdere tempo in gesti e dinieghi, per la serie "non ti curar di loro ma guarda e passa".
Capirete dunque che, per tutti questi attentati alla mia sanità mentale, sto cercando di collezionare prove a favore del fatto che i gatti e i taxi non potranno mai essere tanti quanti i murales che decorano la città. Il peggio che ti possa accadere se incontri un murales è che prendi una storta mentre pretendi di fotografarli camminando per non essere assalita dai taxisti che ti credono esausta e dai gatti che ti credono la mamma. Insomma, niente male.
Questo è il motivo per cui, nel prossimo post, cercherò di mettere insieme quello che ho scoperto sui murales di Amman.

venerdì 31 agosto 2018

SENSI di VIAGGIO VII: le salite di Amman

"Sempre caro mi fu quest'ermo colle"...ehm, no, non esattamente.
Come già annunciato con una rivelazione shock, se in una città ci sono 20 colli e devi spostarti da uno all'altro, non dovrai solo scendere, ma anche e soprattutto salire.
Torniamo dunque alla mia assolata giornata di fine agosto - l'ennesima - per capire cosa succede se, oltre a sfidare la sorte camminando ad Amman, devi pure farlo in salita.
Finalmente giunto al limitare della discesa, il primo shock ce l'hai proprio davanti. Ti stai godendo quella che sembra essere una piazzuola quasi pianeggiante - un po' come quando noi montanari arriviamo finalmente al valico della montagna - e alzi lo sguardo: nella migliore delle ipotesi, ci sono dei gradini. Nella peggiore, la salita sterza subito in una curva a gomito che ti lascia giacere nell'ignoto: in cuor tuo, sai che è meglio, così puoi affrontare un problema alla volta.
Sali, e a consolarti ci sono solo i taxi che fanno fatica anche loro - ve l'ho detto, il cambio automatico è maledetto. E' caldo, "come in tutto il Medio Oriente", direte voi. In realtà, il clima ad Amman è piacevole perché è sempre ventilato, ma di certo tra i due muri di case che fiancheggiano la salita al colle non passa nemmeno un rivolo di vento. Non serve certo un urbanista per capire che, per rendere le strade più pianeggianti (???), gli Ammaniti le hanno costruite come serpentoni snodati parallelamente gli uni agli altri lungo tutta l'ampiezza del colle. Insomma, per farla breve, se anche ci fosse della brezza che scende dalla montagna, non filtra perchè le case fanno da barriera. Ovviamente, questo crea anche un altro inconveniente: le distanze si allungano di molto e anche se ti sembra di essere vicino a un posto, in realtà devi circumnavigare concentricamente il quartiere ancora per molti metri, prima di arrivarci.
A volte, a salvarti, ci sono delle scalinate magnifiche che tagliano i livelli, ma hanno una media di 100 scalini l'una.
Puoi anche fermarti a fare una pausa: io l'ho fatto solo una volta, per fare una foto al panorama. Un taxista, conoscendo la vanità tipica di noi occidentali, mi ha notata e ha insistito per farmela lui, la foto. Peccato che ho dovuto portargli il cellulare, perchè nella sua tranquillità mediorientale, se ne stava in panciolle dentro il suo taxi e sembrava molto eloquente nel farmi capire che non si sarebbe mosso di un cm - che poi, io la foto non la volevo nemmeno.
Le macchine, le bici e tutte le altre forme di disturbo al tuo arrancare si mischiano alla sopracitata calura. Ho l'impressione che qui il sole "picchi" ancora più forte - e forse non è un'impressione, ma una verità scientifica, dato che siamo più vicini all'equatore almeno di un parallelo.
Comincio ad avere le visioni, come per le oasi nel deserto: ho l'impressione che le case mi sorridano. 
Forse anche questa non è un'impressione, ma una verità scientifica 😏. Tutto può succedere ad Amman.

