Anche per Aziz è arrivato il giorno del commiato, della partenza, del salvataggio. La sua famiglia ha deciso che non c'è più tempo per metterlo in salvo, raggiunta quell'età pericolosa in cui sei giovane e forte e diventi bersaglio prediletto per le milizie del governo.
I demoni a cavallo, così li chiamano in Darfur, uccidono chiunque possa unirsi ai "ribelli". Ovviamente, non c'è modo di convincerli che loro sono solo una famiglia come tante, dedits all'agricoltura e al commercio su piccola scala.
Aziz parte, con il cuore in gola e con l'unica speranza di rivederli ancora. Con l'unico desiderio che un giorno possa riabbracciare mamma, papà e le sue tre sorelle. Non importa quanto si debba aspettare, l'importante è saperli vivi.
Ad oggi, sono passati dodici anni. Aziz li conta, dal 2006 ad oggi, sulle dita delle mani. Sono troppi, eppure non ha perso la speranza. Per anni non ha avuto loro notizie. Solo quando ha lasciato il Sudan per venire in Giordania, con molti dubbi e con l'unico desiderio di tornare in Darfur anche solo per qualche ora, un lontano cugino lo ha sconsigliato. "La situazione peggiora", dice. Peggiora, peggiorare rispetto a cosa?
Aziz ha vissuto per otto anni nella periferia di Khartoum. É arrivato nella capitale vagando come un pazzo, senza contatti o persone fidate.
Qualcosa lo ha spinto a rifugiarsi in campagna, ai lati della città.
Un giorno si sveglia e c'è un uomo che lo chiama, incuriosito da quella presenza ai margini del suo podere. É un contadino, sembra "innocuo", ma Aziz non si fida. Sa bene che il governo ha messo spie in ogni dove per trovare i Darfuriani e continuare il massacro.
Resta sul vago, ma il suo accento è chiaro e teme il peggio. Ma la fortuna vuole che ha incontrato un uomo mite e di cuore: lo porta nella sua fattoria, gli dà da mangiare, gli permette di dormire in un posto coperto.
Aziz è un "omone": fatico a immaginarlo timoroso, spaurito, spaventato. Eppure non ha problemi ad ammettere che per giorni è morto dalla paura, aspettando qualche "ufficiale" del governo che lo uccidesse lì, in quella fattoria ai margini della capitale.
Ma i giorni passano e nessuno arriva. Il buon uomo comincia a sembrargli fidato. Aziz non ha piani, non ha un posto alternativo dove andare nè un lavoro da cui ricominciare.
Così accetta di rimanere e di aiutare quel sudanese "puro", senza geni darfuriani o cristiani, a portare avanti la sua fattoria.
In quegli otto anni imparerà un mestiere, si occuperà delle bestie, della mungitura, del raccolto. Ogni azione gli ricorda i bei tempi in cui, col padre, curava la campagna e poi tornava a casa e trovava la madre intenta a cucinare i prodotti del loro raccolto. Il Darfur era una terra rigogliosa, ricca di acqua e di risorse. La maggior parte della popolazione era ricca rispetto alla media sudanese, ognuno aveva una fattoria, del bestiame, ognuno era impiegato nel commercio su piccola scala. Una terra da depredare, almeno dal colpo di stato del 1989.
In quegli anni Aziz si impegna soprattutto in una missione: dimenticare le sue origini. Ogni giorno pratica il dialetto locale, nella speranza di perdere il suo accento. Ogni giorno impara usi e costumi del posto, cercando di nascondere le sue origini.
Nel frattempo, ha messo via un po' di soldi e decide di iscriversi all'università. Continuerà a lavorare nella fattoria, facendo da "pendolare" tra la campagna e la città.
Il primo giorno di università, un uomo gli si avvicina e gli chiede "ehi amico, da dove vieni?". Aziz ha un tremito. "Da Khartoum". "Da Khartoum? Non sembri di qui! Non assomigli alla gente di Khartoum". "Ma sì, sono di Khartoum, è che vengo dalla campagna". "Ah, dalla campagna, ecco il perché di questo insolito accento". Aziz è conscio che quella possa essere una spia. Sta per mostrargli il passaporto, con il suo nuovo "National number". Ma poi lascia correre, cerca di sembrare disinvolto.
Aziz si è laureato in Business and Administration. Poi è venuto in Giordania, perché la cosa più importante per lui è "connettere le persone, continuare ad avere speranza, dare un senso alla propria vita anche fuori dal Sudan".
Oggi lavora in una NGO che si occupa di rifugiati. Qualche giorno fa è riuscito a recuperare il numero della sua famiglia, grazie all'incredibile solidarietà africana. La sua famiglia ora vive in un campo profughi in Sudan. Ha parlato con sua madre dopo dodici anni. Mi chiedo come faccia ad essere così forte, così positivo, così grato. Mi chiedo come faccia ad anteporre ancora la speranza alla malinconia, alle preoccupazioni e al dolore.
Quando arriva a casa mia è voglioso di parlare, è eccitato dall'idea di raccontarmi la sua storia.
Quando finisce di parlare, mi abbraccia e mi dice "I am sorry, this is too much for a girl".
For a girl.
Attonita, resto lì immobile a cercare di immaginare la sua vita. Nel frattempo, Aziz prepara un tè, in un certo qual modo, mi consola.
Poi sdrammatizza: "sono vivo".
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