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lunedì 7 dicembre 2015

Se ci ricordassimo chi eravamo: per una riscoperta della Creatività

Dovevo scrivere qualcosa sui diritti dei bambini, su come proteggerli, su come permettere loro di avere una buona infanzia. Così ho pensato che non può essere riconosciuto miglior diritto che quello di "essere se stessi"
Un viaggio dentro i nostri processi creativi e su come, crescendo, ci siamo dimenticati chi eravamo. "Dobbiamo recuperare il bambino che c'è in noi" - diceva Friedrich Fröbel - "solo così potremmo essere felici".

Quello che per me era un diritto scontato, ha destato una grande riflessione. Così mi sono ritrovata a parlarne ancora, il 5 dicembre presso l'Akademia Pedagogiki Specialnej "Marii Grzegorzewska". http://www.aps.edu.pl/university.aspx

ENGLISH VERSION HERE > http://larceniesoftime.blogspot.com/2015/12/i-had-to-write-something-about-children.html





Sin dalla nascita della società contemporanea, la comunità internazionale ha compiuto molti sforzi per promuovere i diritti del bambino: nel 1924, a Ginevra, fu adottata la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, un documento piuttosto semplice contenente basilari – quanto concrete – garanzie. Così come oggi è dato per scontato, “Il bambino che è affamato deve essere sfamato, il bambino che è malato deve essere curato, il bambino che è in condizioni di difficoltà deve essere aiutato”. 
Poi, nel 1959, il documento originale – approvato anche da figure che sarebbero diventati simboli della pedagogia del Novecento quali Janusz Korczak – fu ampliato e aggiornato. 

Janusz Korczak e i suoi bambini, tutti morti a Treblinka.
Fonte: http://www.orecchioacerbo.com/editore/index.php?option=com_oa&vista=catalogo&id=399

L’ultima versione è datata 1989 ed è conosciuta universalmente come la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, divenuta famosa per la vasta diffusione e per l'approvazione che ha ricevuto ovunque nel mondo.
Tutti questi documenti stilano i diritti e i bisogni dei bambini affinché si agisca nel loro massimo interesse e per la loro tutela. 
L’innovazione della Convenzione del 1989 fu l’introduzione di alcuni principi moderni, come il diritto alla vita, il diritto ad avere un nome e un’identità, il diritto ad avere la propria privacy rispettata o il diritto di esprimere le proprie opinioni che devono “essere ascoltate e tenute in considerazione quando appropriate”.

È dato per scontato che tutti queste garanzie si siano sviluppate in un’epoca in cui i diritti basilari – come il cibo, l’assistenza sanitaria, l’educazione – erano già assicurati. Tutti sappiamo che ci sono aree nel mondo dove nemmeno i diritti basilari sono garantiti e dove molti bambini sono sottoposti alla fame, alla mancanza di acqua potabile o sono obbligati a crescere senza educazione e poi a combattere: ma, per oggi, la mia attenzione vuole focalizzarsi sulla nostra cosiddetta “società sviluppata” e sulle sue responsabilità e sui suoi doveri.

In particolare, sull’articolo 13 della Convenzione del 1989: “il bambino deve avere il diritto alla libera espressione; questo diritto include la libertà di cercare, ricevere, impartire informazioni o idee di ogni tipo, anche oralmente, in forma scritta, stampata, in forma d’arte o attraverso qualsiasi altro mezzo che il bambino voglia scegliere e indipendentemente da qualsiasi tipo di barriera”.

Quando ho letto questa disposizione la prima volta, non ho capito davvero che cosa volesse significare. Ero troppo giovane ed era difficile per me immaginare un bambino che “impartisce informazioni e idee” a qualcun altro, così come era difficile dare tanta importanza alle loro forme di espressione: vagavo con la mente tra i miei vecchi disegni – pile di fogli colorati, la maggior parte copie di qualche immagine trovata su un libro, lasciati in cima a un armadio e lì dimenticati – considerandoli solo la produzione di una florida creatività, niente di più. Solo il passatempo di una piccola zelante bambina.

Poi, un giorno, sono tornata all'asilo – sarebbe meglio dire alla “Scuola dell’Infanzia” – per un progetto di lavoro e ogni cosa è cambiata. Aperta la porta, sono stata risucchiata nell’atmosfera infantile: piccole sedie, piccoli tavoli, piccoli appendiabiti, piccoli armadi. Tutto il materiale necessario era disposto su bassi scaffali che dovevo stare attenta ad evitare. 
Tutto certamente perfetto, a livello pedagogico – come suggeriva Maria Montessori in “La Scoperta del Bambino”: “aprire e chiudere i cassetti, le porte e le finestre, riordinare una camera, sistemare le sedie, tutti questi sono esercizi che permettono al corpo del bambino di muoversi e questo movimento permette di perfezionare il corpo e la mente”: tutto deve essere “a misura di bambino”.
Sono diventata adolescente con due fratelli piccoli, costantemente immerse nei meccanismi dell’infanzia ma, probabilmente per la gelosia tipica della “fraternità”, non ho mai empatizzato con la loro età. 
Quel giorno, sono stata completamente scioccata nel riscoprire un mondo così minuscolo e piccino che avevo completamente dimenticato. 
E soprattutto avevo dimenticato quanto quei fogli colorati fossero importanti per me, quando ero bambina.

L'importante è disegnare, la posizione non conta...
Serena Saligari © 2015

Non è cosa comune tenere in considerazione e discutere del processo creativo dei bambini. Forse perché siamo abituati a vedere la loro fantasia come strana, stravagante, illogica se non addirittura ridicola. Li scherziamo se parlano con il loro amico immaginario, se fanno parlare i loro pupazzetti, se si immaginano dottori, infermierini, maestre. Questo “gioco simbolico”, come lo chiamava Jean Piaget, è una componente fondamentale per il loro sviluppo sociale, ma quando li guardiamo giocare siamo stupiti e impressionati nel sentire le espressioni che usano – spesso ripetendo, copiando e mischiando i comportamenti che assorbono dagli adulti – e soprattutto ci dimentichiamo che facevamo così anche noi. È come se, una volta cresciuti, ci vergognassimo delle cose che eravamo soliti fare.

