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venerdì 26 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLV: storie sudanesi, pt.2

Quando arriva all'aeroporto di Amman, Mohammed indossa solo una maglietta: è febbraio, nevica.
Tra le tante cose che non si aspettava da questo paese, ricorda la neve come quella più assurda di 5 anni in Giordania.
Scende dalla scaletta dell'aereo e respira a pieni polmoni quella libertà e quella sicurezza finalmente raggiunta.
Sale su un taxi e si fa portare in centro città. Il taxista vuole fare conversazione e capendo che è nuovo e disorientato, lo lascia nei pressi di un bar sudanese, in downtown.
"Noi, in quanto comunità sudanese, ci aiutiamo gli uni gli altri". 
É sicuro che lì troverà qualcuno cui affidarsi. "Ehi amico, come stai? Sei appena arrivato? Darfur? Tranquillo amico, vieni a casa mia".
Ali, il suo primo "fratello" sudanese in Giordania, lo porta a casa sua. "Wallahi*, cinque coperte mi ha portato", dice a mo' di battuta ricordando il freddo di quel giorno.
Così, dopo le procedure del caso (UNHCR, registrazione, commissione) comincia a lavorare.
In questi 5 anni a Mohammed ne sono successe veramente di tutte: mentre mi racconta la sua storia con fare concitato non faccio fatica a credere a quello che mi dice. É un ragazzo nerboruto di 25 anni, ha un fare animoso e agitato. É pieno di energie, di forza, di vita. Mentre parla, sembra sempre che le vene del collo siano sul punto di esplodere. Mentre facciamo l'intervista un suo inquilino attraversa la stanza e mi dice "ehi Serena, hai mai incontrato un pazzo del genere in Europa?".
Mh, in effetti no.
Ha una vita da Rambo: ha rischiato di essere deportato in Sudan 3 volte e 3 volte è scappato. Due volte per essere stato "beccato" a lavorare illegalmente, una volta durante la deportazione del 2015.
Mentre parla, si fa beffe dei poliziotti con cui l'ha fatta franca. In effetti, a sentire con quali assurdi stratagemmi è scappato, anche io ho pensato "che poliziotto scemo".
"Solo, usa la tua mente. Non c'è tempo per gli altri, se tua madre è con te e devi metterti in salvo, lascia tua madre e scappa". Mi chiedo cosa abbia passato in Darfur per acquisire questa filosofia di vita, ma del Darfur non vuole parlare, quindi proseguiamo.
Le sue disavventure sono così concatenate che a volte gli sono state d'aiuto le une con le altre.
Ha rischiato di perdere una mano mentre lavorava in una cava, utilizzando un macchinario per tagliare i sassi. I pantaloni si sono incastrati negli ingranaggi e stavano per stritolarlo. Quando il collo era così vicino alla sega, ha avuto l'istinto di spingersi indietro con le mani. É salvo, per questo, ma se l'è vista brutta. 
La mano destra è piena di cicatrici, ma in fondo la muove bene. Dice di essere stato portato subito all'ospedale: i medici parlavano solo inglese e a quel tempo lui non capiva che l'arabo. Una cosa era chiara, se qualcuno non pagava l'operazione, avrebbero amputato. La rete di solidarietà si mobilità, i suoi amici fanno pressione sul capo e lo implorano di pagare. Mohammed è disposto a rinunciare ai 2 mesi di paga arretrata e a denunciare l'accaduto. Chiede solo di essere curato. "Se ti facessi vedere le foto, Wallahi, ma sei una ragazza!". Ride, e scherza sull'accaduto.
Era insieme ai quasi 800 cittadini sudanesi che protestavano fuori da UNHCR in quel capodanno gelato del 2015. Quando la polizia viene a sgomberare - che brividi "politici", questa parola - lui indossa ancora un cumulo di bende. Ha la prontezza di nascondere il suo passaporto lì sotto: mentre i suoi compagni vengono caricati sui bus, con la promessa "you are going to Canada", lui viene fatto aspettare per essere identificato. Nella confusione, nessuno si cura di lui, sale su un'ambulanza, si fa piccolo piccolo e rimane lì, nascosto tra le attrezzature mediche, finché il mezzo non parte, incurante di quella presenza non autorizzata. Dall'ospedale in cui approda, ai margini di Amman, scappa e torna a casa. 
A farsi beffe dei poliziotti, mentre il TG trasmette le immagini di una deportazione tanto controversa quanto ancora irrisolta, che ha visto oltre 700 sudanesi rimpatriati nella terra inospitale da cui erano fuggiti. In barba alla convenzione di Ginevra - che la Giordania, scaltramente, non ha mai ratificato - ai protocolli d'intesa e al sacro santo diritto umani al non refoulement.
Alcuni di loro, mi dice, ora sono in Europa. Altri, sono morti in mezzo al mare. Questa è la meno triste delle ipotesi, perché almeno non sono stati uccisi dalle milizie connazionali che continuano la pulizia etnica del Darfur.
In questi anni Mohammed ha rotto anche una gamba, ha cambiato 32 lavori e avuto mooolto ragazze. Questo, a detta sua. 
Ora si bea di quegli 80 jd che riceve dalle Nazioni Unite per via dell'incidente e vive così, arrotondando con qualche giornata lavorativa al mese.
Nel frattempo, studia inglese e un corso di Social Worker online. Soprattutto, balla come non ci fosse un domani, balla in continuazione, balla intorno al mondo.
Per la sua spavalderia, per il suo cinismo, per la sua apparente freddezza e per il suo forzato distacco dalle cose, per il suo fare un po' cialtrone e per il fatto che non sta mai zitto, si potrebbe odiarlo. 
Ma tutti lo adorano, anche io, anche quando, ogni volta che mi invitano a un party, mi trascina verso il centro della sala e mi obbliga a ballare con lui: "vedi che sono guarito bene?".


