Langas, lo slum a Nord di Eldoret, è uno scenario lontano dagli slum di Calcutta. Bastano pochi minuti per far vacillare l'idea che gli slum siano tutti uguali. Qui gli spazi sono più ampi, l'elettricità si catapulta al suo interno con tralicci immensi che delineano il profilo in ogni punto dell'orizzonte. Le strade sono cariche di vita e di attività, caotiche, rumorose, disordinate. Ci sono i matatu, i minibus locali, che ingombrano entrambe le carreggiate con le loro mosse imprevedibili, poi ci sono i picky-picky, le motociclette, con il loro fare ondeggiante e i loro autisti che aspettano ad ogni angolo il nuovo cliente. E poi, le bici, ferruginose e scricchiolanti, che spesso diventano mezzi di trasporto per carichi improbabili, sempre al limite dell'equilibrio.
Qui le case non sono di cartone, e nemmeno di paglia. Sono di fango, imbrigliato in rudimentali strutture di legno, o di legno, o lamiera. Sporadicamente, nella povertà del luogo, emergono alcune ville. Sono recintate, protette, rassicurate dalla scritta sul portone: "attenti al cane". I miei accompagnatori ridono di quel deterrente, si prendono gioco dei loro padroni, confinati nel proprio idillo d'oro e obbligati ogni giorno a temere i propri vicini.
Mi chiedo se queste case siano state costruite prima o dopo che lo slum si diffondesse tutto intorno.
Passeggiamo nelle strade fangose, sconnesse da giorni di pioggia violenta che non lasciano tregua, e nemmeno spazio per la stagione secca. Lo chiamano "cambiamento climatico" anche qui.
La privacy degli abitanti è protetta da dei rudimentali recinti di legno: da fuori puoi solo indovinare le dimensioni e lo status socio economico (che varia da povero a molto povero a tragicamente povero) dell' household (è strano che in italiano non ci sia una parola per indicare un insediamento abitativo per più persone, autonomo e separato dagli altri, che non sia la parola "casa". La parola casa trapela accoglienza, stabilità, comfort, mentre questi household sembrano così precari, i proprietari /affittuari si sono ritagliati un po' di aria nel caos dello slum giusto per sopravvivere, ma spesso sono costretti a condividere con (molti) altri. Nella stessa stanza cucinano, dormono, e i bambino studiano e giocano).
Entriamo in uno di questi 'nuclei abitativi', ci sono tre splendide donne ad accoglierci. Una sembra molto preoccupata, freme tenendo in mano il telefono.
Un'altra chiama i bambini per vedere la 'mzungu', la prima persona bianca che entra nella loro casa. La più grande viene a stringermi la mano, come si usa qui. Un gesto un po' troppo formale per l'atmosfera africana, forse un remissivo retaggio colonialista. Il bambino più piccolo mi guarda un po', è eccitato: la mamma mi ha descritto come una sorpresa. Ma quando mi vede si spaventa, e si mette a piangere.
È strana, questa sensazione di "bianchitudine". Per i bambini dei villaggi o degli slum, i bianchi sono creature che hanno visto solo nei libri. Mi studiano con circospezione, credo che mi considerino un umano che non ha ancora raggiunto il suo ultimo stadio di maturazione. Ridono, sghignazzando tra di loro. Se non sapessi che qua si usa così, probabilmente mi offenderei. Ma mi dimostrano la loro amicizia, sono accoglienti, mi vogliono stringere la mano, vogliono che scatti loro una foto.
Quando usciamo da questa casa, Jason, il mio accompagnatore, mi spiega che la donna era agitata perché la figlia è in ospedale. Ha appena partorito, e ha solo 14 anni. Si sente in colpa, le neo nonna, perché un giorno ha lasciato la casa incustodita ed è andata in campagna, in cerca di cibo. E questa negligenza obbligata, di cui non poteva fare a meno, le è costata cara: qualcuno ha bussato alla porta e ha abusato della ragazza.
Ieri sera, la stessa sera di questa storia, Rula Jebreal parla a Sanremo e racconta di sua madre, abusata a 13 anni e finita suicida. Forse possiamo solo parlarne così, da donne, con la freddezza che circonda la consapevolezza di un orrore globale.
Proseguiamo, e arriviamo a una scuola. I bambini mi guardano dai cancelli e un signore, seduto all'ombra su una sedia di plastica, ci invita ad entrare. È il direttore. Questa scuola accoglie orfani, bambini rifiutati dalle famiglie, figli di tossici o alcolizzati. Provvede tre pasti caldi al giorno, educazione gratuita, uniformi e materiali. Si finanziano dividendo i proventi delle tasse di iscrizione di chi può permettersi di pagarle.