Invece di giudicare la loro condotta dovremmo piuttosto lasciare i bambini liberi di esprimere se stessi in ogni modo – ovviamente nei canoni delle modalità accettate e corrette.

Il “diritto di essere creativi”  dovrebbe essere aggiunto e conservato nelle leggi delle nostre società.

Come Ken Robinson dice, "creatività" è “il processo che consiste nell’avere idee originali che hanno valore”. 
In principio, come dicevamo prima, ogni bambino ha il suo bagaglio di competenze creative che è nostra responsabilità incoraggiare. 
Essere creativi permette di creare nuovi mondi, di immaginare cose che non ci sono nella nostra realtà. Essere creativi permette di avere nuovi punti di vista, di vedere al di là delle cose comuni, di diventare visionari. Essere creativi ci abitua al “pensiero divergente”, ovvero alla possibilità di vedere diverse soluzioni allo stessa problematica. J. P. Guilford, l’ideatore di questa espressione, nel lontano 1950 sottolineava gli effetti positivi di questa attività, che consente ai nostri bambini di diventare elastici, innovativi, abili nell’adattarsi alle diverse situazioni. 
Questi sono i motivi per cui dobbiamo incoraggiare i loro talenti naturali, le loro abilità, le loro competenze: all'inizio questo stimolarli ci sembrerà inutile e senza risultati significativi, ma porterà innumerevoli effetti positivi al loro futuro.




Ma esattamente, cosa fare?
Una delle migliori vie per stimolare il pensiero laterale è porre “domande stupide”: non nel senso di sciocche, superficiali o insensate, quanto piuttosto nel senso di “basilari”: a volte ci dimentichiamo di approfondire il concetto chiave su cui ci stiamo impegnando. “Sto lavorando sull'immaginazione”: ma che cos'è “l’immaginazione”? “Voglio stimolare la loro fantasia”, ma che cosa significa “fantasia”? qual è la differenza tra “fantasia” e “immaginazione”? 
Siamo così sicuri di conoscere il significato di queste parole che non ci preoccupiamo del loro effettivo significato. E quando proviamo effettivamente a definirli, di troviamo impotenti di fronte all'evidenza che non siamo in grado di farlo.
Per questo dobbiamo insegnare ai bambini a prestare attenzione all'etimologia di ciò che stanno facendo – anche se può sembrare ambizioso.

In un secondo momento, il principale compito degli adulti è quello di provvedere i materiali, le condizioni, le esperienze in cui i bambini possano sentirsi a loro agio. Poi, dare loro qualche regola essenziale – come quella di avere rispetto per gli altri bambini, per i loro lavori, per i materiali e l’ambiente in cui stanno lavorando.
Ma non dobbiamo dire loro cosa fare. Il nostro input deve essere solo quello di metterli nelle condizioni di essere creativi. Piuttosto possiamo stimolarli, dando loro alcuni generali principi da rispettare: “lavora sulla forma” o “lavora sulle dimensioni”: fondamentalmente “cambialo”, “dagli una diversa funzione”. Regole molto generali che possono aiutarli a focalizzarsi in una certa direzione, senza compromettere la loro volontà.

Se un pestello diventa un flauto incantatore...
Serena Saligari © 2015
Se i bambini hanno l’occasione di crescere in queste condizioni, la formae mentis che svilupperanno darà loro un sacco di vantaggi futuri nel risolvere i problemi, nel prevenire i rischi, nell'essere positivi.

E non dobbiamo essere così preoccupati da questa loro "indefinibile" produzione, che sicuramente riempirà i nostri armadi fino all'orlo: Bruno Munari le ha dato una precisa definizione – seguendo il principio dell’approfondire concetti “banali”, come dicevamo. Può essere chiamata “invenzione” – l’atto di produrre qualcosa di nuovo che funziona ed è esteticamente attraente. Può essere chiamata “fantasia” – l’atto di immaginare qualcosa che prima non c’era e che non deve per forza essere praticamente realizzabile. Possiamo chiamarla “creatività” - se uniamo fantasia e invenzione per produrre qualcosa di originale, che funziona e che è pure bello.

Serena Saligari © 2015


In ogni caso, queste attività consentono ai bambini di distinguere ciò che è improbabile da ciò che è pura fantasia, di capire che la realtà cui siamo costantemente sottoposti non è l’unica possible.

La creatività è oltretutto uno “spazio sacro” dove i bambini possono esprimere i loro sentimenti: “spazio sacro” nel senso dell’"essere separato dallo spazio e dalle regole dello spazio ordinario”, come lo ha definito Gerardus Van Der Leeuw, quindi un luogo dove le regole sociali e culturali sono sospese al fine di essere liberi da qualsiasi forma di dovere.
Così, nel pitturare, in un certo modo di danzare, in un’espressione usata per raccontare una storia, possiamo trovare indizi sulla loro condizione emotiva, sulla loro identità, sulla loro personalità o sul loro temperamento
Le potenzialità terapeutiche del disegno, usato sia come strumento di diagnosi che come terapia, sono risapute. Osservando il disegno di un bambino possiamo inferire aspetti della loro sfera emozionale che essi non sono in grado di esprimere a causa di qualche blocco psicologico o per la paura delle potenziali conseguenze.
“Loro diventano pittori per il fatto che c’è qualcosa che non possono dire”, diceva Rainer Maria Rilke.

Molti di noi non hanno le competenze per sfruttare le potenzialità di questo strumento, ma in un certo modo possiamo diventare più sensibili sulla potenzialità terapeutiche dell’arte.

Gianni Rodari, scrittore, poeta, pedagogista italiano, ha scritto “Grammatica della fantasia”, libro in cui ha indagato i meccanismi della fantasia e della creatività, considerandoli componenti essenziali per lo sviluppo umano.
Secondo la sua opinione, ogni persona deve avere l’opportunità di portare avanti la sua attività creativa e di sfruttare gli effetti benefici che ne derivano: anzitutto la gioia dell’espressione personale e della giocosa produzione pseudo-artistica.

