Sono stata rilasciata, ma resto in libertà vigilata.
La giornata è iniziata quando, alle 7 del mattino, la padrona di casa è entrata in camera sbattendo la porta e dicendomi "breeeekfast for you!": le uniche 3 parole in inglese del weekend, probabilmente le uniche che le serviva capissi.
Mi alzo in modalità coma, e ad aspettarmi c'è un uomo che strilla le note di Toto Cutugno con una pentola in mano: è il fratello della padrona di casa, che è stato in Italia tanti anni ed è venuto apposta per conoscermi. Per onorare la mia presenza ha portato questa 'pizza senza pane' - pomodori e mozzarella disposti coreograficamente - che mi fa sorgere il dubbio che in Italia ci sia stato davvero. C'è un aroma di aglio e cipolla che nel frattempo ha scacciato tutte le streghe d'Asia.
Ha degli improbabili pantaloni bianchi con la scritta "Italia" sulla gamba, non riesco nemmeno a presentarmi che dice con un refrain 'ma che bella ragazza e simpatica!'. Passi il 'bella', che son gusti, ma 'simpatica'? Sono ancora nel mondo dei sogni e il suo flusso di parole mi ha permesso a mala pena di dire "piacere di conoscerti!".
Decido di prendere tempo e di cambiarmi almeno il pigiama: indosso degli altrettanto improbabili leggins felpati leopardati regalatami dalla padrona di casa la sera prima - e che ovviamente non c'è stato modo di rifiutare.
Facciamo colazione, sempre su quel delizioso terrazzino vista città. Tutta la famiglia: i padroni di casa, le due figlie, il figlio di una di queste, io e lo zio d'America, pardon: d'Italia.
La padrona di casa mangia e danza contemporaneamente, sprigionando energie, il marito la guarda e scuote la testa con fare bonario, le figlie assorbono quella positività familiare e ridono, coccolando il padre prima che vada a lavoro.
Ore 7.45. Tutto si placa, gli uomini se ne vanno e rimaniamo solo noi donne - più il bambino che, avendo dormito vicino a me, mi ha svegliato alle 2 di notte con un calcio in piena faccia e conseguente "sanguedanaso".
Ci mettiamo lì, in salotto, e ci concediamo finalmente il piacere di svegliarci con delicatezza: beviamo caffè, fumiamo un po' di shisha, mangiamo noccioline sputando i gusci sul pavimento - e guai a te se provi a metterli in un angolino.
Poi la figlia più grande si attiva, decidendo che sono la sua nuova "living doll": mi fa le sopracciglia, mi pettina, mi mette un "leggero" make up. Sono in un tale stato di relax che mi sto per "abbioccare": mi riprendo quando sento una strana sostanza gommosa strisciare sulle mie braccia.
Apro gli occhi e... Zac: Majeeda ha deciso di farmi la ceretta.
Sono sconvolta, non so se vergognarmi di fronte al suo lisciume o se rivendicare anni di battaglie sociali in difesa della libertà di scelta, almeno sulla depilazione.
Ormai ha iniziato, e capisco che non posso più sottrarmi. Cerco di ritrovare un po' di relax, abbandonandomi al mio destino e accettando la mia nuova situazione di passività.
Ma il bello deve ancora venire! La mamma arriva e mi strattona il vestito, facendomi capire con mooolto grazia che devo toglierlo. Li. In terrazza.
Arriva con un bellissimo vestito palestinese, colori sgargianti e vivi. Me lo ficca in testa, pretende di sistemarmi la sottoveste e mi trascina al centro della sala. Si balla.
Parte una playlist di canzoni folkloristiche palestinesi: solo io e lei balliamo, le figlie fanno le videomakers e spammano la mia immagine a incalcolabili cugini e amici dentro e oltre il confine. Il refrain è sempre lo stesso e mescola strani vocalizzi con il chiaro "Filistini! Filistini!".
Così sia, dato quello che sto mangiando in questi giorni, ballare può essere pure salutare. E così, tra le cose improbabili che potevano succedermi, la più ridicola di tutte sono io che ballo e la padrona di casa che fa cori da stadio a ogni mio movimento.
La figlia minore, forse gelosa, mi porta in camera sua: ''dai che si riposa, ora sono libera!''. E invece no: mi spoglia (!!!) e mi obbliga ad entrare in un attillatissimo vestito rosso di tre taglie più piccole - facciamo pure 4 - che sul fondo e sulle maniche ha una sequenza incalcolabile di specchietti.
Vuole che io balli ancora più forte, facendo ancora più rumore. Arriva il bambino, probabilmente attirato dal frastuono che produco, e mi esprime inconsciamente solidarietà ballando quelle musiche tradizionali con gesti da rapper.
E si balla, e "balliamo sul mondo", a finestre aperte, a porte spalancate, col palazzo che trema, la maqluba che bolle e la città che si riflette immobile nei nostri occhi fino a trasmettermi una gioia e una sicurezza tale da pensare: "Amman, sono a casa".
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