* Wallahi: tipica esclamazione araba che significa più o meno "giuro su Allah"

mercoledì 17 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLII: storie sudanesi


Anche per Aziz è arrivato il giorno del commiato, della partenza, del salvataggio. La sua famiglia ha deciso che non c'è più tempo per metterlo in salvo, raggiunta quell'età pericolosa in cui sei giovane e forte e diventi bersaglio prediletto per le milizie del governo.
I demoni a cavallo, così li chiamano in Darfur, uccidono chiunque possa unirsi ai "ribelli". Ovviamente, non c'è modo di convincerli che loro sono solo una famiglia come tante, dedits all'agricoltura e al commercio su piccola scala.
Aziz parte, con il cuore in gola e con l'unica speranza di rivederli ancora. Con l'unico desiderio che un giorno possa riabbracciare mamma, papà e le sue tre sorelle. Non importa quanto si debba aspettare, l'importante è saperli vivi.
Ad oggi, sono passati dodici anni. Aziz li conta, dal 2006 ad oggi, sulle dita delle mani. Sono troppi, eppure non ha perso la speranza. Per anni non ha avuto loro notizie. Solo quando ha lasciato il Sudan per venire in Giordania, con molti dubbi e con l'unico desiderio di tornare in Darfur anche solo per qualche ora, un lontano cugino lo ha sconsigliato. "La situazione peggiora", dice. Peggiora, peggiorare rispetto a cosa? 
Aziz ha vissuto per otto anni nella periferia di Khartoum. É arrivato nella capitale vagando come un pazzo, senza contatti o persone fidate.
Qualcosa lo ha spinto a rifugiarsi in campagna, ai lati della città.
 Un giorno si sveglia e c'è un uomo che lo chiama, incuriosito da quella presenza ai margini del suo podere. É un contadino, sembra "innocuo", ma Aziz non si fida. Sa bene che il governo ha messo spie in ogni dove per trovare i Darfuriani e continuare il massacro.
Resta sul vago, ma il suo accento è chiaro e teme il peggio. Ma la fortuna vuole che ha incontrato un uomo mite e di cuore: lo porta nella sua fattoria, gli dà da mangiare, gli permette di dormire in un posto coperto.
Aziz è un "omone": fatico a immaginarlo timoroso, spaurito, spaventato. Eppure non ha problemi ad ammettere che per giorni è morto dalla paura, aspettando qualche "ufficiale" del governo che lo uccidesse lì, in quella fattoria ai margini della capitale.
Ma i giorni passano e nessuno arriva. Il buon uomo comincia a sembrargli fidato. Aziz non ha piani, non ha un posto alternativo dove andare nè un lavoro da cui ricominciare.
Così accetta di rimanere e di aiutare quel sudanese "puro", senza geni darfuriani o cristiani, a portare avanti la sua fattoria.
In quegli otto anni imparerà un mestiere, si occuperà delle bestie, della mungitura, del raccolto. Ogni azione gli ricorda i bei tempi in cui, col padre, curava la campagna e poi tornava a casa e trovava la madre intenta a cucinare i prodotti del loro raccolto. Il Darfur era una terra rigogliosa, ricca di acqua e di risorse. La maggior parte della popolazione era ricca rispetto alla media sudanese, ognuno aveva una fattoria, del bestiame, ognuno era impiegato nel commercio su piccola scala. Una terra da depredare, almeno dal colpo di stato del 1989.
In quegli anni Aziz si impegna soprattutto in una missione: dimenticare le sue origini. Ogni giorno pratica il dialetto locale, nella speranza di perdere il suo accento. Ogni giorno impara usi e costumi del posto, cercando di nascondere le sue origini.
Nel frattempo, ha messo via un po' di soldi e decide di iscriversi all'università. Continuerà a lavorare nella fattoria, facendo da "pendolare" tra la campagna e la città.
Il primo giorno di università, un uomo gli si avvicina e gli chiede "ehi amico, da dove vieni?". Aziz ha un tremito. "Da Khartoum". "Da Khartoum? Non sembri di qui! Non assomigli alla gente di Khartoum". "Ma sì, sono di Khartoum, è che vengo dalla campagna". "Ah, dalla campagna, ecco il perché di questo insolito accento". Aziz è conscio che quella possa essere una spia. Sta per mostrargli il passaporto, con il suo nuovo "National number". Ma poi lascia correre, cerca di sembrare disinvolto.
Aziz si è laureato in Business and Administration. Poi è venuto in Giordania, perché la cosa più importante per lui è "connettere le persone, continuare ad avere speranza, dare un senso alla propria vita anche fuori dal Sudan". 
Oggi lavora in una NGO che si occupa di rifugiati. Qualche giorno fa è riuscito a recuperare il numero della sua famiglia, grazie all'incredibile solidarietà africana. La sua famiglia ora vive in un campo profughi in Sudan. Ha parlato con sua madre dopo dodici anni. Mi chiedo come faccia ad essere così forte, così positivo, così grato. Mi chiedo come faccia ad anteporre ancora la speranza alla malinconia, alle preoccupazioni e al dolore. 
Quando arriva a casa mia è voglioso di parlare, è eccitato dall'idea di raccontarmi la sua storia.
Quando finisce di parlare, mi abbraccia e mi dice "I am sorry, this is too much for a girl".
For a girl. 
Attonita, resto lì immobile a cercare di immaginare la sua vita. Nel frattempo, Aziz prepara un tè, in un certo qual modo, mi consola.
Poi sdrammatizza: "sono vivo".

martedì 16 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XLI: l'uomo nero, in Giordania.