mercoledì 29 agosto 2018

SENSI di VIAGGIO V: i bambini di Amman

Una voce mi chiama: "Hey, how are you?". Alzo lo sguardo, due minuscoli piedi penzolano da un terrazzo e mi salutano, ciondolando. Poi spunta la faccia di una bambina, che mi sorride e sembra prendersi gioco di me da quella insolita posizione di saluto. 
Dalla Cittadella, sto camminando in discesa verso l'Anfiteatro Romano ed è la prima volta che mi aggiro da sola per le strade di Amman. Difficile passare inosservata, anche se pensavo di essermi "mimetizzata" col mio assurdo turbante in testa. 
Ho l'impressione che tutte le persone che incontro mi guardino con curiosità, ma poi sorridono e così sono a mio agio anche io. Un uomo seduto fuori da una macelleria esordisce con un "long way, eh?", mi chiedo se sembro davvero così affaticata e fiaccata dal caldo.
La visuale da questo quartiere è avvolgente: ho la cittadella alle spalle e l'anfiteatro proprio di fronte, che con la sua forma ellittica cattura i miei occhi come nel gioco del Flipper. Uno stormo di uccelli mi distrae dal vortice, rimango incantata a guardare il panorama; nel frattempo, tutti i sensi si risvegliano, tra suoni, colori e una luce accecante che sembra volermi inchiodare su questo angolo di pianeta.


Le vie sono sconnesse, cammino in mezzo alla strada: una bambina dai capelli rossi mi saluta, se ne sta dietro l'inferriata di una finestra e mi chiede "Where are you from?". Fatico a credere che sia giordana, con quei capelli e la carnagione bianca come il latte. Invece sì, "I am Jordanian", afferma con aria timida ma risoluta. Una bambina più spavalda mi si piazza davanti, forse gelosa della sua amica alla finestra, vuole a tutti i costi dirmi il suo nome, "Lian", palesemente incurante di sentire il mio.
All'inizio dell'ennesima irta discesa,un gruppo di ragazzini mi viene incontro: il più piccolo di tutti, con aria spavalda, "one JD, please", vuole un dinaro giordano, e senza nemmeno presentarsi ;-)
Rispondo che non ne ho, ma stanno già camminando lontano.
In una piazzetta che si affaccia a mo' di balcone sulla città, quattro bambini giocano a calcio: la palla scappa e mentre uno di loro va a recuperarla, un altro mi sorride e dice "Welcome to Jordan!"



Finalmente arrivo all'anfiteatro, ma decido di non visitarlo. Sono cotta dal sole e preferisco respirare un po' di quest'atmosfera da "dopo-lavoro" che racchiude nella piazza antistante famiglie, gruppi di amiche e bambini, molti bambini.
Sembra il posto perfetto per ogni tipo di attività: qualcuno fa lunghe telefonate guardandosi intorno, le donne chiacchierano rumorose, ci sono delle ragazzine che vanno all'impazzata sui roller sfidando non solo la gravità, ma la tenuta di una pavimentazione che non sembra fatta apposta per loro.
Alcuni ragazzini vendono acqua ai margini della piazza, sembrano molto indaffarati e responsabili di questa danarosa attività per turisti 😉




Soprattutto, si gioca a calcio - come in ogni angolo del pianeta che si rispetti - e la palla è l'unica cosa che conta...I bambini la inseguono, incuranti dei turisti e dei passanti che vogliono attraversare la piazza per raggiungere l'ingresso del Foro. Andranno avanti molto, io mi siedo su una gradinata e li osservo, assorbo la loro energia nel turbinare degli schiamazzi. Respiro a pieni polmoni, incamero luci, colori e vitalità di una giornata che, pur al tramonto, sembra avere in serbo ancora molto per tutti gli abitanti di Amman.