E se siamo perplessi, basta cercare su Google “La colazione in Pelliccia” di Méret Oppenheim, “Il violino d’Igres”o “Lo specchio flessibile” di Man Ray, “Il martello di sughero” di Chaval o la “Macchina da scrivere molle” di Claes Oldeburg, il “Codex Seraphinianus” di Luigi Serafini: di sicuro la sensazione che ne deriverà sarà di meraviglia. 
Scopriremo che i nostri bambini sono uguali a degli artisti, per la somiglianza delle loro produzioni con quelle di questi celeberrimi artisti. E la certezza che siano pazzi si sgretolerà rapidamente!


"La colazione in Pelliccia", Méret Oppenheim, 1936.
Fonte: khanacademy.org
A volte “creatività” significa “distruggere per ricostruire”: le cornici socio-culturali e la conoscenza riconosciuta devono essere scosse, ribaltate, combinate per guardare il mondo da un’altra prospettiva, come nelle opere d’arte citate.

E bisogna essere aperti: è sufficiente dare un’occhiata alla natura per scoprire “arte” e splendore che siamo soliti pensare possano esistere solo nella nostra mente: Bruno Munari e Leo Lionni, rispettivamente in “Good Design” e “la Botanica Parallela” ci insegnano proprio a stupirci di fronte a forme tanto strane, a colori e funzioni che diventano possibili anche nel nostro mondo terrestre.

Da "La Botanica Parallela", Leo Lionni, 1976.
Fonte: ebook.telecomitalia.it 


martedì 24 novembre 2015

Codex Seraphinianus: compendio di una storia infinita

Chi ci conosce, ci ha sentiti parlare di questo libro centinaia di volte. Ce ne siamo innamorati e, dopo essercene procurati una copia, abbiamo  iniziato a mostrarlo, descriverlo, proporlo in moltissime e diverse occasioni della nostra quotidianità. Tra amici, per una chiacchierata al bar, per un qualche  progetto di ricerca, fino a renderlo parte del nostro lavoro. Abbiamo sperimentato la sua efficacia nelle scuole e, per ora, questo traguardo rappresenta la più grande soddisfazione personale: aver concretizzato teorie e potenzialità creative e immaginifiche che eravamo certi questo libro contenesse.
Il nostro  progetto è illustrato nel numero 326/2015 della rivista d'illustrazione e letteratura per l'infanzia Andersen (http://www.andersen.it/ottobre-2015-n-326/)

Quello che vogliamo fare con questo post è raccogliere tutte - ma proprio tutte - le conoscenze e le curiosità che abbiamo accumulato in questi anni intorno al "Codex Seraphinianus". Creare una sorta di compendio per tutti quelli che ne sentono parlare per la prima volta, per chi vuole approfondire e per chi vuole riordinare le idee sparse - e le suggestioni - intorno a quest'opera. . E infine, dobbiamo ammettere di averlo fatto anche per noi, per dare forma e struttura alle infinite chiacchiere che abbiamo prodotto e produrremo, come in una sorta di database dialettico. 
Insomma, quella che vi aspetta non è una lettura semplice, né  rilassante: ma non è fatta per essere letta tutta. Seguite  i sottotitoli e soffermatevi su quello che più vi interessa, come in un'(altra)enciclopedia.


Parlare del Codex Seraphinianus a qualcuno che non ne ha mai sentito parlare significa prenderla molto alla larga. L’unica cosa che forse si può accorciare è il nome, essendo divenuto, per antonomasia, semplicemente “Il Codex”. 
Anche se non servono particolari requisiti per l’accesso al suo universo - anzi, per sua natura, richiede "solo" di liberarsi da ogni schema e preconcetto - è difficile collocare un’opera tanto singolare all'interno della nostra conoscenza e, prima ancora, della nostra percezione.
Diciamo anzitutto che il Codex Seraphinianus è un’enciclopedia: beh, questo sembra in effetti essere un bel punto fermo, ma se vogliamo essere più realistici, meglio chiamarla “l’enciclopedia di un visionario”, come suggeriva un’autorità quale Italo Calvino.


"Panismo" serafiniano
Anzitutto è un’enciclopedia perché rigorosamente sistematico, dato che il Codex è diviso in capitoli e sezioni e corredato da relativi indici anticipatori.
È un’enciclopedia perché provvisto di un'importante componente iconica: ogni enciclopedia che si rispetti racchiude illustrazioni accurate dei fenomeni che descrive, accompagnate da didascalie e schemi, freccette e rimandi, che devono istruire il pubblico ancora ignorante di ciò che sta apprendendo.
Ma il requisito fondamentale è che un’enciclopedia racchiuda tutto il sapere accumulato dall’uomo intorno al suo universo. Data l'ovvia natura “umana” di Luigi Serafini, ci aspetteremmo che la sua opera non sia che una copia, magari più aggiornata e precisa, dell’impresa settecentesca di Diderot e D’Alambert.


Accurato indice anticipatorio
Ma è proprio a questo punto che bisogna recuperare la seconda parte dell’espressione calviniana: “di un visionario”. Serafini raccoglie sì il suo sapere, ma non il sapere intorno al nostro mondo: descrive, e mentre scrive e disegna lo forgia, il mondo della sua immaginazione, della sua visione fantastica, del suo modo alternativo di vedere le cose.
È così che un architetto diventa artista e da artista visionario, colui che vede oltre la realtà empirica e immediata e crea, con un’azione che ha del demiurgo, un universo parallelo al nostro.
Ed è proprio in questo mondo altro, così simile al nostro da divenire straniante – sarebbe meglio dire spaventoso? - che si cela l’affascinante mistero del Codex: un universo costituito da piante, fiori, macchine, uomini apparentemente così simili alla realtà che ci circonda, ma comunque diversi. L’autore prende in prestito elementi reali e li mischia, stupendoci del fatto che sia possibile una così profonda ricostruzione semantica del mondo in cui viviamo: un’ibridazione da molti definita “borgesiana”, che mette in luce come tutto possa essere trasformato e sconvolto, fino a uno stravolgimento che ci scompensa, ci travolge, ci impaurisce inducendoci a (ri)leggere il mondo in cui viviamo attraverso i parametri fornitici dal Codex.