In Sudan, nell'indifferenza della comunità internazionale, si sta compiendo uno dei più atroci genocidi della storia contemporanea.
Prima di iniziare la mia ricerca in Giordania, non sapevo quasi niente del Darfur. A mala pena sapevo collocarlo sulla mappa e ciò che balzava alla mia mente erano scene di guerra e distruzione che posso aver visto solo in un qualche film - tipo nell'inizio di Blood Diamonds.
Quando ho iniziato a parlare con questi ragazzi, rifugiati in Giordania dal Darfur, ho scoperto tante cose. Soprattutto, ho scoperto che lo scenario che immaginavo è molto peggiore nella realtà.
Ogni giorno spendo ore con questi ragazzi, nelle loro case, al parco, in downtown. Beviamo un goccio di Whisky, andiamo a mangiare uno knafeh e fumiamo qualche sigaretta, anche se è "haram". E parliamo, parliamo, parliamo di sogni infranti e di atroci verità. 
Sono tutti uomini, tutti tra i 20 e i 30 anni, tutti soli. Soprattutto, sono tutti orgogliosamente neri in un mondo che non li vuole.
Io faccio loro qualche domanda per la mia ricerca, ma ogni volta realizzo che è impossibile contenere le loro storie nella rigidità della mia "intervista strutturata".
Allora accendo il registratore, poso la penna e li lascio parlare. Ascolto le loro parole con angoscia e ammirazione per quello che hanno passato e per come sono riusciti a superare quelle difficoltà.
Nel mio cuore sono così grata e cosi stupita che si fidino di me e che mi raccontino vicende tanto personali. Non credo di aver fatto niente per meritarmelo, se non aver mostrato interesse per la loro situazione. Ci sono frasi che mi rimarranno sempre impresse nella mente e so che la narrazione in prima persona incisa sotto forma di note nel mio registratore, è irripetibile.
Sono tutti giovani della mia età, belli, forti, e pieni di vita. Sono tutti giovani della mia età, scappati dai miliziani che li avrebbero reclutati o uccisi.
Chiedo delle loro famiglie e so che quasi sempre scuoteranno la testa e passeranno oltre. C'è chi non sa più niente di loro, chi racconta che solo le donne sono superstiti, chi, con dignitosa rassegnazione, prende su di sé tutte le responsabilità dicendo "noi non ce l'abbiamo con nessuno, è il nostro stesso governo che ci ha uccisi".
Questi ragazzi vogliono solo vivere in pace, dopo che il loro governo ha iniziato a massacrarli in nome di qualche tribalismo. In Giordania affrontano decine di problemi ogni giorno, ma almeno sono al sicuro. E di questa sicurezza sono così grati da non darla mai per scontata.
Attendono ogni giorno una chiamata da UNHCR, sperando di essere stati scelti per il ricollocamento. C'è sempre qualcosa (o qualcuno) che si mette in mezzo, e loro rimangono qui, infangati in una situazione paradossale di sopravvivenza e di attesa.
Molti avrebbero voluto tentare la via della Libia, ma - insha'Allah! - sono stati consigliati verso la Giordania, più facile e sicura da raggiungere. Ognuno di loro ricorda qualche amico che si è perso in mezzo al mare. 
É così che arrivano a chiedermi dall'Italia, e allora divento io il bersaglio dell'intervista. In una delle loro case c'è una grande carta geografica dell'Africa, appesa al muro. Ognuno si avvicina, traccia il suo percorso. Poi tocca a me - perché i ragazzi proprio non si spiegano perché io sia voluta venire in Giordania, se i rifugiati ce li avevo in casa. Allora provo a semplificare: parlo di Lampedusa, dei salvataggi, dei ragazzi come loro che ho incontrato nei CAS e nelle comunità.
Parlo dei miei amici neri che sono in Italia e aspettano, aspettano, aspettano anche loro, ogni giorno, per qualcosa che non si sa se arriverà. E la loro empatia è così forte che sento di essere il loro tramite, sento che vorrebbero connettersi con loro, conoscere le loro storie, confrontarsi su questi percorsi così diversi ma così simili nei motivi della fuga.
Io sto lì, a metà tra lo sfinito e il disilluso, a cercare di dipingere un'Italia che oggi potrebbe essere migliore, ma che, invece, va cercando qualcos'altro. Che si è rassegnata all'odio, alle accuse, alla via facile di un capro espiatorio.
Non me la sento di mentire, di dire che le cose vanno bene, che l'Italia è un posto ospitale. Non me la sento di dire che lì saranno al sicuro, perché ogni giorno c'è un nuovo caso di violenza razziale e un nuovo attacco politico agli "immigrati". Perché ogni giorno noi italiani preferiamo mistificare la realtà e creare un nemico ad hoc per tutti i nostri problemi, piuttosto che uscire dalle nostre case, dai nostri preconcetti, dalle nostre paure e incontrare qualcuno di loro. 
"Portami via, che mi sento di morir". 
Tiro un sospiro di sollievo quando qualcuno mi dice "Io voglio andare in Canada".
Io so di parlare da una posizione privilegiata, so che le mie riflessioni possono sembrare semplicistiche, sentimentalistiche e pure un po' spocchiose. So di avere un passaporto forte e mi muovo disinvolta nei privilegi di questo neocolonialismo, ben conoscendo il trattamento preferenziale riservato agli stranieri d'Occidente.
Eppure, ogni volta che raccolgo una delle loro storie sono grata a me stessa per non essere razzista. Sono grata a me stessa per essermi sempre data la possibilità di incontrarli, di parlare con loro, di accettare il loro cibo, le loro storie, la loro musica. Ogni volta che vado in casa loro e le persone si moltiplicano intorno a me perché vogliono aggiungere un pezzo della loro storia alla mia ricerca, ogni volta che perdo la cognizione del tempo e resto a casa loro fino a tarda sera, ogni volta che mi alzo in piedi e spiego loro l'Europa, i confini, Ventimiglia, Calais e il sistema di Dublino, ogni volta che io, unica donna in mezzo a tanti uomini neri, torno a casa e me ne sto sola, finalmente, nella mia stanzetta, sono grata a me stessa per non aver avuto paura.
É la paura, che ci fotte ed è sulla paura che stanno giocando.
Io non ho paura, e ogni giorno realizzo che non c'è posto più sicuro in Giordania in cui io possa stare delle umili case dei miei amici Sudanesi.
A volte pure io mi meraviglio. Mi meraviglio della loro intelligenza, della loro voglia di studiare, della loro lungimiranza, della loro consapevolezza del mondo.  Mi meraviglio e mi vergogno per come siano consci degli stereotipi che si perpetuano su di loro - primo tra tutti l'idea del maschio nero ipersessualizzato, su cui cercano sempre di sdrammatizzare. In fondo pure io sono preda dei preconcetti e più di una volta ho pensato che fossero ignoranti, semplici, sprovveduti. Ma l'altro giorno un ragazzo mi ha detto "tutti pensano che siamo neri e quindi siamo scemi e, soprattutto, siamo poveri. Come se fossimo nati poveri, come se questa fosse la nostra natura. Nessuno pensa che avevamo una vita normale, prima. Nessuno pensa che avevamo una vita come la loro". Ecco, una vita come la loro, cioè come la nostra. 
La paura di un nero uguale a noi, la paura di un nero che vive come noi, la paura di un nero che ha una vita come la nostra.