martedì 28 agosto 2018

SENSI di VIAGGIO IV: tutti i nomi di Amman

L'arrivo a Jabal ElQala'a - جبل القلعه - è "stunning", come dicono gli inglesi: stupefacente. Questo è il colle più alto di Amman - 850 m s.l.m - e i miei propositi di venirci a piedi naufragano semplicemente leggendo la Lonely Planet: "la strada è in salita, all'andata sarebbe meglio prendere un taxi". Cedo.
Inerpicandoci sulla strada, la ripresa della macchina è lenta - maledetto cambio automatico! - ma la fatica del motore mi consente di guardarmi intorno e la mia vista si allunga man mano, a cercare il limitare di una città infinita: i colli si susseguono senza fine.
Ma lo spettacolo turistico è alle mie spalle e me ne accorgo solo quando, a spezzare l'atmosfera arsa dalla calura e da una luce accecante, il canto del muezzin mi invita a girarmiWadi Al Hidada - وادي الحدادة - è lo sfoggio di un nazionalismo che non teme rivali ALIAS la bandiera più alta al mondo. Impossibile non vederla: se ne sta lì dal 2003 e i colori sono così brillanti che mi convinco la cambino ogni giorno, se non fosse che è lunga 30 metri e si erge su un pilone di 126.8 metri.
I taxisti assolati in attesa dei turisti si stupiscono del mio stupore e ridono, offrendosi di farmi una foto.

             
     

L'enorme bandiera ha fatto cadere anche me, come tutti i turisti, nella morsa di un panorama mozzafiato, da cui è difficile staccarsi; ma come avevo anticipato sul tramonto del giorno passato, la mia destinazione è un'altra: la Cittadella.

Come tutte le cittadelle, è facile capire che questa è la parte più antica della città, ma ad Amman la Cittadella mi incuriosisce per un altro motivo: ha cambiato nome almeno 4 volte, nella sua pur breve storia - pare sia stata fondata nel 1800 a.C. - perchè è stata invasa e conquistata da tutti i principali popoli della Storia, insomma, da tutti quelli che compaiono nella storia scolastica ;-)
Eppure, la cosa mi fa sorridere: quante volte in questi mesi ho dovuto localizzare, a chi mi chiedeva la mia prossima destinazione, non solo Amman, ma proprio tutto lo Stato Nazione - sconosciuto ai più?