Le immagini diventano il paradigma della permeabilità tra i diversi territori dell’esistere: l’anatomia scambia le forme con la meccanica - si pensi alle braccia-martello o al dito-penna stilografica - spesso completandosi con il vegetale. Esso a sua volta si fonde con il merceologico e si generano foglie-forbici, spighe-matita e nello stesso modo il tecnologico e l’araldico, il selvaggio e il metropolitano, lo scritto e il vivente.

Arti ibridati
C’è chi dice che il libro non ha un senso, che non è che una colossale (per quanto strabiliante) presa in giro: ma tutti, davanti alla sua innegabile organicità, devono ammettere che non può essere solo il prodotto di un estro casuale ed estemporaneo.

Ma il mistero non finisce qua: esso è rafforzato dal rompicapo di una scrittura incomprensibile, finora indecifrabile e (forse?) asemica, cui la nostra propensione scolastica ci spingerebbe ad affidarci per svelare l’arcano: peccato che, invece, non ci dia altro che l’illusione di trovarci davanti a un libro “normale”.
Insomma, l’angoscia che questo Universo ci trasmette non deriva tanto dalla sua differenza con il nostro, quanto dalla sua somiglianza: gli elementi sono quasi sempre riconoscibili, ma è la connessione tra loro che ci appare sconvolta. Lo scompiglio degli attributi visivi genera dei mostri, tanto che si potrebbe quasi definire il Codex Seraphinianus un’opera teratologica di raffinata logicità, in quanto i nessi contorti e accavallati sembrano apparire ed essere lì, pronti per essere pronunciati, perché nel vederli qualche lampadina si accende nella nostra testa.

LA NASCITA DEL CODEX

Da "Decodex", opuscolo dell'edizione 2013 
È il settembre del 1976 quando Luigi Serafini, classe 1949, sta disegnando su un foglio d’album con delle semplici matite colorate: si trova nel suo studio al numero 30 di via Sant’Andrea delle Fratte, vicino a Piazza di Spagna a Roma, sua città natale, in quello che definisce un “palazzo fatiscente con i gradini di peperino logorati dai secoli”.
Dalle sue mani prendono aspetto uomini ibridati con arti a forma di pinza, di ruota, di penna a stilo.
Ha trascorso gli anni precedenti a viaggiare tra l’America e l’Africa, dal Congo all’Eufrate e questo ci spinge a pensare che le esperienze di viaggio siano brillantemente rielaborate nella sua opera.

Quello che ha in mente, però, non è ancora ben chiaro nemmeno a lui.
Si rende conto che i suoi disegni assumono spontaneamente un ordine quasi tassonomico e, febbrilmente, continua la produzione. Una sera, il suo amico Giorgio passa a trovarlo con qualche idea per la serata, ma Luigi Serafini declina l’offerta, dicendo di essere impegnato nella stesura di un’“enciclopedia”: sarà quest’affermazione a decretare la svolta.

Egli scivola nel ruolo di un amanuense che se ne sta segregato nello scriptorium del suo monastero e questa condizione sarà destinata a durare quasi tre anni. Vive in isolamento, approfittando soltanto dei piccioni che si posavano sul suo terrazzino per banchettare le briciole, per ricevere le “news della giornata attraverso i glu glu e i battiti d’ali”, che dice di saper interpretare grazie agli insegnamenti della nonna conoscitrice del loro linguaggio.

Ma chi ha guidato la creazione del Codex? Da dove nascono i disegni, da dove nasce la fluida scrittura? E' tutto frutto della sua immaginazione?
Spesso egli ha affermato che in realtà il Codex è una creazione eterodiretta, guidata da una forza esterna: l'abbiamo sentito parlare di genius loci, ovvero delle forze sovrannaturali che si riuniscono intorno a un luogoe, nel caso specifico, intorno a Roma, ma di questo parleremo a proposito dei suoi debiti artistici - e dello spirito del tempo - che, secondo Hegel, giustifica le produzioni dello Spirito nelle diverse epoche.

Genesi delle coccinelle
Ma nel suo Decodex, opuscolo legato all'edizione Rizzoli 2013, egli propone una tesi più fatata. Una sera, mentre rientrava, vide una gatta bianca che sembrava abbandonata: la portò a casa con sé e abitarono insieme fino alla conclusione del Codex. Si arrampicava sulle sue spalle e, mentre egli disegnava, si accoccolava ronfando. Facendo penzolare la coda una volta a destra e una volta a sinistra, a seconda dei sogni che faceva - come nella storia narrata da Puškin in Ruslan e Ludmilla – trasmetteva a Serafini, nel contatto con la sua ipofisi, canzoni e racconti che lui scambiava per la sua immaginazione. Sembra essere l'unica ipotesi, questa, a poter  giustificare una sì vasta produzione in così poco tempo.

In questi lunghi mesi di forsennato ed esclusivo impegno, ben sapendo di dover trovare un modo per mantenersi, Serafini collabora con alcuni architetti – per questo lui stesso afferma che la pagine del Codex sono contagiate dalla “precisione del disegno tecnico e dalla profondità del nero di china” – ma soprattutto cerca una strada per ottimizzare i prodotti della sua creatività: insegue tutti i possibili editori sul mercato, non guadagnando, però, l’attenzione di nessuno.

La buona occasione si paleserà con Franco Maria Ricci: dopo averlo aspettato per due giorni in un’utilitaria prestata appostata in Via Santa Sofia, ove c’era il suo ufficio, riesce finalmente a incontrarlo e a mostrargli alcune delle sue tavole. Il lavoro era a quell’epoca ancora in fieri: Ricci, entusiasmato dalla sorprendente genialità innovativa di Serafini, lo stimola a continuare il lavoro, del tutto inconsapevole della sua prolificità - tanto che, a un certo punto, dovrà dare uno stop all'autore, che continuava a sottoporgli tavole nuove.
La prima edizione del “Codex Seraphinianus” sbarca nelle librerie nel 1981: è un vero successo, tanto che richiama l’attenzione, non solo di Italo Calvino, ma anche di altri personaggi famosi a livello internazionale.

