Ho preparato la mia partenza per la Polonia senza tanti
cerimoniali, fino all'ultimo affannata tra le cose da ultimare e l’esigenza
compulsiva di una stressante routine. Sono partita senza troppe aspettative,
con l’unica speranza di trovare un po’ di tempo per me, per staccare dalla quotidianità e anche per
allontanarmi dal peso degli ultimi mesi.
Mi sarebbero bastati alcuni corsi interessanti all’università,
giusto per mantenermi motivata, qualche docente intrigante e appassionato del
suo lavoro, la garanzia di buone librerie e di posti sempre nuovi da vedere.
In fondo la nostra è la generazione della disillusione:
siamo cresciuti nei ritmi di una politica stagnate, di un’economia decadente,
imboccati a forza di spread, inflazione, disoccupazione e della costante
certezza che non verremo mai ricompensati per gli sforzi e i sacrifici che
faremo. L’Italia non è l’America dei self-made men (and women!).
Sicché sbarco qua, tante idee nella testa e altrettanti
progetti nel cuore. E mi capita di parlarne, perché alla fine, se ci tieni a
qualcosa, puoi essere disillusa quanto vuoi, ma sarà quella cosa che ti guida,
che guiderà i tuoi pensieri e i tuoi movimenti, l’inconscio flusso delle tue
azioni.
Scrivo qualche mail per esporre il mio progetto di
tesi, per cercare materiali, più per
curiosità che per effettiva praticità d’uso. Vorrei sapere come fanno qui, come
lavorano nelle scuole, negli asili, nell’enorme ambito della pedagogia per
l’infanzia. Sono qui per studiare nella più antica accademia pedagogica della
Polonia, “la novantenne Akademia Pedagogiki Specjalnej in Marii Grzegorzewska”,
come canta il sito (http://www.aps.edu.pl/).
Mi ritrovo a parlare di intercultura, di integrazione, di
progetti per l’infanzia. Scopro il mondo di Korczak, eroe del Ghetto di
Varsavia, morto a Treblinka con i bambini del suo orfanotrofio. Ogni giorno a
lezione mi scopro a fissare la sua foto
con rispetto, empaticamente legata a quello che loro considerano il più alto simbolo
della dignità polacca.
Mi espongo su Bruno Munari, una passione davvero senza
confini. Era lui che consigliava di portarsi sempre qualcosa da casa, quando si
è in viaggio, qualcosa che ci ricordi le nostre radici. Per questo creò le
“sculture da viaggio”: se dovessi creare la mia, sicuramente avrebbe le sue
opere e il suo nome su ogni lato - come in una sorta di cerimoniale volto al
culto della personalità.
Scultura da Viaggio, Bruno Munari, 1958. Fonte: Munart.org |
Creatività, immaginazione, fantasia: sono queste le parole
chiave su cui trovo riscontro, ciò di cui i bambini di oggi hanno bisogno. In
Polonia come in Italia. Lavorare su ciò che non c’è, ma che potrebbe comparire,
per aprirsi al contatto, al diverso, all’imprevisto. Per imparare a studiare
nuove soluzioni di fronte all’incalcolato.
A molti dico che ho un libro speciale su cui lavorare, un
libro che però non posso spiegare, perchè non si può capire finchè non lo si
vede. Annuncio solo il suo nome, nella speranza che qualche curioso si fidi di me e lo vada a cercare: Codex
Seraphinianus.
È così, si potrebbe dire per la mia lingua troppo lunga e la
mia entusiastica ingerenza – forse sarebbe meglio dire, come mi suggerì
un’amica qualche anno fa, “per la capacità persuasiva che ottieni con i tuoi
giri di parole” - che vengo invitata a parlare di tutto questo. Mettiamo subito
le cose in chiaro: si è trattato “solo” di un workshop per insegnanti, non di
una conferenza per la Pace. Ma quando ho ricevuto quella proposta, un sabato
pomeriggio piovoso e già quasi invernale nella frenetica confusione di questa
città, tutto per un attimo si è fermato. I pensieri, le emozioni, la ragione.
Mi sono detta: cosa? Davvero a loro interessa quello che faccio?
In Italia, quando mi capita di parlare di Munari ai “non
addetti ai lavori” – quella che segue
potrebbe essere una critica – ricevo sempre la medesima reazione: no, non lo
conosco. Ah ma quindi che lavoro faceva? Era un architetto o un maestro? Ma
quando è vissuto? Nel ‘900? E a questa reazione segue una fase di blando
rilassamento sulla mia spiegazione, per poi disperdere il tutto nella
leggerezza di una conversazione qualunque.
Assaggio di Bibliografia munariana. Fonte: Munart.org |
Arrivo qua e “basta” uno scambio di mail per conquistarmi interesse,
entusiasmo e soprattutto fiducia da parte di altrettanto “ignoranti” sul campo.
Insomma, perché non è successo a casa mia? Abito a Milano da tre anni, la città
delle grandi opportunità, in cui puoi trovare e avere tutto quello che speri.