lunedì 27 agosto 2018

SENSI di VIAGGIO III: day 1 a JABAL el WEIBDEH

La bolla, quella fatta scoppiare dai taxisti molesti, torna ad avvolgermi non appena poggio le valigie e trovo un letto fatto ad aspettarmi.
Chiudo gli occhi e tutti i rumori della giornata cominciano a suonare all'impazzata dentro la mia testa, una cacofonia circolare che sembra non trovare fine. Eppure, in qualche modo, so che per trovare finalmente pace devo riesumare tutti i caos della giornata appena trascorsa: clacson nel traffico di una Valtellina congestionata, ultime parole di saluto e qualche lacrima che fa rumore pure lei. Annunci all'aeroporto, gate che cambiano, ritardi annunciati. Bambini urlanti nel maledetto destino dei posti assegnati, accenti napoletani che si stagliano nella confusione. Metal detector, "water no, lady, water no" degli addetti aeroportuali, "passport!", "glasses-off-please" allo scanner per il visto.
Capite che il silenzio di un'enorme casa vuota, tutta per te, fa più rumore di tutto questo.
Finalmente il cervello, o quello che ne rimane, trova pace. Nel torpore di un sonno tanto desiderato, nella rassicurante morbidezza di un letto che si sostituisce ai sedili dell'aereo, il relax....
e invece no! perchè puntuale come un orologio svizzero - l'unica cosa svizzera che possa esserci in questo paese - il muezzin canta il richiamo delle 5.
Mi giro e rigiro, ormai è mattina e la luce comincia a filtrare dalle tende. Inizia così l'Odissea di un sonno spezzato.
Entro nella vita vera che è già mezzogiorno.
Jabal ElWeibedh - colle ElWeibedh, جبل الويبة - è parecchio accogliente e in cuor mio so che posso farmi vanto del fatto che questa sarà la mia casa per i prossimi tre mesi: negozietti, locali, ristoranti...molto vivo.
E' un quartiere centrale, pieno di stranieri - o di expat? - che ha ceduto anch'esso, come quasi tutta la città, alle mode occidentali - sulla facciata del palazzo di fronte campeggia l'insegna "UBER", al primo incrocio c'è un sushi e poco più avanti un supermarket gigante. Tuttavia, mantiene architettura, usanze e "schiamazzi" tipici del luogo, perchè i locali che sono nati qui resistono e non cercano certo di mimetizzarsi.
La mia traversa è quasi tranquilla - questo perchè il resto della città è congestionato dal traffico - e i marciapiedi sono mediamente "invitanti". Nella traversa successiva, c'è la rassicurante ambasciata italiana ;-)
Basta fare un giretto nei dintorni per comprendere che Amman è tutt'altro che un posto facile in cui muoversi: come Roma, fu costruita intorno a sette colli, anche se oggi ne ha inglobati più di 20. Così, è tutto subito un sali scendi di vicoli e scalinate.
Le mie colonne di Ercole, per oggi, sono state Paris Circle -"duar Paris", دوار باريس  - una rotonda al limitare del colle che sarà il mio punto di riferimento nei prossimi mesi. Più che il mio, quello dei taxisti, dato che i nomi delle vie sono stati introdotti poco tempo fa e nessuno li conosce!
Da qui, tuttavia, si gode di una vista mozzafiato sulla città e sui colli che mi trovo di fronte. Una distesa infinita di edifici color avorio si susseguono ininterrotti fino allo stagliarsi delle rovine della Cittadella: faccio qualche foto e medito sul percorso. Quella sarà la prima meta per esplorare la città. Domani, perchè le ombre già si distendono e i bambini giocano a Duar Paris.



*** Il mio diario, sempre che riuscirò a scriverlo con una frequenza decente anche quando l'entusiasmo dell'arrivo sarà scemato, sarà sempre sfalsato di un giorno indietro. Questo per spiegare, a chi mi segue su altri social, la discrepanza di attività 😊




domenica 26 agosto 2018

SENSI di VIAGGIO II: Arrivo ad Amman

Taxi, t-a-x-i, T-A-X-Y!
Il mio arrivo ad Amman è un po' traumatico: sono le 2 di notte (o del mattino?) e mi sento in una bolla. Sull'aereo Atene-Amman mi sono addormentata come il 90% dei passeggeri e anche se l'atterraggio è stato soffice e dolce, il risveglio è traumatico - forse che, dopo anni di Ryanair, lo shock sia stato proprio dato da un atterraggio così silenzioso?
Devo ancora recuperare le valigie - sì perché, a proposito di Ryanair, ad Atene mi hanno imbarcato anche il bagaglio a mano: il volo era pieno.
Ma prima devo fare il visto: una proforma, eppure l'agente di polizia che ti registra - si, registra: nome, cognome, passaporto, indirizzo di residenza in Giordania - non è esattamente la prima persona con cui vorresti avere a che fare in un nuovo paese.
La parte più difficile, però, è lo scanner dell'iride (almeno, questo penso che fosse dato che non riuscivo nemmeno a tenere gli occhi aperti).
Timbro, francobollo and Welcome to the Hashemite Kingdom of Jordan.