Proverò a raccontare qualcuna delle loro storie, nei miei prossimi racconti. Foss'anche solo per dimostrare che quelle di oggi non sono solo delle riflessioni sentimentali ed estemporanee a conseguenza di qualche intervista troppo toccante. Ognuno di loro merita di essere incontrato e ascoltato. C'è sempre qualcosa da imparare, almeno secondo me.

giovedì 11 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXVIII: il mercato di Amman

Credo che tutti noi occidentali siamo un po' affascinati dai mercati: intendo dai mercati confusi e chiassosi dei paesi 'in via di sviluppo".
Per qualcuno sono addirittura il posto più affascinante di una città, come se solo lì si potesse trovare l'essenza del luogo, lo spirito vero e locale. Nella massa delle persone che si muovono, nella confusione e negli schiamazzi, il turista sente di aver raggiunto la vera immersione nel luogo.
La prima volta che sono andata a "down town" alias ho sceso 300 scalini per raggiungere la base del colle ove giace la parte vecchia della città, sono rimasta shockata.
In Giordania tutto succede sui marciapiedi - un po' come in India, tra l'altro: le persone che vivono di 'espedienti' mettono a frutto la loro creatività e svolgono le attività più improbabili. Tutti venditori abusivi di merci impensate che credono facciano gola agli stranieri.
Ma è quando varchi l'ingresso del mercato che devi essere davvero pronto: i palazzi si avvicinano, la via diventa più stretta e più buia, sopra le teste pendono dei teli che "proteggono" dal sole, rendendo l'atmosfera più cupa e in qualche modo asfissiante. Le merci "strabordano" sull'asfalto, i banchi ove sono esposte frutta e verdura sembrano in difficoltà nel contenere il tutto.





Non si tratta di un vero e proprio mercato: non è ambulante, i venditori sono sempre gli stessi e occupano gli anfratti al piano terra di vecchi palazzi. Non si intuiscono più le case, si vedono solo tramezzi che dividono gli spazi espositivi.




La gente urla 'nus dinar, dinar, dinarin" e così via come una litania: "mezzo dinaro, un dinaro, due dinari".
Si vende di tutto, ma con "ordine": forse per non farsi troppa concorrenza oppure per non confondere l'acquirente, le cose sono disposte per genere. La frutta e la verdura da una parte, insieme a spezie, semi e frutta secca a me sconosciuta. Formaggi, dolci, pane.


 

Se devii a sinistra, ti imbatti nelle "cose di casa", mischiate a vestiti, tendaggi, negozi interi dedicati a saponi e cianfrusaglie tanto colorate quanto inutili.
Insomma, non troveresti mai un banchetto di frutta o verdura, qui. 

Oltre ai venditori ufficiali, ci sono poi quelli estemporanei che, seduti sul cassone del loro mezzi, ti offrono i miglior frutti della nazione - a detta loro, ovviamente.
Tutti cercano di attaccare bottone e mentre i locali affannano per guadagnare l'attenzione del venditore, questi è tutto concentrato su di te, impavida occidentale che sfidi il muro del suono e ti addentri nel caos del mercato.