Ok, forse questa descrizione è eccessiva, ma io sono pur sempre una ragazza di
campagna – o meglio:di montagna – e davvero la città rappresenta l’apertura,
l’occasione, l’alternativa.
In più, se fossi stata in Italia, avrei avuto molti problemi logistici in
meno…
Passata la fase di fibrillazione e sconcerto iniziali, cerco
di organizzare le idee. Oddio: adesso cosa dico? Cosa preparo? Che linea seguo?
E soprattutto mi rendo conto che mi mancano i miei libri: non solo nel senso
che ne sento la mancanza, ma nel senso che mi mancano proprio, che non li ho
con me. Per scarsa lungimiranza - e la solita questione della disillusione - non
avevo seguito il consiglio di portarmi almeno il Codex – “almeno” si fa per
dire: ingombro pari a 30x20cm per 2,3 kg – e nelle orecchie la voce “le
opportunità si creano, sapevo che ti sarebbe successo”.
Domenica scorsa – 8 novembre 2015, per i posteri - arriva
QUEL giorno, quell’occasione per la quale mi sono ritrovata a lavorare nelle
ultime tre settimane.
Ho steso una bozza su come condurre il mio workshop,
preparato un volantino – in polacco! – da dare ai partecipanti, sistemato le
immagini da proiettare. Mi rassicuro nella consolante certezza che i libri di
cui parlerò sono finalmente arrivati dall’Italia e che, con dei libri così, se anche l’incontro dovesse andare male, se
anche dovessi perdere il filo, se anche mi dovessi trovare spiazzata da qualche
infida domanda, potrò sempre ripiegare sulla loro connaturata attrattiva.
Volantino in versione polacca (Serena Saligari © 2015) |
Sono preoccupata che il mio traduttore non si barcameni nel
mio “inglese”, unica lingua tramite tra me e i polacchi. Ho 42 occhi puntati su
di me, 42 occhi che sicuramente, per quanto io possa essere insignificante, stanno facendo elucubrazioni mentali su quali
possano essere la mia età, il mio lavoro, le mie competenze e soprattutto sul cosa ci faccio io italiana di
anni 21 – nel frattempo l’età l’avranno scoperta - a parlare in un workshop
sull’intercultura in questa fredda città del Nord Europa.
Ma in realtà appena inizio a parlare, a toccare i libri e a
sfogliarli per insegnare qualcosa, per comunicare un po’ delle mie passioni e
delle mie idee, non appena muovo le mani per gesticolare – è molto
folcloristico, tra questi slavi riservati – e mostro qualche foto dei nostri
lavori in Italia, dei nostri progetti, delle nostre attività, mi sento come a
casa. È stato in quel momento che mi sono resa conto di che cosa vuol dire per
me “casa”: non l’Italia, non la
Valtellina e nemmeno il posto in cui sono nata. Con quel “casa” intendo
l’accogliente e rassicurante alveo delle cose che mi piace fare, su cui amo
investire. “Casa” è quello su cui spendo energie, tempo e denaro nella costante
certezza che mi farà stare bene, qualunque che sia il guadagno. “Casa” è il
posto in cui puoi tornare anche se sei lontano, immergendoti nella certezza che
sei lì per fare quello che ami fare.
Quella domenica pomeriggio, “casa” ha rappresentato finalmente la certa
via da percorrere, in una giovinezza che ti indaga e che ti scava dentro
perplessità e interrogativi.
Ah sì: il pubblico. Beh ovvio, l’incontro è andato bene,
altrimenti non sarei qui a parlarne. Tutte le insegnanti erano attente e
interessate. Molte si sono addirittura sforzate di usare il loro inglese
maccheronico – oddio, come sarà la versione polacca di maccheronico? Pierogico?
– per farmi delle domande specifiche sui risultati che abbiamo potuto
riscontrare nei nostri lavori in Italia. La signora più anziana del gruppo ha
addirittura voluto che le facessi vedere come ordinare il Codex tramite
internet, per poi dirmi che mi contatterà se non dovessero spedirlo in Polonia!
Copertina del Codex Seraphinianus (Ivan Previsdomini © 2015) |
Il perché di questa occasione qui, e non in Italia, non mi è
chiaro. Forse è solo il Caso, forse la Ruota della Fortuna o forse una
decisione scritta nel mio personale Destino. Forse dipende dal fatto che in
Italia le idee sono spesso intralciate dai mille ostacoli che siamo bravi a
crearci. Forse, invece, dipende dal fatto che in Polonia sono assetati di
novità e occidente. Forse la Polonia è solo una nazione tra tante, poteva
succedermi in qualsiasi stato del Mondo: ma comincio a pensare che questo
freddo Paese sia più accogliente di molti altri
Bei Paesi.
Quello che però mi piace vedere con i miei occhi e sentire
sulla mia pelle sono il risultato e l’emozione di essere riuscita a fare quello
che da tempo speravamo. Portare Bruno Munari e l’idea del Codex all’estero.
La Polonia mi ha offerto un posto per la mia “casa” ed è
bello sapere che, se vorrò, potrò continuare a spostarla.
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