 Taxi, t-a-x-i, T-A-X-Y! è la sequenza di suoni che mi catapulta nella realtà.
I driver che si accalcano per strappare una corsa fino in città fanno scoppiare la bolla in cui la stanchezza mi chiude. 
Sento come un BOOM interiore: sono arrivata, finalmente.
Il mio driver mi individua e si fa avanti per sottrarmi alla mischia dei suoi colleghi.
Fuori dall'aeroporto l'aria è frizzantina, niente a che vedere con le aspettative da deserto.
Salgo sulla Toyota Corolla - basterà il secondo giorno per capire che questa è la vettura nazionale - e via.
Ora ho gli occhi giganteschi, come quelli di un gatto al buio. La terra che mi accoglie è una distesa immensa, illuminata dalla luna piena. 
Le autostrade sono enormi strade a 4 corsie, illuminate a giorno. Ai lati, ogni tot di chilometri, sventolato le bandiere della Monarchia Hashemita: sono sempre 7 o 8, in fila, nel caso non dovessi notarne solo una...
Mezz'ora, poi individuo Amman, sparsa a vista d'occhio nelle sue luci arancio che vedevo dall'aereo. 
Il sogno, forse, comincia a farsi realtà. Eppure ora sono sveglia, anzi, sveglissima.

www.citiestips.com

venerdì 24 agosto 2018

SENSI di VIAGGIO I - Prepararsi alla partenza

"Pensare il viaggio significa veder scorrere davanti al proprio occhio interiore una metafora di paesaggio. Stando fermi, come davanti a uno schermo. Si è registi e spettatori di quel viaggio, non attori. Spostarsi fisicamente, questo fa la differenza" - Marco Aime, Sensi di Viaggio.

 Chi mi conosce sa, forse suo malgrado, che è veramente tanto tempo che pianifico questo viaggio, sicuramente da più di un anno. Eppure, in questi giorni di concitazione e paure, mi è capitato più volte di faticare a trovare un senso, anche uno solo.
La paura dell'ignoto ha sempre una forza annientante, pur nella consapevolezza di aver preparato tutto nei minimi dettagli; così, mi sono ritrovata incredula a pensare alla partenza, a realizzare che fosse così vicina, vera e concreta.
Allora ho fatto un respiro profondo, ho provato ad annullare tutto e a partire con un viaggio interiore alla ricerca dei "sensi" che in questi anni si sono accumulati per costruire questa partenza.
 E' molto lontano il primo ricordo che ho di aver pensato che la Giordania mi ispirava molto come paese: sicuramente avrò visto qualche documentario su Petra e ne sarò rimasta affascinata. - senso di viaggio n°1.
 Poi lo studio dell'Arabo e l'avvicinarsi con libri, lezioni e incontri alla cultura di quell'angolo di mondo, con l'inevitabile pulsione interna di andarci per davvero - senso di viaggio n°2.
 Quando mi sono iscritta alla magistrale ho subito pensato che mi sarebbe piaciuto partire ancora, ma questa volta per andare in un posto davvero diverso: in fondo, l'antropologo ha bisogno di stupirsi e di rimanere anche un po' disorientato se vuole fare davvero il suo lavoro, che poi si riduce a generare tante domande e a trovare almeno qualche risposta - senso di viaggio n°3.
 Un po' per esclusione di paesi geopoliticamente bollenti, un po' sull'onda di questo fascino per il Medio Oriente, ho deciso "di pancia" che la Giordania sarebbe stato il mio obiettivo. senso di viaggio n°4.

 Sebastião Salgado, da Exodus.
Il percorso fin qui è stato lungo, non solo nel tempo, ma soprattutto negli step necessari a realizzare questa partenza: bandi ritardatari, applications titubanti, proposte di ricerca in lingua inglese riscritte mille volte, partnership da siglare, uffici sordomuti, dozzine di mail, contatti, rifiuti, incomprensioni, revisioni delle suddette applications, strutturazione "organica" del progetto di ricerca, bibliografie, prenotazioni, voli, vaccini...e chi più ne ha più ne metta.

Così, eccoci qui, a meno di 24 ore dalla partenza, con Aegean che mi spamma di email per ricordarmi del volo e con un'unica consapevolezza: il viaggio sarà sicuramente più rilassante dei preparativi, nonchè notevolmente più limitato in termini di tempo - soli 3 mesi.