"Codex Seraphinianus" edito da Franco Maria Ricci, 1981 (Fonte: wikipedia.it)
IL TITOLO

Luigi Serafini non voleva dare un titolo alla sua opera: ma, come ha affermato lui stesso, “non avrei saputo come giustificarne l’assenza”. Fu Ricci a scegliere il titolo “Codice di Serafini” trasposto alla latina, formula evocante l’enigmicità fuorviante del libro, spiegabile solo se ci si cala nell’universo seraphinianus.

STRUTTURA

Il libro si compone di quasi 400 pagine - dipende dalle edizioni: se volete un dato preciso e scrupoloso, vi consigliamo di contarle, dato che anche il sistema di numerazione delle pagine è in codice.
È diviso in 11 sezioni che sembrano ricalcare la nostra naturale segmentazione della realtà: ci sono una sezione botanica, un’altra zoologica, una antropologica, una fisica, una meccanica, persino una gastronomica. Ampio spazio è riservato all’etnografia, alla produzione architettonica e a quella alfabetico-scrittorea.
È interessante notare come, all’inizio di ognuna di esse, vi sia, oltre ad un indice schematico e a quella che sembra essere una descrizione introduttiva del tema trattato, l’esposizione particolareggiata delle microparticelle che danno forma agli elementi trattati dai capitoli: si trovano infatti minuscoli esserini, simili a cellule di differenti forme e colori, che vengono accuratamente catalogati.

Microparticelle
Nell’opera ci sono anche elementi ricorrenti, quelli che, secondo Calvino, scatenano maggiormente il suo ‘raptus visionario': l’arcobaleno, l’uovo e lo scheletro - che vediamo ad esempio in attesa della sua ‘tunica di pelle’. L’arcobaleno sembra essere il principio di tutto quest’universo: lo si trova forato da  animaletti che potrebbero esserne il germe vitale, è il ponte che sorregge intere città, sa cambiare forma e colore a seconda del suo sostegno e  viene generato da vere e proprie macchine.

Elementi ricorrenti del Codex
LA SCRITTURA

Luigi Serafini dice che le “parole” sono state inserite nel Codex perchè necessarie, sono come uscite dalle sue mani nell’urgenza di spiegare delle immagini tanto stranianti da risultare incomprensibili allo stesso autore: “avevo fatto un disegno che non capivo”. Gli sembrava che mancassero le parole per completare quel disegno sempre più simile a un atlante e così, armato della convinzione che l'avvicinamento di un testo a un'immagine generi quantomeno un'apparenza di senso – anche se non comprendiamo nè l'uno nè l'altro – creò un nuovo alfabeto che “fosse gradito alla mia mano”.

La scrittura del Codex, che non corrisponde a nessun alfabeto realizzato dall’uomo prima d’allora, si compone di segni barocchi e rotondeggianti: è forse questo l’elemento che, ancor più delle immagini, ha suscitato l’interesse di studiosi e non, che si sono improvvisati decodificatori e hanno cercato di trovare la chiave – sempre che esista - che sta dietro al meccanismo. Anche qui, l’assoluta vicinanza che accomuna il linguaggio serafiniano al nostro, ci lascia basiti e attoniti a crogiolarci in un’impotenza a cui non sappiamo arrenderci. Tuttora, pur essendo passati oltre 30 anni dalla sua prima edizione, impazza il dibattito sugli spazi offerti dai blog e da altri format di discussione.


Macchina che produce le lettere
Recentemente Luigi Serafini ha affermato che la scrittura è asemica, cioè aperta, senza parole, priva di un qualsiasi specifico contenuto semantico: si crea così un vuoto di significato che si lascia al lettore di riempire e interpretare.
Ma la sistematicità dei grafi che la compongono, la ridondanza di quelle che ci sorge spontaneo definire “lettere” allontanano dalla nostra opinione la possibilità che si tratti di una scrittura anomica, cioè priva di regole: anche nel Decodex si dice che “lentamente distillai una calligrafia con tanto di maiuscole e minuscole, punteggiature e accenti”.
La cosa sorprendente è che la grafia è anch’essa vivente e diventa oggetto stesso delle immagini. Ha una sua corposità, può diventare tridimensionale, può sollevarsi dal foglio appesa a dei palloncini, può sanguinare se punta con uno spillo. Addirittura, possiamo esaminarla con una lente, per vedere i microscopici corpuscoli che la compongono.

La scrittura prende forma
LE EDIZIONI

Come abbiamo detto, la prima edizione risale al 1981, per i tipi di Franco Maria Ricci:  divisa in due grossi volumi rilegati di tela nera, poche migliaia di copie totali, che col tempo sono divenute molto ricercate.
Due anni dopo, nel 1983, il Codex viene pubblicato anche fuori dall’Italia: nei Paesi Bassi, negli Usa e in Germania. Esaurite le copie, nel 1993 viene immessa sul mercato editoriale europeo una nuova edizione in volume unico, corredata dalla prefazione del già citato Italo Calvino.
E’ nel 2006 che la Rizzoli riscopre l’opera e la ristampa: l’autore inserisce altre 9 tavole di prefazione, dandoci l’illusione che possano essere la chiave della sua interpretazione. A ciò si accompagna una revisione tipografica che ha riportato i colori alle definizioni originarie.

Nel 2013 l'ultima riedizione che alla versione trade affianca un'edizione “deluxe” in 600 copie (300 destinate al mercato nazionale ed altrettante all'estero), numerate e firmate dallo stesso autore, poste in un'elegante cofanetto e accompagnate da uno dei quattro Ta-Roc Serafiniani, carte giganti in cui si declina una personalissima interpretazione del mito dell'uccello Roc.


Uno dei Ta-roc serafiniani. Fonte: coliseum.it
Oggi il Codex è pubblicato in tutto il mondo, dalla Russia alla Cina: è stato realizzato un video che raccoglie i vari commenti sul “libro più strano del mondo” - questa è la formula che vi consigliamo di digitare su Google, se volete validare quello di cui vi stiamo parlando. (https://www.google.pl/search?q=libro+pi%C3%B9+strano+del+mondo&gws_rd=cr,ssl&ei=kjFUVsO2EsmasgHexInoAg)
L’effetto, anche in questo caso, ci lascia disorientati, dal momento che l’incomprensibile scrittura del Codex viene allineata ad altre scritture, pur esistenti e utilizzate, che tuttavia non decifriamo, perchè composte in un altro alfabeto (si pensi al coreano, al cinese, al cirillico...).