"Welcome to Jordan", "تفظلي", "very nice" - questo è il più buffo degli approcci perché tutti gli uomini Giordani pronunciano queste 2 parole con la stessa inflessione - riproducibile allungando disperatamente la 'i' di nice.
Non puoi esitare, ovviamente. Devi andare decisa dal venditore che ritieni più affidabile e fargli capire a gesti, in inglese e in misto arabo, cosa vuoi.
Come capire se è affidabile? Non c'è un modo per saperlo prima: se ti sorride e ti offre cose gratis, è affidabile. Se ti sorride e cerca di rifilarti cose che non hai chiesto, ti sta fregando.
Il trucco sta nel dire quanto vuoi spendere per quella merce: tipo '2 dinari di pomodori", "1 dinaro di melograni". Io ho lasciato perdere la contrattazione, sia perché le cose sono davvero economiche qui, sia perché, se il venditore è onesto, ti prenderà in simpatia e ti farà un buon prezzo a prescindere.
Un altro trucco sta nel procedere sempre con passo spedito, gettando l'occhio ad ampio raggio in modo che quando passerai la seconda volta, avrai già deciso dove fermarti. Mai esitare, se non vuoi essere rapita dall'accalappia stranieri di turno.
Insomma, ci vuole tecnica per fare la spesa al mercato, soprattutto ci vuole molta molta pazienza per farsi largo tra le donne Giordane che si fermano ogni due passi e stanno in mezzo, incuranti del prossimo loro.



Soprattutto, non bisogna avere il mal di testa, perché le urla dei venditori sono davvero moleste e possono peggiorare da un momento all'altro. Se iniziano a cantare canzoncine tra di loro, si rimpallano le strofe dando vita a un canto polifonico senza precedenti.
E così, in quel rumore, in quella confusione, in quella claustrofobica quotidianità giordana, ogni volta sento di aver affrontato e vinto una sfida.
Insomma, meno Carrefour, più mercato! 

martedì 2 ottobre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXV: la pioggia, l'autunno.

Ad Amman l'autunno arriva bussando, timido e pacato. Si presenta con la pioggia in tarda serata, quando quasi tutti già dormono, quando i locali chiudono e quando i giovani cercano un posto dove temporeggiare in compagnia, ancora per qualche minuto.
Lo fa con delle gocce grosse, ma solitarie. Col passare dei minuti, sembra che quelle porzioncine d'acqua si chiamino tra loro, con un suono che è sempre più intenso, sempre più "allegro".
Ma "allegro non troppo'', vogliono solo affrontare in gruppo la loro timidezza, dopo tanti giorni trascorsi in qualche nuvola continuamente sospinta verso l'alto dal calore del deserto.
Ora cominciamo ad essere tante. Non è più solo una sensazione sulla pelle, una macchiolina sugli occhiali: le gocce si moltiplicano. Piove.
E mentre i pochi nottambuli si accorgono di quello che sta succedendo, le gocce perdono la loro timidezza e si scatenano.
Sempre più allegre, sempre più impavide nell'oscurità protettiva della notte.
Possono scrosciare a piacimento, finalmente libere, finalmente legittimate da un cielo sempre più grigio, che nei giorni precedenti si era preparato per loro.
E vibrano, e rendono l'aria frizzante. Rallegrano gli spiriti, ammutoliscono gli increduli. Piove, dopo settimane di caldo schiacciante, di afa cocente, di serate come oasi nell'arsura della giornata.
Piove, piove acqua mista a una sabbia fine che domani mattina avrà lasciato la sua traccia sulle macchine immacolate dei Giordani.
Piove, mentre stupita mi godo quest'atmosfera e realizzo che non si tratta di una pioggerella estiva, ma di un principio di autunno. Per la prima volta, realizzo che l'estate sta finendo anche qui e che il tempo scorre, troppo in fretta.




domenica 30 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXIV: 10 COSE che NON immaginavi su Amman

1 - Come Roma, fu originariamente costruita su 7 colli, detti Jabal.
Ma oggi la città si è espansa così tanto da occuparne quasi 20.

2 - I nomi delle strade e delle vie sono stati introdotti da poco, motivo per cui nessuno li conosce.
Se vorrai orientarti in città o raggiungere la tua meta, dovrai dare al tuo autista dei punti di riferimento più conosciuti, come i "cerchi".

3 - Ebbene sì, la città è divisa in 8 cerchi, delle enormi rotonde che fanno da raccordo tra i vari colli. Non puoi sopravvivere ad Amman senza tenerli in considerazione ;-)

4 - Non esiste rete idraulica
Sì, dimenticatevi le condutture sotterranee: l'acqua ad Amman "sgorga dai tetti", ove sono posizionate delle grandi cisterne. Per questo motivo, l'acqua è assai limitata e potrebbe improvvisamente finire nel bel mezzo di una doccia.

5 - Non c'è acqua in città.
Le cisterne vengono rifornite settimanalmente casa per casa, con l'acqua pompata dalle Oasi del deserto Orientale - che si stanno prosciugando!

6 - La città è divisa in Amman Est - la parte più popolare e tradizionale - e Amman ovest - la zona più moderna e fancy, copia mediorientale dell'Occidente.

7 - E' detta città bianca.
Questo per via del colore delle pietre calcaree utilizzate per costruirla, che sono importate dal sud e dal nord-est del paese e vengono rigorosamente lavorate a mano. 

8 - All'epoca dei Greci, si chiamava Philadelphia.
Ma di tutti i nomi di Amman vi ho già ampiamente parlato qui.

9 - Sorge su un altopiano situato a circa 1.029 metri.
Cosa abbastanza curiosa se si pensa che con nemmeno un'ora di macchina si raggiunge la depressione del Mar Morto, a oltre 400 m sotto il livello del mare.

10 - Metà della popolazione Giordana vive qui.
Su una popolazione di circa 10 milioni di abitanti, 4 milioni e 955 mila vivono ad Amman, motivo per cui la densità di popolazione è molto alta - 2 973,21 ab./km².






sabato 29 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXIII: Hashem, la cucina universale

Dopo un mese in Giordania, ho definitivamente deciso che Hashem è il posto più tradizionale in cui si possa mangiare.
Non che serva un mese per accorgersene: appena si scende "in città", ovvero si raggiunge il "balad" -  بلد - ci si scontra fisicamente e acusticamente con la folla di avventori che dal cortile interno straripa sulla strada. 


