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mercoledì 5 settembre 2018

SENSI di VIAGGIO XII: Viaggi, porti sicuri e nuove speranze. Il caso dei Somali in Giordania

In Giordania ci sono circa un milione e mezzo di rifugiati Siriani, un terzo dei quali registrati presso l'UNHCR come richiedenti asilo. Il rapporto con la popolazione locale è di circa 89 rifugiati ogni 1000 abitanti. E' cosa nota che la Siria non sia un porto sicuro...
Oltre a loro, ci sono circa 5.000 rifugiati africani, provenienti dal corno d'Africa e dal Sudan.

Foto di Alice Su

Fin dai primi giorni, gironzolando per il lussuoso quartiere di IlWeibedh, mi sono accorta di loro. Come poteva esser altrimenti, dato che qui, nella gloriosa fratellanza panaraba, iraqeni, siriani e palestinesi si adattano a usi e costumi e sono praticamente indistinguibili ai miei occhi.
Lo ammetto: mi sono stupita così tanto di trovarli qui che sono andata un attimo a vedere sulla carta geografica il viaggio che devono aver fatto per arrivare in Giordania.

khartoumprocess.net

Non sono riuscita a trovare una mappa specifica, ma in cuor mio spero che facciate un pensierino su tutte le freccette che vedete, giusto per avere una visione un po' più ampia del fenomeno.
Ecco: ora cercate Jordan. Non è difficile capire che i più "fortunati" sono gli Yemeniti, che hanno dovuto attraversare "solo" il lussureggiante deserto saudita per arrivare fin qui.
I sudanesi sono quasi tutti profughi del Darfour, a ovest del paese: tutti abbiamo sentito "i bambini dei Darfour", "non siamo mica in Darfour", "la guerra del Darfour": ecco bene, non che si parli ancora di falsi profughi o boiate varie. Loro, se è andata bene, hanno dovuto superare l'Egitto, anch'esso una splendida pianura ricca di delizie, attraversare il Golfo di Aqaba e intrufolarsi in Giordania, curandosi bene di non infastidire Israele.
I Somali, invece, hanno spesso cercato un "porto sicuro" dentro il loro stesso paese, diventando degli IDP - internally displaced people nel Somaliland, uno stato autoproclamatisi indipendente e leggermente meno turbolento della sua terra madre.
E' proprio sui Somali che mi vorrei concentrare per fare quello che ritengo essere un interessante parallelismo con la migrazione contemporanea italiana.
I Somali vivono in guerra dal 1986, cioè dalla morte del Generale Siad Barre che, come potrete capire, dall'alto del suo ruolo non svolgeva certo la funzione del benefattore. Ma che, un po' come il nostro alleato Gheddafi, sapeva tenere in pugno il paese e "calmare" potenziali insorti. A dirla tutta, anche Siad Barre era nostro alleato, dato che considerava la Somalia "la ventunesima regione d'Italia".
Dalla sua morte, si alternano al potere gruppi di rivoltosi, movimenti indipendentisti, fondamentalisti islamici che hanno portato a una crisi umanitaria e a mezzo milione di vittime.
I Somali, che anche loro sono dei veri rifugiati, hanno cercato riparo in Yemen, un paese fragile dal punto di vista politico e religioso, ma che fino al 2015 vantava una certa stabilità. Quando è scoppiata la guerra, non se ne sono andati solo gli Yemeniti ma, ovviamente, anche i nostri affezionati Somali, abituati a cercare una destinazione più sicura. Per essere attuali, un "porto sicuro"...
Porto sicuro, sarebbe bello se questa espressione fosse solo una metafora: e invece no, è proprio di porti navali che parlano Ministri dell'Interno, Presidenti all'Eliseo e tutti gli altri amici della "combricola". E così, pur nel suo significato più autentico e concreto, il "porto sicuro" è solo un concetto vuoto, ma politicamente troppo pesante: una patata bollente che "quelli che stanno in alto" si rimpallano da mesi.
La Libia non è un porto sicuro o almeno: non lo è più. Lo è stata, non senza discriminazioni, assoggettamento e schiavitù, per tanti Subsahariani che fuggivano dai loro paesi in cerca di un futuro migliore. Per chi fuggiva dal Gambia per le sue idee politiche, per i cristiani perseguitati nel Nord della Nigeria, per i Maliani cacciati dagli islamisti. Lo è stato per tutti, anche per chi si è fatto accecare dalle promesse di un Gheddafi braccato nell'embargo e in disperato bisogno di alleati - e di forza lavoro. I negri, e uso questo termine per rivendicare con fierezza la dignità spesso calpestata di queste persone, sono diventati gli schiavi dei libici e per anni sono sopravvissuti, nel bene e nel male, dentro le maglie larghe di una Libia lussuosa.
Ora la Libia non è più un porto sicuro, non lo è più in modo definitivo e per l'intersezione di così tanti fattori che portano a un'unica conclusione: da schiavi a capri espiatori e fonte di lucro.
Così, i negri fuggono e arrivano sulle nostre coste in cerca di un porto sicuro. Riprendono il viaggio, ripartono con la loro sacca vuota di effetti e colma di sofferenza. Arrivano in Europa, così come i loro fratelli Somali arrivano in Giordania, lasciandosi Libia e Yemen alle spalle. Ricominciano il viaggio.
Il viaggio della speranza.
Mi viene un po' di amarezza a pensare che, in questo parallelismo, c'è una cosa che collima più delle altre: Somalia, Libia, ex colonie italiane. Sarà un caso?

"Periodi della mia vita senza una trama precisa

Tempi brillanti in salita, l'ansia della discesa

Ci sono nuove colonne laggiù alla fine del mare

Ci sono spiagge dovunque da cui ricominciare"






Questo post non ha nè pretese scientifiche di indagine dei fenomeni, nè politiche. Ho solo voluto mettere per iscritto una mia suggestione estemporanea e restituire una mia personale interpretazione del fenomeno - validata da certe verità oggettive.


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