PRECEDENTI e DEBITI ARTISTICI

Se, più o meno legittimamente, ci viene voglia di scoprire con chi è in debito un autore così originale, quella che ricaviamo è una risposta tanto insolita quanto lo è l’universo del Codex: i suoi debiti principali sono contratti nei confronti di Roma e di Mozart.
La prima perchè, oltre ad essere la sua città natale, costituisce il contesto di reazione (chimica) in cui il Codex si è originato. Serafini sa di aver potuto godere della Roma del GranTour, precedente alla trasformazione economica, immersa in quell’atmosfera che l’ha resa per anni “la Hollywood che si sposta sul Tevere”. “Le case di Keats e Goethe sembravano attendere con pazienza il loro ritorno”, perchè la modernità faticava a penetrare i vicoli e i cortili.
Mozart, invece, perchè il Flauto Magico fu la colonna sonora dei suoi pomeriggi di lavoro: ascoltava un 33 giri con il grammofono, finchè nel disco si originò un buco.

Qualcuno, forse nella volontà di sminuirne l’originalità, trova dei precedenti nel “Manoscritto di Voynich”, nell’Arcimboldo, in Bosch, in Escher, nelle “Macchine di Munari”; quello che noi crediamo è che il Codex sia una delle più magnificenti espressioni di una rete di artisti che, prima ancora che produttori, sono stati grandi e alternativi pensatori.


Estratti dal Manoscritto di Voynich
IL LETTORE IMMAGINARIO

Non sorprende sapere che Serafini, mentre disegnava le tavole di cui stiamo parlando, non ne immaginasse un possibile lettore: questo perchè egli ha sempre vissuto il Codex come una necessità personale e tutta sua, priva di interessi pragmatici, ma piuttosto elaborata per il piacere di farla. Anche perchè lui non si sente un artista: dice che “artista” è una parola avariata, si definisce piuttosto un “viaggiatore”.
Quello che però era e continua ad essere nei suoi intenti è una rivoluzione nel mercato dell’arte, libero e demonetizzato, che sia motore di discussione e confronto: egli è riuscito a creare un blog ancora prima della nascita di Internet, dato che l’enorme eco che il Codex ha generato ha assunto i toni di un fenomeno sensazionalistico. Tutti coloro che ne sono venuti in possesso ne hanno parlato, intavolando una discussione che si è dipanata a catena qe ciò ha permesso di esternare rapidamente il giudizio che oggi daremmo con un Like. Si è creata una vera e propria rete, che ai tempi era reale, ma che ora si è adattata allo “spirito del tempo”, per richiamare Hegel, e dibatte virtualmente - e virtuosamente, lo ammettiamo - sull’interpretazione del Codex.

RISVOLTI PEDAGOGICI

Ciò che il Codex ci insegna a fare è, anzitutto, a liberarci dagli schemi che la nostra società ci impone. Certo, il Codex è un’opera culturalmente orientata: non potremmo capire gli elementi che compongono alcune sue pagine se non fossimo sottoposti ogni giorno agli stimoli della nostra realtà. Ma ne serve una critica messa in gioco.

Il Codex è frattura, sconvolgimento, perdita d’equilibrio rispetto a un sistema statico e ordinario, rispetto alle conoscenze che assumiamo, elaboriamo, utilizziamo dalla nascita: ci catapulta in una novità sconvolgente ma liberatoria, in cui ognuno può dare la sua interpretazione, il suo significato, rivestendosi di un ruolo magistrale di ridefinizione delle categorie.


Incontro con Luigi Serafini nel corso del progetto da noi condotto
presso la Biblioteca di Tirano "Paolo e Paola Maria Arcari".
Foto: Ivan Previsdomini © 2015
“Vi ricordate quando da piccoli sfogliavamo i libri illustrati e, fingendo di saper leggere, fantasticavamo sulle loro figure, davanti ai grandi?”: è questo il lavoro che il Codex ci spinge a fare. Tornare a una situazione di elementare conoscenza, di ingenuità scevra di concetti, per guardare questo libro da illetterati. Tutti siamo analfabeti, davanti al Codex: non capiamo i disegni, non comprendiamo il senso delle immagini. Non possiamo che recuperare quelle aliene sensazioni infantili e renderci liberi.
La sua assoluta indipendenza da preconcetti la rende altresì un’opera universale, e questo ne ha permesso una così ampia diffusione su scala mondiale: può essere sottoposta alla contemplazione di adulti, bambini, scandinavi e africani, senza perdere la sua efficacia.
Lo stupore che genera porta avanti un gioco infinito e senza confini. Divertirsi, anche, a fare delle ipotesi, a vedere come ciò che noi interpretiamo in un modo può essere soggetto a pareri diversi.
Fu lo stesso Ricci, del resto, ad affermare: “vorrei che il lettore sfogliasse il Codex come un bimbo che non ha ancora appreso la lettura, ma che gioisce dei sogni e delle fantasie che le immagini gli suggeriscono”.

LA FUNZIONE ORACOLARE DEL CODEX

Come è facile immaginare, il Codex ha funto da fonte di ispirazione per molte altre opere e progetti.
È del 1986 l’esperimento di video danza sul Codex che viene iniziato in Francia dal coreografo Philippe Découflé, che si produrrà in Codex (1986), Decodex (1995) e Tricodex (2004).
Il gruppo scozzese dei “North Atlantic Oscillation” ne ha creato un video facilmente reperibile sul web dal titolo “August” che propone una delle loro composizioni associata ad alcune immagini animate del Codex.


Nel 2014 è stato realizzato da François Gourd e Mélanie Ladouceur un lungometraggio sul Codex e sul suo autore dal titolo “Luigi Serafini, Grand Rectum de l’Université de Foulosophie”.