L'atmosfera è quella di un centro commerciale nel periodo natalizio, con lucine e fronzoli che penzolano da ogni dove e che giacciono indisturbati almeno dal '52, anno di istituzione di questo locale.
Qualcuno lo classifica come un posto da street food, ma credo che nessun locale abbia mai resistito alla tentazione di sedersi, anche solo per un attimo - che poi, qual è la concezione di "un attimo" in Medio oriente? - in questa specie di piazzetta ricavata tra due palazzi. Probabilmente il proprietario non si aspettava tale successo e, negli anni, l'unica soluzione che ha trovato per accogliere le frotte di avventori, è stata quella di "addestrare" i suoi camerieri ad essere velocissimi nel servizio. Ci è riuscito, ma con la sola condizione che essi possano urlare a squarciagola da un lato all'altro della corte, comunicando tra loro ciò che manca in questo o in quel tavolo, cioè che è urgente preparare e soprattutto inframezzando l'atmosfera con cadenzati "shai, shai" - الشاي, perchè il tè non può mancare, mai.
Quando trovi la forza di affrontare il primo muro di persone e trovi posto, sarà tutto più semplice: innanzitutto, perchè non c'è un menù. I camerieri ti portano un po' quello che vogliono loro, in base a quante persone siete. Ovviamente, tutto esclusivamente vegetariano. Se non sei solo o se avranno abbastanza motivi per pensare che il tuo stomaco sia in grado di reggere e di non avanzare cibo, ti porteranno il menù completo ovvero falafel, hummus, mutabbal - la famosa crema di melanzane - e una crema di fave che prende il nome di ful medames - فول مدمس.
Ovviamente, il tutto accompagnato da una buona dose di pane e dall'immancabile "insalata" di contorno, che consta di cipolla cruda, menta e pomodori tagliati malamente. Se sei audace, puoi provare quella specie di salsina piccante che è sempre a disposizione sul tavolo, ma se sarete furbi, capirete che tutti quei semini bianchi saranno indice di una piccantezza inquantificabile.


Sfortunatamente, ero troppo impegnata a mangiare - e a digerire! - per cui le mie foto sono di scarsa qualità, ma vi consiglio di guardare qui se vorrete avere una conferma che da Hashem anche l'occhio ha la sua parte.
La cosa divertente, è che il link cui vi rimando dice esattamente le stesse cose che ho scritto io, motivo per cui ho dedotto che l'esperienza culinaria di Hashem ha dell'universale e, dopo essere stati qui, tutti proveranno le stesse identiche emozioni.
D'altronde, hummus e falafel mettono tutti d'accordo: giordani e palestinesi, locali e stranieri, vegani e onnivori. 
Forse, certe risoluzioni dell'Onu andrebbero discusse qui, in questa atmosfera caotica e drammaticamente soddisfacente. Ne avremmo tutto di guadagnato!



mercoledì 26 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXXI: un mese dopo, "tutto si trasforma"