E allora, nella fatica di questa partenza, una voce interiore mi dice che i sensi del mio viaggio non possono essere solo questi, così pragmatici e forse anche un po' rudi.

Come per tutti i viaggi, ho voglia di scoprire posti nuovi, di incontrare persone diverse che vivono, mangiano, parlano e salutano in modo diverso. Ho voglia di riattivare la mia modalità "devo-vedere-ogni-angolo-di-questo-paese", ho voglia di fare cose nuove, di farmi domande - ecco, questo giusto perchè dovrei scrivere una tesi di laurea... 😮
Ho voglia di spezzare dall'ordinario, di prendermi del tempo per stare con me stessa, di dedicarmi a qualcosa di totalmente differente e, credo, irripetibile. 
Dicono che viaggiare è un modo per incontrare se stessi, chissà se mi piacerà 😉
Ho voglia di stupirmi, meravigliarmi nel negativo e nel positivo, ho voglia di adattarmi, scontrarmi con le abitudini del posto, piegarmi alla differenza fino ad accettarla.
Ho voglia anche di quelle componenti un po' melanconiche di un viaggio: di annoiarmi in un posto lontano, di sentirmi sola lontana da casa, di avere nostalgia delle mie abitudini.

Così, quanti sensi di viaggio....

Ma poi, cos'è un senso? "Voglio trovare un senso..." cantava Vasco, ma che cos'è il senso?
E' incredibile come nella nostra quotidianità ci siamo allontanati così tanto dal primo senso della parola senso - mi scusino il gioco di parole. Da quello più pratico, materiale, tangibile.
Quello che passa attraverso i sensi, quelli lì, che ci insegnano a scuola- vista, udito, tatto, gusto e olfatto.
Ogni sensazione, che secondo me è pure una parola bellissima, è uno stato di coscienza prodotto da un senso, esterno o interno che sia.
Così, attraverso i sensi, tutto il mio viaggio assume un senso - anzi, ne assume parecchi: tutto, ogni scelta, ogni arrabbiatura o delusione sono state, col senno di poi, delle sensazioni fortissime e insostituibili quanto necessarie. 
Ho visto e udito tante cose sulla Giordania, molte altre spero di gustarle, annusarle e toccarle.
Ma soprattutto, questo senso interno che abbiamo nella pancia e che ci fa agitare, emozionare, spaventare, questo spero che sia attivo più che mai nei prossimi tre mesi. 

Mi sento di essere stata un po' contorta e, senza offesa per la categoria, un tantino new age.

Eppure Aime, che oltre ad essere un grande antropologo è soprattutto un gran viaggiatore, mi ha fatto tornare a questa dimensione ancestrale del Vivere ricordandoci di dare retta ai SENSI. 
Spero che in ogni giorno di questo percorso giordano troverò un nuovo Senso di Viaggio che, spostandomi, mi permetta davvero di "fare la differenza".
Che, soprattutto, mi permetta di essere attrice e interprete di un viaggio che al momento è solo metafora, e scorre sullo schermo del mio - e vostro - PC.

"Pensare il viaggio significa veder scorrere davanti al proprio occhio interiore una metafora di paesaggio. Stando fermi, come davanti a uno schermo. Si è registi e spettatori di quel viaggio, non attori. Spostarsi fisicamente, questo fa la differenza" - Marco Aime, Sensi di Viaggio.


 Sebastião Salgado, da Exodus.


lunedì 31 ottobre 2016

FILE di LIBRI o LIBRI di FILI?

  Vogliamo qui proporre un compendio di libri per l'infanzia (ma perchè no? anche per adulti) che sono percorsi da uno o più fili. Non è importante se questo filo è concreto o esiste solo nella realtà della narrazione: ci interessa creare un "catalogo" attraverso il quale comparare i diversi tipi di narrazioni e di messaggi che si possono costruire attraverso il tema dei fili e, soprattutto, dedurne le valenze comunicative ed educative.