ALTRE OPERE DELL’AUTORE

L’artista non deve essere atomizzato nè fatto a pezzi: spesso il mercato dell’arte investe su alcune produzioni, su quelle più sorprendenti, perchè generano curiosità, e la curiosità profitti. 
Per contrastare questo meccanismo vi consigliamo di approfondire anche le altre opere di Luigi Serafini: tra i libri, la Pulcinellopedia (piccola), una suite di disegni a matita e brevi testi, dedicato interamente alla maschera di Pulcinella e Le Storie Naturali (2009), inconsuete rappresentazioni dei celebri racconti di Jules Renard. Da pochi giorni è uscito per Rizzoli Il coniglio d'oro, una vera e propria lapinopedia-ricettario di conigli reali e immaginari. 

Da "Pulcinellopedia (piccola)". Fonte: spamula.net
Nel 1990, Fellini chiese a Serafini di realizzare la locandina di “La voce della Luna”.
Oltre ad essere pittore e architetto, Luigi Serafini è scultore, ceramista, designer.
Ha collaborato in diverse occasioni con la Rai e soprattutto si è espresso a Milano, città che negli anni ha accolto il suo studio, dove ha organizzato diverse mostre ed esposto le sue opere: tra tutti, la mostra al Pac (Padiglione di Arte Contemporanea), dal titolo Luna-Pac Serafini, che ha registrato in 30 giorni più di 11.000 visitatori, e "Geometrindi e Matematindi", un grande tondo dipinto per la Sala Consiglio del Dipartimento di Matematica del Politecnico di Milano.


"Geometrindi e Matematindi". Fonte: mate.polimi.it
In occasione della realizzazione della metropolitana a Napoli, nel 2003 ha elaborato alcune decorazioni presso l'uscita della stazione Materdei.
Una sua produzione l’ha portato particolarmente vicino a noi – in provincia di Sondrio: nel luglio 2008 ha realizzato l'installazione "Balançoires sans Frontières" (Altalene senza Frontiere) a Castasegna, lungo il confine italo-elvetico: la struttura permette di dondolasi tra le due Nazioni confinanti.

La sua notorietà è divenuta tanto famosa da essere chiamato anche fuori d’Italia per prendere parte a progetti artistici e sperimentali.

Ora, non sappiamo se vi abbiamo detto tutto. L'unica cosa di cui siamo certi è che ognuno può "leggere" e interpretare il Codex a suo modo, divertendosi o rimanendo perplesso, criticandolo o promuovendolo. Per questo quella del Codex è una storia infinita. Quello che speriamo è che anche voi possiate continuare questo progetto liberatorio e creativo, lasciandovi stupire una volta ogni tanto da questa strana enciclopedia di visionari, sprofondando anche solo per un attimo in un'altra realtà!

mercoledì 11 novembre 2015

Quando l’estero ti dà una casa – in qualunque stato ti trovi

Ho preparato la mia partenza per la Polonia senza tanti cerimoniali, fino all'ultimo affannata tra le cose da ultimare e l’esigenza compulsiva di una stressante routine. Sono partita senza troppe aspettative, con l’unica speranza di trovare un po’ di tempo per me,  per staccare dalla quotidianità e anche per allontanarmi dal peso degli ultimi mesi.
Mi sarebbero bastati alcuni corsi interessanti all’università, giusto per mantenermi motivata, qualche docente intrigante e appassionato del suo lavoro, la garanzia di buone librerie e di posti sempre nuovi da vedere.
In fondo la nostra è la generazione della disillusione: siamo cresciuti nei ritmi di una politica stagnate, di un’economia decadente, imboccati a forza di spread, inflazione, disoccupazione e della costante certezza che non verremo mai ricompensati per gli sforzi e i sacrifici che faremo. L’Italia non è l’America dei self-made men (and women!).

Sicché sbarco qua, tante idee nella testa e altrettanti progetti nel cuore. E mi capita di parlarne, perché alla fine, se ci tieni a qualcosa, puoi essere disillusa quanto vuoi, ma sarà quella cosa che ti guida, che guiderà i tuoi pensieri e i tuoi movimenti, l’inconscio flusso delle tue azioni.
Scrivo qualche mail per esporre il mio progetto di tesi,  per cercare materiali, più per curiosità che per effettiva praticità d’uso. Vorrei sapere come fanno qui, come lavorano nelle scuole, negli asili, nell’enorme ambito della pedagogia per l’infanzia. Sono qui per studiare nella più antica accademia pedagogica della Polonia, “la novantenne Akademia Pedagogiki Specjalnej in Marii Grzegorzewska”, come canta il sito (http://www.aps.edu.pl/).
Mi ritrovo a parlare di intercultura, di integrazione, di progetti per l’infanzia. Scopro il mondo di Korczak, eroe del Ghetto di Varsavia, morto a Treblinka con i bambini del suo orfanotrofio. Ogni giorno a lezione mi  scopro a fissare la sua foto con rispetto, empaticamente legata a quello che loro considerano il più alto simbolo della dignità polacca.
Mi espongo su Bruno Munari, una passione davvero senza confini. Era lui che consigliava di portarsi sempre qualcosa da casa, quando si è in viaggio, qualcosa che ci ricordi le nostre radici. Per questo creò le “sculture da viaggio”: se dovessi creare la mia, sicuramente avrebbe le sue opere e il suo nome su ogni lato - come in una sorta di cerimoniale volto al culto della personalità.


Scultura da Viaggio, Bruno Munari, 1958. Fonte: Munart.org
Creatività, immaginazione, fantasia: sono queste le parole chiave su cui trovo riscontro, ciò di cui i bambini di oggi hanno bisogno. In Polonia come in Italia. Lavorare su ciò che non c’è, ma che potrebbe comparire, per aprirsi al contatto, al diverso, all’imprevisto. Per imparare a studiare nuove soluzioni di fronte all’incalcolato.
A molti dico che ho un libro speciale su cui lavorare, un libro che però non posso spiegare, perchè non si può capire finchè non lo si vede. Annuncio solo il suo nome, nella speranza che qualche curioso  si fidi di me e lo vada a cercare: Codex Seraphinianus.
È così, si potrebbe dire per la mia lingua troppo lunga e la mia entusiastica ingerenza – forse sarebbe meglio dire, come mi suggerì un’amica qualche anno fa, “per la capacità persuasiva che ottieni con i tuoi giri di parole” - che vengo invitata a parlare di tutto questo. Mettiamo subito le cose in chiaro: si è trattato “solo” di un workshop per insegnanti, non di una conferenza per la Pace. Ma quando ho ricevuto quella proposta, un sabato pomeriggio piovoso e già quasi invernale nella frenetica confusione di questa città, tutto per un attimo si è fermato. I pensieri, le emozioni, la ragione. Mi sono detta: cosa? Davvero a loro interessa quello che faccio?
In Italia, quando mi capita di parlare di Munari ai “non addetti ai lavori”  – quella che segue potrebbe essere una critica – ricevo sempre la medesima reazione: no, non lo conosco. Ah ma quindi che lavoro faceva? Era un architetto o un maestro? Ma quando è vissuto? Nel ‘900? E a questa reazione segue una fase di blando rilassamento sulla mia spiegazione, per poi disperdere il tutto nella leggerezza di una conversazione qualunque.