Oggi è un mese che sono in Giordania e immagino che vi aspettiate da me una lunga serie di sproloqui melancolici su ciò che mi manca dell'Italia, su ciò che ho imparato stando qui, sulle cose belle che ho visto etc etc etc.
Il fatto è che sapete benissimo come ho speso questo lungooo e velocissimo mese mediorientale, quindi oggi vi metterò al corrente dell'unica cosa davvero importante che serve sapere quando si vive in Medio Oriente e di come essa stia intaccando profondamente la mia natura ;-)
Nulla è programmabile, tutto si trasforma - sì, questa l'ho presa in prestito dalla legge fisica di trasformazione della massa, che in realtà recitava "nulla si crea, nulla si distrugge, tutti si trasforma".
In Medio Oriente funziona proprio così: tutti i piani che avevi fatto per la giornata si distruggono perché l'imprevisto, il ritardo e l'imponderabile sono sempre dietro l'angolo. Ma tali piani si trasformano in qualcos'altro, in qualcosa di incalcolabile che non ti aspettavi di fare oggi o non così presto o non in questo momento - come se dovesse per forza esserci un momento giusto per tutto.
I tuoi piani si trasformano: tipo ti svegli la mattina e pensi "bene, oggi lavoro un po' sulle mie interviste e poi studio un po' di arabo". Invece salta fuori qualcosa di improvviso tipo che una persona che stavi cercando di contattare da tempo finalmente si palesa e ti fa notare che il suo tempo è contato quindi meglio prendere la palla al balzo.
Oppure pensi "oggi dormo": e invece no, perché il meeting che stavi programmando da settimane sarà proprio oggi e poi mai più.
Questo, come capirete, ti impedisce di pianificare qualsivoglia cosa, perché devi sempre essere pronto a rincorrere cose, persone e occasioni che sembra possano palesarsi nella tua vita solo per pochi secondi.
Tutto si trasforma, insomma, e sicuramente: nulla si crea.
Io ho deciso di lasciar perdere l'agenda, gli orari prestabiliti, il tempo dei pasti, il ritmo sonno-veglia e di adattarmi completamente alle richieste di questa città: c'è qualcuno che vuole andare a mangiare un mansaf, bene, "andiamo!", anche se sono le 10 di sera e questo è il piatto più pesante del Medio Oriente. Qualcun altro che vuole incontrarmi alle 2 di pomeriggio sotto il sole cocente? Perché no.
Qualcuno che vuole parlarmi della sua storia ma oggi, cioè fra 5 minuti perché il resto della settimana lavora? Ecco che prendo un taxi e volo dall'altra parte della città.
A volte, esco di casa e non so quando ci rientrerò. A volte, sopravvivo con 1 litro di latte e 2 uova in frigo, posticipando di giorno in giorno il giorno in cui farò finalmente la spesa. A volte, dico a qualcuno di voi "ci sentiamo presto" e poi scompaio per settimane.
La verità è che in questa città è meglio lasciarsi trascinare che andare contro corrente. È meglio partire e lasciarsi andare nel flusso di energie che la pervade piuttosto che fissarsi sui ritmi o sugli schemi precisi.
La verità è che ogni volta che esco di casa, faccio qualcosa di in-calcolato, di insperato, di in-cercato e vado avanti così, scoprendo cose che non mi immaginavo di trovare o che nemmeno sapevo esistessero.
La verità è che ogni volta che, sempre più tardi, torno a casa, sono piena di euforia - tanto che non riesco a dormire fino a tarda notte - ma mi ritrovo col sorriso sulle labbra e col cuore inebriato dall'atmosfera frizzante dei miei incontri.
E oltre a sapere che questa serendipità è un dono prezioso, divento sempre più vorace e ingorda di momenti, di occasioni, di "chi vivrà vedrà".
Chi mi conosce sa che questa è una vera svolta per me, che ho sempre cercato di intrappolare le mie giornate dentro la rigidità tipica di chi vuole massimizzare ogni istante, di chi vede ogni imprevisto come una perdita di tempo, di chi vuole che le cose vadano esattamente come ha previsto.
E invece ora mi sveglio in modalità zombie, vittima delle ore piccole, con la riserva di energie al minimo e la strategia interna di sopravvivenza che mi dice "lascia vivere". Tipo ora sono sul letto che scrivo a tutti voi e in realtà sarei dovuta essere in due cinema diversi con due gruppi di amici diversi. Invece non ci sono andata, perchè dovevo fare qualcosa di diverso, e ora sono qui, ad aspettare, sicura che qualcosa che ancora non so succederà.
Oggi avrei dovuto "fare i  compiti di arabo" e pianificare i prossimi appuntamenti per la mia tesi: ma la verità è che gli appuntamenti verranno da soli in un momento imprevisto di un imprecisato futuro. E quando succederà, avrò l'istinto di dire 'ma oggi non è il giorno giusto' e poi partirò e tornerò a casa realizzando che in realtà è andato tutto come volevo.
E le occasioni che dovrei crearmi, in realtà crescono e fioriscono da sole attraverso il gruppo di amici e conoscenti che ogni giorno si allarga e mi aiuta a incontrare qualcuno di fondamentale per la mia ricerca. Un gruppo di amici che, mi accorgo solo ora, è già più nutrito di quello stabilito in tanti anni di vita milanese.
Mi spiace se, alla fine di questo post, avrete il cuore in gola, come alla fine di un'accelerazione o al termine di una salita, ma la verità è che va letto proprio così, tutto d'un fiato. E non me ne vogliano i linguisti o gli amici letterati che inorridiranno di fronte a tale linguaggio da slang, ma questa sarebbe una questione da raccontare a parole, più che da scrivere. 
Ma tant'è, che dovrete accontentarvi, perchè l'imprevisto è bello, e anche la metamorfosi.


lunedì 24 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXIX: di religioni e confessioni


Chi non ha sentito, almeno una volta, la tanto quotata frase "prova ad andare nel loro paese con un crocifisso e a professare la tua religione, prova!"?
Beh, per quanto poco mi senta coinvolta dalle religioni, in Giordania puoi credere in quello che vuoi, e sì: puoi anche portare con te i simboli che ritieni indispensabili per essere più vicino alla dimensione spirituale in cui credi.


Questa è una delle prospettive di Amman che preferisco: la maestosa Moschea Blu si staglia a fianco della Chiesa Copta Ortodossa.
Siamo in pieno centro città, nel quartiere di Abdali, a poche centinaia di metri da casa mia. 
Al contrario di quanto si potrebbe pensare, la Giordania è uno stato islamico tollerante, con oltre il 6% della popolazione di fede cristiana. La maggior parte vive ad Amman.
La monarchia si è sempre dichiarata aperta e accogliente verso ogni forma di religione e forse è questa una delle ragioni più pregnanti per cui il Paese è stato meta di migrazioni così disparate. Storicamente gli Armeni, di fede cristiana, ma anche i Circassi e gli Iraqeni cristiani. Quest'ultimi, recentemente perseguitati da Isis, hanno trovato fisicamente rifugio in molte delle chiese che sono state aperte per loro.


Forse questo è uno dei motivi per cui vivere ad Amman è tanto rassicurante: per quanto ci si debba ricordare che è una metropoli quasi moderna ed invasa dagli stranieri (a proposito di migrazioni...), è bello trovare conferma che gli stereotipi sono solo stereotipi. 
La domenica mattina mi sveglio col suono delle campane, eppure tutte le mie giornate sono scandite dal canto del Muezzin. Alle 5 del mattino, ancora mi sveglio per il richiamo alla preghiera e nonostante il mal di testa cronico per la stanchezza accumulata, ogni giorno ingaggio discussioni aperte e sincere con i miei amici musulmani.
Non voglio semplificare, è noto che le religioni hanno sempre creato attriti tra le confessioni rivali, ma la Giordania è un microcosmo costellato da luoghi di culto di tutte le religioni, in cui le storie bibliche sopravvivono a fianco di quelle musulmane.
Non troverai un musulmano che ti scoraggi dall'andare al Monte Nebo, ove pare che Mosè sia sepolto, impossibilitato dal raggiungere la terra promessa o a Betania, nel tratto di fiume ove Gesù è stato battezzato.
Forse, la Giordania ha semplicemente fatto pace con la sua storia, senza trasformare i luoghi sacri in campi di battaglia e accettando serenamente la ricchezza mistica che possiede, al di là di fanatismi e prese di posizione dogmatiche.