Hai in mente qualcosa che per ora non compare tra i titoli qua sotto? Scrivici :)




Iniziamo con un semplice assunto: un filo può essere tante cose. 
IL FILO ROSSO, di Francesco Pittau e Bernadette Gervais, è un filo che “si srotola piano piano dal suo gomitolo” e che ci invita a seguirlo. Tra diverse forme, orientamenti, direzioni e... garbugli, ci permette di scoprire la natura cangiante e flessibile del filo, che può modificarsi e cambiare fino a diventare molte cose...
EDIZIONE: Castoro, 2005.






Un altro filo che si srotola e che ci cattura nella magia del suo dispiegamento è quello del bellissimo leporello double-face SUR LE FIL di Ilaria Demonti: un filo che diventa una traccia, una scia, una fune, un cavo, una linea, tutti accomunati dalla volontà di estrarre fili dall'enorme varietà d'usi del nostro quotidiano e di riportarli alla nostra attenzione.




EDIZIONE: Lirabelle, 2014.

L'idea del Filo rosso, o del fil rouge per dirla alla francese, è un'espressione che per antonomasia indica un legame che unisce fatti, circostanze o oggetti: deve la sua fortuna a Goethe, che lo usò in Le affinità elettive come esemplificazione dei legami che più o meno casualmente nascono tra le persone. Ma come espressione ha un origine molto più lontana e, per certi versi, molto più pratica: è legata infatti alla tradizione marinaresca, in quanto per districare le gomene di una nave si seguiva un filo rosso che rendeva possibile separare l'una dall'altra le corde aggrovigliate. 


                                      
È questa l'idea della collana FILO ROSSO di Artebambini: sia in LA CITTA' che in IL GATTO E LA LIBELLULA un cordoncino rosso accompagna la narrazione, perdendo flessibilmente la sua identità primaria e svolgendo molte altre funzioni.

Artebambini, 2014.

Artebambini, 2014.
In LA CITTA', la narrazione diventa ancora più interessante, giocandosi tra luci e ombre, tra contrasti cromatici, tra Negativi-Positivi, come direbbe Bruno Munari: c'è una possibilità di double-focus, in cui l'importanza degli sfondi, dei posizionamenti e delle sovrapposizioni è ciò che col filo guida una storia priva di parole. Il cordoncino che lo attraversa costituisce una sorta di facilitazione all'opera di uno story-making obbligato, dato che le parole “leggere sono volate via la prima volta che il libro è stato aperto” e delle immagini non resta che l'ombra.



PER FILO E PER SEGNO, di Luisa Mattia e Vittoria Facchini.
Silvia, divoratrice di storie, sapeva che ognuno aveva qualcosa da raccontare; sperava che giovani, vecchi e bambine passassero sulla sua via per raccontarle un nuovo aneddoto, un'avventura speciale. Un giorno però si rese conto che le storie erano troppe da ricordare e cominciò a collezionare i fili persi della sarta del paese, per pescare nuove storie con l'ausilio di questa rete. I fili si intrecciavano e si intrecciavano le storie, ma lei sapeva che, leggendo i racconti a bambine e bambini, ognuno di quei piccoli fili avrebbe richiamato alla sua memoria qualcosa...

 
EDIZIONE: Donzelli, 2012.

Allora il filo diventa simbolo di qualcosa, come FILO, protagonista del libro di Fabio De Poli e Andrea Rauch: egli è simbolo di un bambino spaurito, che ha paura del diverso, che teme l'ignoto; soprattutto, come un bambino, cerca la sua identità: è il cordone di un aquilone, è un filo di nuvole bianche, è un filo di tè che esce dalla teiera... Ma è sempre Filo.

EDIZIONE: La Biblioteca Junior, 2008.