Assaggio di Bibliografia munariana. Fonte: Munart.org
Arrivo qua e “basta” uno scambio di mail per conquistarmi interesse, entusiasmo e soprattutto fiducia da parte di altrettanto “ignoranti” sul campo. Insomma, perché non è successo a casa mia? Abito a Milano da tre anni, la città delle grandi opportunità, in cui puoi trovare e avere tutto quello che speri. Ok, forse questa descrizione è eccessiva, ma io sono pur sempre una ragazza di campagna – o meglio:di montagna – e davvero la città rappresenta l’apertura, l’occasione, l’alternativa.
In più, se fossi stata in Italia, avrei avuto molti problemi logistici in meno…

Passata la fase di fibrillazione e sconcerto iniziali, cerco di organizzare le idee. Oddio: adesso cosa dico? Cosa preparo? Che linea seguo? E soprattutto mi rendo conto che mi mancano i miei libri: non solo nel senso che ne sento la mancanza, ma nel senso che mi mancano proprio, che non li ho con me. Per scarsa lungimiranza - e la solita questione della disillusione - non avevo seguito il consiglio di portarmi almeno il Codex – “almeno” si fa per dire: ingombro pari a 30x20cm per 2,3 kg – e nelle orecchie la voce “le opportunità si creano, sapevo che ti sarebbe successo”.
Domenica scorsa – 8 novembre 2015, per i posteri - arriva QUEL giorno, quell’occasione per la quale mi sono ritrovata a lavorare nelle ultime tre settimane.
Ho steso una bozza su come condurre il mio workshop, preparato un volantino – in polacco! – da dare ai partecipanti, sistemato le immagini da proiettare. Mi rassicuro nella consolante certezza che i libri di cui parlerò sono finalmente arrivati dall’Italia e che, con dei libri così,  se anche l’incontro dovesse andare male, se anche dovessi perdere il filo, se anche mi dovessi trovare spiazzata da qualche infida domanda, potrò sempre ripiegare sulla loro connaturata attrattiva.

Volantino in versione polacca (Serena Saligari © 2015)
Sono preoccupata che il mio traduttore non si barcameni nel mio “inglese”, unica lingua tramite tra me e i polacchi. Ho 42 occhi puntati su di me, 42 occhi che sicuramente, per quanto io possa essere insignificante,  stanno facendo elucubrazioni mentali su quali possano essere la mia età, il mio lavoro, le mie competenze e  soprattutto sul cosa ci faccio io italiana di anni 21 – nel frattempo l’età l’avranno scoperta - a parlare in un workshop sull’intercultura in questa fredda città del Nord Europa.
Ma in realtà appena inizio a parlare, a toccare i libri e a sfogliarli per insegnare qualcosa, per comunicare un po’ delle mie passioni e delle mie idee, non appena muovo le mani per gesticolare – è molto folcloristico, tra questi slavi riservati – e mostro qualche foto dei nostri lavori in Italia, dei nostri progetti, delle nostre attività, mi sento come a casa. È stato in quel momento che mi sono resa conto di che cosa vuol dire per me “casa”:  non l’Italia, non la Valtellina e nemmeno il posto in cui sono nata. Con quel “casa” intendo l’accogliente e rassicurante alveo delle cose che mi piace fare, su cui amo investire. “Casa” è quello su cui spendo energie, tempo e denaro nella costante certezza che mi farà stare bene, qualunque che sia il guadagno. “Casa” è il posto in cui puoi tornare anche se sei lontano, immergendoti nella certezza che sei lì per fare quello che ami fare.  Quella domenica pomeriggio, “casa” ha rappresentato finalmente la certa via da percorrere, in una giovinezza che ti indaga e che ti scava dentro perplessità e interrogativi.

Ah sì: il pubblico. Beh ovvio, l’incontro è andato bene, altrimenti non sarei qui a parlarne. Tutte le insegnanti erano attente e interessate. Molte si sono addirittura sforzate di usare il loro inglese maccheronico – oddio, come sarà la versione polacca di maccheronico? Pierogico? – per farmi delle domande specifiche sui risultati che abbiamo potuto riscontrare nei nostri lavori in Italia. La signora più anziana del gruppo ha addirittura voluto che le facessi vedere come ordinare il Codex tramite internet, per poi dirmi che mi contatterà se non dovessero spedirlo in Polonia!
Copertina del Codex Seraphinianus (Ivan Previsdomini © 2015)
Il perché di questa occasione qui, e non in Italia, non mi è chiaro. Forse è solo il Caso, forse la Ruota della Fortuna o forse una decisione scritta nel mio personale Destino. Forse dipende dal fatto che in Italia le idee sono spesso intralciate dai mille ostacoli che siamo bravi a crearci. Forse, invece, dipende dal fatto che in Polonia sono assetati di novità e occidente. Forse la Polonia è solo una nazione tra tante, poteva succedermi in qualsiasi stato del Mondo: ma comincio a pensare che questo freddo Paese sia più accogliente di molti altri  Bei Paesi.
Quello che però mi piace vedere con i miei occhi e sentire sulla mia pelle sono il risultato e l’emozione di essere riuscita a fare quello che da tempo speravamo. Portare Bruno Munari e l’idea del Codex all’estero.

La Polonia mi ha offerto un posto per la mia “casa” ed è bello sapere che, se vorrò, potrò continuare a spostarla.