sabato 22 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXVII: gelato arabo VS gelato italiano

Come al solito, quando manco un post, è perché sto mangiando qualcosa di buono. E anche ieri sera si è trattato di un dolce:, la "Booza" alias "il gelato arabo".
Siccome mi piace infierire sul cibo altrui e siccome il mio patriottismo sta cercando di resistere nonostante le pessime notizie che arrivano dall'Italia, sono stata punita.
Boriosa e supponente, alla proposta di andare a mangiare un gelato arabo, ho subito detto ai miei amici giordano-palestinesi che dovevano stare mooolto attenti perché, insomma, sfidare il gelato italiano non è saggio.
Ingaggiata la sfida, mi ritrovo da Bekdash e capisco subito di aver perso: c'è una fila immensa e solo famiglie locali - chiaro indice che sono stata portata in uno dei posti più buoni di Amman.
Il gelato è inizialmente una sfida: è elastico e resistente, direi "gommoso", niente a che vedere con la soffice consistenza che ci aspettiamo dal gelato italiano.
Rischio - ovviamente - di farlo cadere e di catapultare la vaschetta sul soffitto come nella peggiore Candid Camera.
Ma quando capisco come affrontarlo, sprofondo nella bontà e nella vergogna. Questo dolce è latte e zucchero, corredato da pistacchi - non esistono gusti alternativi. Ma il vero segreto è il mastic, una resina profumatissima importata dalla Siria che, a quanto pare, è abbastanza proibitiva.
Mi arrendo, soprattutto quando mi accorgo di essere stata la prima a finirlo.
Se è vero che gelato italiano e gelato arabo sono due cose diverse, non sono più tanto sicura che il nostro sia imbattibile.
Vi auguro di provarlo se verrete in Medio Oriente ;-) e fatemi sapere cosa ne pensate! 

giovedì 20 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XXVI: rilassarsi a Paris Square

Ad Amman gli spazi pubblici per l'aggregazione sociale sono praticamente inesistenti. Non ci sono parchi nè spazi verdi nè aree pedonali - ad eccezione dell'avveniristico "Boulevard"
Eppure la sera, quando la mente è piena di pensieri e di fatiche accumulate durante la giornata, Paris Square è in grado di regalarti quel relax soffuso che andavi cercando.
Con l'unica pretesa di trovare un posto dove sederti mentre lasci fluttuare i pensieri nell'aria, la mente diventa subito più fresca e leggera.
Non che questo posto abbia molto da offrire: è una grande rotonda al limitare di Webdeh attorno alla quale le macchine circolano senza sosta - motivo per cui raggiungere la Piazza è la prima grande sfida da affrontare, tra taxisti molesti e conducenti impavidi. 
Ma quando raggiungi la salvezza di uno dei vialetti d'accesso, sei finalmente in un'altra dimensione.
Amo andare lì - in realtà, "andare" non è il verbo giusto. Dovrei dire "fermarmi", dato che è sulla mia via di casa...
Le 8 agognate panchine interrompono delle misere aiuole che potremmo definire semplicemente "distesa compatta di terra rossa".
Ed è proprio in quei 40mq di spazio racchiuso tra le panche che tutto può succedere. Ci sono bambini che corrono, giocano, inseguono il pallone. A volte qualche cane borioso che si vanta di essere la star del quartiere. Qualche impiegato che finisce le chiamate quotidiane, una buona dose di expat - i famosi expat di ElWeibdeh - che viene qui a connettersi con l'Occidente.
Ci sono mamme che chiacchierano e gettano un occhio ai figli che stanno per sorpassare il cordolo della rotonda, alcune ragazze che si pavoneggiano coi selfie. 
Teenager che fumano e ragazzotti che si trovano dopo lavoro.
E poi c'è un ragazzo di colore che improvvisamente, come un rito, arriva sempre a tagliare la strada, l'atmosfera, la piazza e la nostra attenzione con il suo skateboard, e se ne va.
Ci sono le coppiette che vengono qui a mangiarsi uno shawarma perché pur essendo molto diffuso, lo Street food non ha un posto alternativo dove possa essere mangiato (a meno che prendiamo in considerazione le lunghe file di scale).
Qualche gatto può sbucare da un cespuglio, ma ciò cui devi veramente fare attenzione sono i palloni. Sì, perché anche qui, in questo angusto spazio cementato, si svolgono dei veri match improvvisati che coinvolgono vari giocatori, tra i 2 e i 15 anni.
La competizione è forte e non ammette sconti. Quella palla va dribblata, va deviata, va allontanata dalla porta (uno dei vialetti d'accesso). E per farlo, bisogna agire convinti e aggressivi. Così, le deviazioni finiscono sempre col colpire qualche povero expat o uno degli altri astanti.
Poi ci sono le zuffe tra bambini che, ammettiamolo, hanno il loro fascino indiscusso: mentre li guardiamo scontrarsi, sappiamo ammettere che tutti siamo cresciuti così.
Insomma, mentre tutto questo succede, la mia mente si libera, il mio umore si riequilibra, il cervello ristabilisce le priorità.
Grazie Paris Square, Grazie Duar Baris, grazie soprattutto per essere la barzelletta di tutti gli expat che sorridono di fronte alla difficoltosa pronuncia locale di quella "p", una specie di sfida locale all'Occidente.



** come potrete capire, questi melanconici pensieri di fine giornata possono essere stati scritti solo lì, in quella caotica atmosfera che spiega le numerose sgrammaticature. Eppure, a me piace così ;-)