A volte il filo decide di essere semplicemente un filo, un filo da non perdere. NON PERDERE IL FILO, di William Wondriska è la storia di un filo leggero e sottile, che circonda, lega, allaccia, costringe, annodata i protagonisti della storia. Perchè? Beh, questo lo scoprirete solo in fondo al libro ;)



EDIZIONE: Corraini, 2010.

"Dappertutto ci sono fili.
I fili sono diversi, come sono diverse le persone.
Possono essere sottili e forti, leggeri e robusti.
Certi fili si chiamano legami.
Sono invisibili ma molto tenaci.
Le strade sono fili che uniscono le persone.
Ci sono fili che è bello seguire
per scoprire che cosa c'è in fondo...”


FILI, di Beatrice Masini e illustrato da Mara Cerri è un libro soffice e ovattato. I fili passano di mano in mano, legando una bambina distratta a un bambino impaziente e il bambino impaziente all'uomo dei braccialetti e l'uomo dei braccialetti a un povero venditore di braccialetti. I fili vengono abbandonati e poi raccolti, smarriti e ritrovati, intrecciati e sbrogliati. La forte magia di legami nascosti tra protagonisti inconsapevoli che senza saperlo lasciano qualcosa l'uno all'altro.


EDIZIONE: Arka, 2004.

Lo stesso succede per il piccolo protagonista di C'E' UN FILO, di Manuela Monari e Brunella Baldi, che pian piano, esperienza dopo esperienza, osservazione dopo osservazione, assume consapevolezza della presenza di un filo che lega tutte le cose “unisce me alla mamma, me e la mamma al papà. Noi alla nostra casa, la casa alle altre case”. A sua detta è “una specie di ago trasparente che cuce insieme tutto”, ma qual è il suo nome? Per la mamma sia chiama Amore, per il papà RAGIONE, per la maestra VERITA': non possiamo saperlo, sappiamo solo che “se mi perdo mi riattacco al filo e, op, mi ritrovo. È che tutto è come deve essere”.



EDIZIONI: San Paolo, 2010.

Un altro libro che narra di passaggi e di scambi, con la delicata purezza di un bambino è IL FILO ROSSO, raccontato da Anne-Gaëlle Balpe e illustrato da Eve Tharlet.
Felicino conserva un filo rosso che si è staccato dalla testa di una bambola: per lui è come se fosse un grande tesoro. Nel suo cammino, però, gli viene chiesto di separarsene e di concederlo a un piccolo uccellino che lo utilizzerà per il suo nido. Una piccola grande prova per diventare adulti e per capire l'importanza della generosità e dell'aiuto. Il buon cuore di Felicino verrà ricompensato con altri doni, finchè il filo rosso tornerà da lui.

è molto più di quello che pensi! […] Questo filo ha reso felice un uccellino, ha permesso a una formica di tornare a casa e, tra poco, sazierà dei cuccioli affamati...”.




Ecco qui uno dei miei libri preferiti, l'unico, forse, in cui il protagonista è un filo, pur senza essere nominato. IO ASPETTO, di Serge Bloch e Davide Calì, è la storia della vita. Sì, della vita: non di una vita. Perchè narra i grandi momenti, tristi e felici, attraverso cui tutti noi passiamo e che in un certo senso ci uniscono. Un nuovo nato in famiglia, le feste di compleanno, i regali sotto gli alberi a Natale: le cose che tutti aspettiamo con trepidazione e che, nel bene e nel male, ci fanno sentire vivi.


Se si costruisse la casa della felicità, la stanza più grande sarebbe la sala d’attesa” - Jules Renard.


EDIZIONE: Kite, 2015.

Ma a volte sono i libri più semplici che riservano una sorpresa...
Tra i Prelibri di Munari spunta qualcosa...


Spunta qualcosa proprio dal numero 1...

EDIZIONE: Corraini, 2016.

La storia di fili continua...

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