Ci sono due bambini che giocano sotto il sole, sporadicamente colpiti dall'ombra della bandiera nazionale che sventola a mezz'asta: oggi è morto Moi, 96 anni, secondo presidente nella storia del Kenya.
Girato l'angolo c'è il parchetto della scuola. Ci sono almeno 200 bambini. Il preside mi trascina dentro, i bambini sono stupiti ma giudiziosi, cercano di rimanere composti: "oggi abbiamo un'ospite speciale, credo che mai, nella storia della nostra scuola, siamo stati visitati da un Mzungu!".
Tutti ridono, i bambini urlano per l'emozione. Il preside mi chiede se posso salutarli (uno a uno, con una stretta di mano!), ma la cosa si fa complicata, e appena mi avvicino a quelli in prima fila, tutti mi si gettano addosso, aggrappandosi ai miei polsi, nella speranza di raggiungere con un tocco almeno un centimetro della mia pelle. Ho un braccialetto con delle coccinelle, mi chiedo come sia ancora con me invece di essere stato smaterializzato dalla forza incontenibile dei bambini.
Tutti ridono, i bambini urlano per l'emozione. Il preside mi chiede se posso salutarli (uno a uno, con una stretta di mano!), ma la cosa si fa complicata, e appena mi avvicino a quelli in prima fila, tutti mi si gettano addosso, aggrappandosi ai miei polsi, nella speranza di raggiungere con un tocco almeno un centimetro della mia pelle. Ho un braccialetto con delle coccinelle, mi chiedo come sia ancora con me invece di essere stato smaterializzato dalla forza incontenibile dei bambini.
Appena il preside dice 'pole pole', 'piano piano', torna l'ordine e mi fanno spazio. Si aspettano che io dica loro qualcosa, ma questa visita è casuale e non prevista. Non sanno dove è Liverpool, e nemmeno l'Italia. Mi raccomando loro di studiare tanto, e di farlo per il loro futuro. Sembrano convinti, finché uno dei più grandi fa crollare tutte le certezze: "u dont need books to run: look at Kipchoge!" (non ti servono i quaderni per correre: guarda Kipchoge!).
Il maratoneta più forte di sempre, quello che ha battuto il muro delle due ore, vive a Eldoret. È il loro idolo, ovviamente, indistintamente tra maschi e bambine.
Qualcuno, più razionale, dice che vuole diventare pilota, qualcun'altro avvocato.
Una ragazzina, intimidita, sembra cercare le parole più adatte, ma poi francamente mi chiede "why you are like this?", "perché sei così?".
Gli adulti ridono, provo a dirgli che in Inghilterra non c'è il sole, e che in Italia non è così forte. Ma contrattaccano: "quindi se resti qui, diventi come noi?".
Mhm, magari!
Sempre la stessa ragazza mi chiede se possono vedere i miei capelli. In effetti, non ho realizzato quanto sono bardata: vestiti lunghi contro gli insetti, occhiali da sole da cicala perche tutto rifulge, e la bandana nei capelli per evitare un'insolazione. Nessuno osa tirare uno dei due lacci che la stringe, ma appena faccio il movimento per slacciarla, il foulard fugge via, tra le mani di un monello. Nessuno lo realizza, perché parte un "ohhh" collettivo quando i capelli, liberati, fuggono qua e là. Tutti li vogliono toccare. Si sa, le donne africane non hanno i capelli lunghi, e soprattutto non li hanno lisci, biondi e soffici. Una bambina è riuscita a strapparmene uno, e lo scruta con le compagne con fare scientifico, come facesse una biopsia.
Tante cose sono successe, ma ero troppo circondata, in un certo senso "sopraffatta" dai bambini in questa visita inaspettata da rendermene conto.
Li saluto, proseguiamo. Torniamo sulla via principale. Qui gli adulti si dedicano alle loro attività. Vendono prodotti, offrono servizi. Una donna mi allunga un pesce affumicato davanti alla faccia. Un ragazzo si avvicina così tanto e così repentinamente che in qualche modo mi spavento. Poi tira fuori da una tasca un mango, e ce lo regala.
Io e Nancy saliamo sul matatu, è tempo di tornare in città. Ci schiacciamo tra i sedili, che sono a prova di dieta dal tanto che sono stretti. Ma in qualche modo ci entriamo, e partiamo: 20 persone in 14 sedili, musica a pallettoni, finestrini abbassati, in un mix di sudore e di duro lavoro. Un mio caro amico dice sempre "Serena, u like shitty places" (Serena, ti piacciono dei posti orribili!). Non so come sia possibile, ma è cosi. Nancy lo realizza, e vede quanto sono felice. Facciamo un selfie, per le buone memorie e per l'umanità incontrata, risvegliata, e mai sufficientemente immaginata, che si ritrova qui, a Langas.